Guerra e pace nei Balcani
(a cura dei PO di Milano)
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Ora che gli occhi non sono più catturati dai voli degli aerei di guerra e dai loro ordigni intelligenti; ora che le orecchie non sono più ostruite dal rumore assordante delle esplosioni, delle sirene e degli speakers di regime; ora che appare con crudele trasparenza lo scenario di distruzione, certamente peggiore rispetto alla situazione precedente all’inizio dei bombardamenti; ora, “a bombe ferme”, è possibile provare a distinguere i fatti dalla propaganda? E possibile, almeno adesso, problematizzare l’isteria sciovinista scatenata per demonizzare i serbi e tentare un minimo di analisi di quanto è accaduto e continua a succedere? Noi proviamo ad offrire alcuni testi sulla guerra dei Balcani. Una piccola antologia di “scritti corsari”: dalla parte del torto e con la pretesa di assaltare la gloriosa nave-crociera sulla quale i detentori del potere economico, politico e militare, insieme ai loro intellettuali di corte (Una nave stracolma all’inverosimile!), viaggiano tranquilli senza il minimo dubbio sulla rotta scelta (il “nuovo ordine mondiale”).
Impotenti, abbiamo visto solcare percorsi che ritenevamo definitivamente abbandonati. Cosa possiamo fare? Se non sembra attualmente in nostro potere (almeno non nell’immediato) fermare la nave, costringere a cambiare rotta, possiamo tuttavia graffiarne la vernice, mostrare la ruggine. Un lavoro di controinformazione per arginare la mistificazione dell’informazione dominante.
I documenti che proponiamo non contengono tutta la verità e, tuttavia, da ciascuno di essi è possibile prendere dati e conoscenze da rielaborare. La resistenza al male non può limitarsi alla sfera del pensiero, alla presa di posizione intellettuale. Per essere efficace, deve essere globale. Ma se il male si traveste da “angelo della luce”, se la bancarotta morale è presentata come scelta etica, allora occorre ripartire dal nominare i fatti, fare l’analisi logica, tenere desta ‘attenzione, applicare l’intelligenza.
Non possiamo rimanere in questa situazione senza pensare, senza reagire; ma la verità è che in questo mondo tutto ci sta spingendo in questa direzione: ciò che abbiamo di più sacro, che è il pensiero, ce lo stanno togliendo.
Non chiedo tanto, chiedo una ribellione etica, perché non abbiamo armi, né potere, né forza, ma abbiamo una cosa, che è la coscienza, e cioè la responsabilità di ciascuno di comportarsi da esseri razionali, come dovremmo essere, anche se a volte ho dei dubbi…
La cosa peggiore che potrebbe succedere alla specie umana è questo: che ci trasformiamo in una specie di mostri di egoismo e che ciascuno pensi solamente al suo successo personale e che gli altri se ne vadano pure in merda. Ma allora c’è bisogno di qualcosa, c’è bisogno che le coscienze si sveglino e che ognuno pensi che tutto quello che sta succedendo ha a che fare con la sua vita, anche se non sembra.
(José Saramago)
A. LE MENZOGNE
1. IL “DRAMMA UMANITARIO” USATO COME ARMA
Il dramma dei profughi del Kossovo e gli orrori che lì vi avvengono non possono essere giustificati. Ma chi ha scatenato questa sporca guerra li ha messi cinicamente in conto come arma da godere per ottenere il consenso di massa. E non si può dimenticare che coi massacri ci sanno giocare:
– per screditare Ceausescu, nel 1989 vennero mostrate a tutto il mondo le vittime del massacro perpetrato dalla “Securitate” a Timisoara in Romania. Solo mesi più tardi si venne a sapere che la scenografia era stata creata artificialmente riesumando i corpi del vicino cimitero e mettendoli sui tavolacci dell’obitorio;
– per appassionare l’opinione pubblica all’intervento armato in Irak, nel 1990 furono mostrate le immagini di un videoamatore che ritraeva i cingolati irakeni che entravano in Kuwait City. Quelle immagini erano state girate in studi cinematografici USA a scopo propagandistico. Alcuni funzionari croati hanno ammesso che nel 1993 essi stessi avevano inscenato un “bombardamento serbo” della città costiera di Sibenik a beneficio della televisione locale.A sostegno della finalità umanitaria di questa guerra si dice in giro che in questa guerra Stati Uniti ed Europa non hanno interessi economici da difendere. Basta questo articolo de “Il Sole 24 Ore” (gente che se ne intende) per chiarire le idee.
La posta in gioco nella guerra del Kosovo è il controllo dei “corridoi”
«Quella dei corridoi non è soltanto una battaglia: è la posta in gioco nella guerra del Kossovo. La prima direttrice corrisponde al Corridoio n. 10 e attraversa i Balcani dal Sud fino al Nord Europa con le sue diramazioni verso la Russia. Quella Est-Ovest ha il Corridoio n. 8 che dal Mar Nero taglia per Bulgaria, Macedonia e Albania fino alle sponde dell’Adriatico. Queste sono le due autostrade dell’energia che con le “pipeline” dovrebbero portare direttamente in Europa le risorse energetiche dell’Asia centrale e di una parte del Medio Oriente. (I corridoi sono composti da autostrade, da una linea ferroviaria ad alta velocità e, soprattutto, da un gasdotto e dal più grande oleodotto della storia europea: un colossale affare di miliardi di dollari). La scelta di queste direttrici e l’eventuale esclusione della Serbia o della Russia costituisce da tempo il campo di battaglia strategico dei Balcani. Lo sviluppo dell’asse Est-Ovest (Corridoio 8) è appoggiato dagli Stati Uniti che hanno l’obiettivo di tagliare fuori Mosca (che perderebbe ogni residua possibilità di costruirsi un futuro economico e politico indipendente dai condizionamenti delle grandi istituzioni finanziarie internazionali controllate dall’Occidente).
Da parte sua l’Italia è fortemente interessata al corridoio 8 che permetterebbe una rivitalizzazione dei porti del Sud (Bari e Brindisi) e darebbe un impulso notevole all’economia del Mezzogiorno».
(Il Sole 24 Ore, mercoledì 21 aprile1999)
Mentre a noi cacciano le balle umanitarie, a casa loro parlano chiaro:
«Il pugno della forza americana è ciò di cui il mondo ha bisogno adesso, perché la globalizzazione funzioni. L’America non può aver paura di agire da superpotenza onnipotente quale è. La mano invisibile del mercato non funzionerà mai senza questo pugno. Mc Donald’s non può prosperare senza Mc Donne! Douglas, il progettista degli F-15. E questo pugno, che tiene al sicuro il mondo per la tecnologia di Silicon Valley, si chiama Esercito americano, Forza aerea, Marina militare e marines».
Firmato: Thomas Friedman, consigliere di Madeleine Albright (New York Times, 28 marzo 1999 )
Washington sa che, senza la sua egemonia militare, l’America non può costringere il mondo a finanziare il suo deficit di risparmio, condizione essenziale per il mantenimento artificiale della propria posizione economica. Lo strumento per imporre questa egemonia è dunque militare. Il principale strumento al servizio della strategia di Washington è la Nato, ossia la sua capacità di sopravvivere al collasso dell’avversario che era la sua ragion d’essere. Nei dibattiti negli Usa sulla strategia globale i diritti umani o alla democrazia sono invocati solo quando tornano utili per il funzionamento della stessa strategia globale. Lo scopo dichiarato della strategia americana è non tollerare l’esistenza di alcun potere in grado di resistere agli ordini di Washington, e di conseguenza smantellare tutti quei paesi considerati “troppo grandi” e allo stesso tempo creare il maggior numero possibile di stati-pedina, facile preda per l’insediamento di basi americane che ne garantiscono la “protezione”. Solo uno stato ha il diritto di essere “grande”: gli Stati Uniti. il metodo praticato, tuttavia, non si limita a brandire il randello e manipolare i media. Prova a chiudere i popoli in alternative immediate e inaccettabili: piegarsi all’oppressore, sparire, mettersi sotto il protettorato Usa. Perché questo accada, è necessario stendere un velo di silenzio sulle politiche che hanno creato la tragedia.
L’allineamento con la strategia degli Usa e della subalterna Nato ha conseguenze drammatiche. La forza è eretta a principio supremo, a totale detrimento del diritto internazionale, al quale il discorso dominante ha sostituito un singolare “diritto di intervento”, che fastidiosamente ricorda la “missione civilizzatrice” dell’imperialismo del 19° secolo.
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«Ogni lotta per una vera democrazia non è separabile da quella contro l’egemonia di Washington»
(Samir Amin)
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2. OGNI AGGETTIVO, UNA BUGIA
Doveva essere BREVE. E a botta, o canna, calda, il 25marzo, Javier Solana annunciava che gli assalti sarebbero durati “ancora qualche giorno”. È toccato a William Cohen, segretario americano alla Difesa, avvertire il 1 5 aprile che i bombardamenti “potrebbero durare molte, molte settimane, se non mesi”.
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Doveva essere GIUSTA. Per Solana il ricorso estremo alle armi contro uno Stato sovrano, nel cuore d’Europa, rappresentava una misura estrema per “fermare la violenza, impedire ulteriori catastrofi umanitarie”. Bisognava salvare “250 mila kosovari allo sbando sui monti”. Ancora oggi Wesley Clark, comandante delle forze alleate in Europa, si diffonde sugli scopi dell’ ingerenza umanitaria : bloccare gli scontri armati, fermare repressione ed espulsione degli albanesi in Kossovo, ottenere il ritiro delle forze jugoslave dalla regione, creare un ambiente e condizioni di sicurezza per il ritorno dei profughi.
Gli ultimi comunicati dell’Onu parlano di oltre 780 mila profughi ammassati in Macedonia ed Albania in condizioni che gridano l’abisso tra l’immensa potenza dispiegata in cielo dall’Occidente e la sua incapacità di soccorrere a terra questi derelitti. Altri 590 mila profughi sarebbero, secondo la stessa Nato, alla macchia in Kossovo.
Ad oltre 50 giorni dall’inizio dei bombardamenti e con oltre 20 mila missioni all’attivo — su un “paese grande, secondo il Washington Post, quanto il Kentucky e con una ricchezza pari alla metà di quella birmana” — è stato disattivato poco più del 20% della forza militare di Milosevic,
Ben altri i colpi al corpo vivo della nazione. Smantellata la rete dei trasporti fluviali e terrestri. Non vi sono più raffinerie funzionanti, esaurite quasi le riserve petrolifere. L’industria meccanica e chimica è stata cancellata o è inutilizzabile. Impossibile calcolare la quantità di veleni, radioattivi e non, messi in circolo dalle bombe e dai loro effetti. Come si calcolano poi quelli che intossicano animi e generazioni, quelli che spaccano e dividono per secoli?
Quanto ai morti, secondo l’Onu siamo a quota 1200.
Doveva essere INTELLIGENTE. Cioè dotata di procedure e mezzi capaci di distinguere con chiarezza, di scegliere più o meno accuratamente, selezionare.
Forse lo è stata agli inizi, quando (si è poi appreso) i bersagli, prima di essere affidati ad armi sì potenti, passavano per il crivello di altri ingegni, umani e non dei soli militari. Col passare dei giorni, col crescere delle discrezionalità conquistate sul campo e a Washington dai generali, e forse degli automatismi e delle operazioni, questa capacità di discernimento è andata sempre più svanendo. A testimoniarlo, la lista sempre più fitta dei civili.
Ma forse non è a poteri di tal fatta che intendono riferirsi gli esperti quando parlano di armi intelligenti. Il dubbio sorge di fronte alla notizia gridata dalle Tv il 3 maggio— “staccata la spina alla Serbia” — doppiata nel pomeriggio dalla trionfalistica conferenza stampa Nato:
“abbiamo in mano l’interruttore elettrico della Serbia, spegniamo quando vogliamo”. Altro che scegliere, selezionare! A la guerre comme à la guerre: un po’ alla cieca.
Cosa si intende allora per guerra intelligente, post-moderna, post-nucleare? Ci soccorre nella sua schiettezza Edward Luttwak che la chiama “post-eroica”: insomma, post-omerico, libera dall’egualitario e sanguinoso groviglio di corpi di altri tempi, ma sottoposta alla tirannia di opinioni pubbliche refrattarie alla visione delle “body-bags”, le sacche di plastica sostituto post-moderno delle bare di un tempo. Non è alla portata di tutti questa guerra, ci avverte Luttwak: è attributo solo di pochi, di chi riesce a condensarvi potenza, scienza e conoscenza di un’epoca. E perciò soprattutto degli USA. Non li rende più forti di quanto già non siano. Li fa solo capaci di “usare la forza di lontano, ma con accuratezza e precisione”.
Su questi due ultimi attributi è lecito continuare a nutrire dubbi. La “distanza” forse ci aiuta a penetrare il mistero. Il Washington Post l’ha chiamata “coercizione immacolata”: permette di non sporcarsi, come ha notato Pietro Ingrao. Pierre Vidal-Naquet su Le Monde vi ha visto una metamorfosi sì, ma come tortura. Si può colpire indefinitamente, senza che la vittima possa rispondere, reagire. Lì lontana – distanziata da miglia, potere, scienza, ricchezza – non può raggiungere il nemico, l’aggressore. È alla mercé dell’aguzzino.
Ma la tortura, prima che l’Onu e le moderne Costituzioni dichiarassero fuorilegge la guerra, non era stata messa al bando dell’umanità? Non aveva provveduto Cesare Beccaria a bollarla già due secoli prima — al pari della modernissima pulizia etnica – come “inumana barbarie”?
«Sotto il mantello delle logiche armate di dominio, sono gli stati i nuovi guardiani della morale»
(Isidoro Mortellaro)
3. LA PULIZIA ETICA
La politica diventa espressione immediata di un’etica assoluta e universale, quella del più forte,
in nome della quale può punire, uccidere, bombardare in ogni parte del mondo.
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Tutte le guerre sono state etiche. I greci assediarono Troia per vendicare l’onore di un principe e di un marito; i crociati misero a ferro e fuoco mezzo Mediterraneo per conquistare il Santo Sepolcro; i seguaci di Cortèz e di Pizzarro massacrarono Aztechi e Incas per cristianizzare l’America del Sud; gli americani intervennero nel Vietnam per difendere le libertà occidentali dal pericolo della dittatura comunista. Come si vede, niente è più relativo dell’etica, che varia da popolo a popolo e di epoca in epoca. Può uno Stato, o un piccolo gruppo di Stati, parlare e bombardare in nome di tutti gli uomini, arrogandosi il diritto di difendere un’etica universale, valida per tutti i popoli del mondo, e di imporla con le armi? Esiste un’etica della globalizzazione? E — ammesso e non concesso che esista — può essere eticamente imposta con la violenza da un gruppo di Stati — e cioè da una parte — sul resto del pianeta?
Nessuna guerra è etica, se per etica s’intende (la pertinenza dell’etica, si sarà capito, va sempre definita in senso spaziale e temporale) quella della civiltà cristiana (rispetta il prossimo come te stesso; non uccidere; offri l’altra guancia…) e dei valori dell’umanesimo (tolleranza, dialogicità, rispetto per l’altro) quali si sono affermati in Europa nel corso dei secoli e in modo particolare dalle guerre antifasciste a oggi.
Quando la Costituzione italiana nega la possibilità di guerre offensive e ammette solo quella di una guerra difensiva, imposta dal nemico, si riferisce appunto a questo tipo di etica che si affermò nell’immediato dopoguerra attraverso l’incontro fra umanesimo liberale, cristiano e marxista. Anche quando si conduce una campagna contro la pena di morte come punizione di Stato, è questo tipo di cultura che si afferma. In questo ambito parlare di una “guerra etica” dovrebbe apparire a tutti una contraddizione in termini.
Quale differenza c’è, da un punto di vista etico, fra punire con la peno di morte un cittadino giudicato colpevole da un tribunale e punire una popolazione “colpevole” con la stessa pena? I neonati che muoiono nelle incubatrici degli ospedali lasciati senza luce elettrica o gli impiegati che periscono sotto le macerie dei palazzi della televisione bombardati non hanno solo il torto di appartenere a un popolo “colpevole”?
I sostenitori della guerra etica vogliono ritornare a una concezione controriformistica e medievale della politica come braccio armato — e subalterno — dell’etica? Sembrerebbe, dato che non solo si sostituiscono alle istituzioni che in genere fanno dell’etica una delle ragioni della loro esistenza, ma anche a esse si contrappongono. Paradossalmente i guardiani della morale non sono più le Chiese — anzi, quelle protestanti, cattoliche, ortodosse condannano l’attuale conflitto con lo Stato iugoslavo e l’intervento armato della Nato —, ma gli Stati. Ne deriva un pericolo enorme: la politica non sente più neppure i! bisogno di giustificarsi come tale — e cioè di sostenersi con argomenti laici e razionali, confrontabili con altri — e diventa invece espressione immediata di un’etica assoluta e universale in nome della quale può punire, uccidere, intervenire con le armi in ogni parte del mondo.
Il carattere nuovo di questa guerra è il suo carattere di guerra esclusivamente etica.
Che la logica di puro dominio di uno Stato particolare assuma le vesti pure e universali dell’etica è ancora un paradosso. La postmodernità regredisce al concilio di Trento.
Ma ora la nuova Chiesa è il capitale stesso. Il mercato diventa, nel contempo, Stato globale e Chiesa globale. L’etica del più forte si assolutizza come unica etica possibile, e viene imposta dal braccio armato degli Stati capitalisti. La pulizia etnica viene punita attraverso la pulizia etica, in nome dei sacri valori della civiltà e della libertà.
Quegli albanesi, che venivano affondati dalle navi della nostra marina militare e apparivano all’immaginario borghese dell’italiano medio malavitosi perturbanti, da tenere lontani a qualunque costo quando a decine sfidavano le acque dell’Adriatico per giungere in Puglia, presso lo stesso immaginario si sono trasformati di colpo in un popolo di vittime da salvare bombardando e affamando un altro popolo. Nell’un caso come nell’altro, quando li cacciano e quando li difendono, l’Italia e l’Occidente vogliono solo difendere la loro normalità. Di cui la guerra è il rovescio nascosto, ma necessario. Bombardando la Serbia e il Kossovo, l’Occidente difende la sicurezza della tranquillità quotidiana, scandita dal mercato. D’altronde anche la normalità ha un costo e un prezzo; meglio che lo paghino gli altri, non importa se albanesi o serbi.
La logica del dominio non si giustifica più in nome di argomenti politici o economici. tra le motivazioni etiche e la colonizzazione dell’inconscio effettuata dai mass-media che esibiscono i corpi nudi, il sangue, l’orrore dei deportati per giustificare altri corpi nudi, altro sangue, altro orrore, c’è un vuoto di idee, di proposte razionali, di prospettive politiche. Il capolavoro del capitale è di aver scelto la via breve del puro dominio coprendola sotto il largo mantello dell’etica. Ma è anche una via obbligata. Fra le leggi globalizzanti del mercato e la pura esibizione della forza, da un lato, e l’immaginario alimentato dalle facili mitologie di massa che scoprono un nuovo Hitler ogni cinque anni, dall’altro, la legge del mercato rivela un vuoto di proposte, di idee, di autolegittimazione. La logica del puro dominio nasconde un vuoto di egemonia culturale e politica. Se i gruppi dominanti riscoprono logiche controriformistiche e medievali, il capolavoro del capitale può indicare anche il suo punto debole.
(Romano Luperini)
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4. UNA GUERRA “TEXANA” PER CANCELLARE L’EUROPA
“>Nessuno sa quanto durerà ancora questa sporca guerra. Invece è noto a tutti perché questa sporca guerra continua e nemmeno più Pinocchio (quello di Collodi, non di Lerner) racconta in giro che le ragioni sono umanitarie. Questa sporca guerra continuerà perché gli obiettivi di fondo, dell’asse anglo-statunitense che domina incontrastato, non sono ancora stati raggiunti. Gli obiettivi, ormai evidenti, sono sostanzialmente tre:
1. occupare militarmente l’area della Jugoslavia che diventerà cruciale per il controllo delle nuove vie di approvvigionamento energetico dell’Europa (nuovi oleodotti e gasdotti), rendendo superflui il petrolio ed il gas della Russia;
2. segnare la fine della Russia come “potenza planetaria”, rendendola totalmente subalterna alla Nato e bloccandole anche le risorse economiche che le potrebbero derivare dalla vendita di gas e petrolio, e mandare un poderoso segnale alla Cina anche attraverso la sua ambasciata a Belgrado;
3. sancire, nel mondo occidentale, la totale prevalenza del modello anglosassone sotto i profili militare, economico, sociale e riducendo l’Europa ad un nano politico. Tutte queste ragioni mi sembrano gravissime e le prime due mi sembrano di una pericolosità tale che rischiano di portarci dritti ad una nuova guerra mondiale.
Voglio qui affrontare, dal mio punto di vista, la terza ragione…
Questa guerra sporca non produce solo devastazioni e lutti tra popoli dei Balcani, non isola e indebolisce solo la Russia o la Cina, non ridefinisce in modo concreto solo una nuova gerarchia di poteri su scala planetaria: questa guerra produce, e produrrà sempre di più, in un tempo breve, effetti gravi su di noi, sui modelli economici — e culturali e sociali— dell’Europa e del mondo. Dal primo giorno di guerra sostengo che siamo in presenza di un vero e proprio salto di paradigma, si sta affermando un profondo processo di deriva culturale, i cui effetti non sono ancora pienamente dispiegati, di cui si avvantaggia la destra autoritaria e forcaiola: infatti, come non capire che, se si accetta il principio che uccidere i serbi è giusto per dimostrare che uccidere i kossovari è sbagliato, si accetta il principio che sarà possibile e giusto uccidere ovunque per dimostrare che uccidere è sbagliato?
Si cancellano i principi e la cultura liberale e democratica, si cancella Cesare Beccaria e si torna alla legge del taglione. Anche nel nostro Paese riprenderà vita e forza il movimento per la pena di morte e tutte le grandi questioni che riguardano il vivere civile saranno affrontate sul terreno culturale della destra, trasformando tutto — dal conflitto sociale alla convivenza e integrazione con gli immigrati — in problemi di sicurezza e di ordine pubblico.
Blair e Clinton stanno imponendo il loro modello culturale ed economico, e conseguentemente sociale, fondato sulla assoluta centralità dell’impresa e del capitale: un modello che pensa alla politica come semplice strumento per adattare i contesti (le persone e le istituzioni) alle esigenze, rese assolute, delle aziende (l’Accordo multilaterale sugli investimenti non era proprio questo?). È la vittoria del “modello texano” basato sulla totale deregolazione, contro il “modello renano” basato sulla relazione positiva tra lavoro e diritti quale presupposto fondamentale per il riconoscimento dei diritti universali di cittadinanza. La vittoria di questo modello neoliberista — che trasforma, su scala globale, il lavoratore da persona a risorsa, che contempla il lavoro nero, irregolare, sottopagato quando addirittura non pagato, che si fonda sulla totale assenza di regole (che non siano quelle dell’arricchimento a breve di chi detiene il potere economico) cancellando la civiltà della contrattazione — ci sta portando pericolosamente indietro. Un nuovo modello sociale che assomiglia sempre più al modello feudale: un imperatore con vassalli, valvassini e valvassori, arroccati in castelli e difesi da eserciti agguerriti; il resto delle persone totalmente escluse da ogni diritto e ritrasformate da cittadini a sudditi (non è già così nelle grandi metropoli nordamericane, con i quartieri/fortezze protetti da polizie private, con sistemi sociali a cui accedere solo con ricche assicurazioni individuali, con sistemi giudiziari che colpiscono al 99 per cento i non bianchi e gli immigrati?).
Ciò che colpisce del cinismo di D’Alema, che si duole per i quattro morti cinesi, mentre non ritiene di dover discutere tutti gli altri obiettivi della Nato anche quando sono civili, è la condivisione del modello economico, e sociale, di Blair e Clinton.
Questa sinistra si prepara a sostituire, come riferimento del capitale, quei vecchi arnesi della destra oggi non più in grado, nell’epoca della globalizzazione telematica, di garantire i necessari processi di passivizzazione delle persone, dei lavoratori. E la Cgil, la mia organizzazione, è sempre più incapace di marcare una qualche autonomia dal governo e dai Ds. Cinquanta giorni orsono ha parlato di “contingente necessità”, e questa posizione porta la maggiore e grave responsabilità per la difficoltà che c’è nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, di ragionare (sono pochissime le assemblee fin qui fatte) e di mobilitarsi.
(Alessandro Sabiucciu – il Manifesto – 23 maggio ‘99)
B. I SOGGETTI
1. L’OCCIDENTE È RESPONSABILE
DEL DISASTRO UMANITARIO ESPLOSO NEI BALCANI
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La ristrutturazione macroeconomica, applicata in Jugoslavia seguendo un progetto politico neoliberale, portò immancabilmente alla distruzione dell’intero paese. Eppure, sin dallo scoppio della guerra nel 1991 il ruolo centrale della riforma macroeconomica venne prudentemente sottaciuto e negato dai media globali. Il mercato libero era stato raffigurato come la soluzione, la base su cui riedificare l’economia distrutta dalla guerra. La stampa tradizionale aveva riportato dettagliati resoconti della guerra e del processo di “pacificazione”. L’impatto sociale e politico della ristrutturazione economica in Jugoslavia venne scrupolosamente cancellato dalla nostra coscienza sociale e dalla visione collettiva di “ciò che accadde realmente”. Le divisioni culturali, etniche e religiose furono messe in luce e presentate dogmaticamente come le sole cause della crisi, quando in realtà esse furono le conseguenze di un ben più profondo processo di lacerazione economica e politica.
La rovina di un sistema economico, insieme con la sottrazione del patrimonio produttivo, l’estensione dei mercati e la lotta per il territorio nei Balcani costituiscono le cause effettive del conflitto.
In Jugoslavia è in gioco la vita di milioni di persone. La Jugoslavia è lo “specchio” degli analoghi programmi di ristrutturazione economica, applicati non soltanto nei paesi in via di sviluppo, ma di recente anche negli Stati Uniti, nel Canada, e nell’Europa accidentale.
(Michel Chossudovsky)
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Che i Balcani rappresentassero un vulcano di antiche tensioni etniche, con soprusi e violenze disseminate lungo la storia do tutte le parti in causa, era noto a tutti. Ma vale la pena di ricordare che dopo la seconda guerra mondiale un tentativo di farle convivere era pure in atto: e per quasi 40 anni la crescita del Pil è stato in media del 6,1%, le cure sanitarie erano gratuite, con un medico ogni 550 persone, il tasso di alfabetizzazione si attestava sul 91% e l’aspettativa di vita era di 72 anni.
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L’intervento destabilizzante del Fondo Monetario Internazionale
All’affacciarsi in Jugoslavia della crisi economica indotta dalla globalizzazione il Fondo Monetario Internazionale ha iniziato il suo ruolo destabilizzante applicando brutalmente le ricette neoliberiste. Come sempre i prestiti concessi dal fondo imponevano drastiche misure di austerità, causando un pesante calo del tasso di crescita dell’economia. Come contropartita, la Jugoslavia era costretta ad attuare un pacchetto di restrizioni fiscale tale da obbligarla a sospendere le spese per trasferimenti alle repubbliche ed alle regioni autonome per consacrarle invece al rimborso del debito estero. Ciò contribuì a far esplodere una situazione diffusa di povertà che, indebolendo le istituzioni federali nei confronti delle singole repubbliche, ha fatto nascere pesanti tensioni tra le regioni più ricche (Slovenia e Croazia) e le altre.
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Il “peccato originale” dell’Occidente
Su queste tensioni si buttano i partiti nazionalisti etnici che, proclamandosi “anticomunisti”, sono fortemente appoggiati e finanziati dall’Occidente. Di fronte ai rischi di deflagrazione della Confederazione Jugoslava, dove ormai tutte le Repubbliche erano attraversate da maggioranze e minoranze etniche, nel dicembre del 1 991 i ministri degli esteri d’Europa decidono di non accettare indipendenze autoproclamate. Nasce addirittura la commissione Badinter che definisce un codice: non si accettano indipendenze proclamate contro le minoranze interne. Dopo solo due settimane la Germania e il Vaticano riconoscono Slovenia e Croazia, che si sono proclamate indipendenti sulla base di principi etnici, la “slovenicità” e la “croaticità”. Zagabria metterà nel preambolo alla sua Costituzione ché “la Croazia è la patria di tutti i croati”, dichiarando così “non cittadini” le minoranze serbe e mussulmane. Gli altri paesi europei si precipiteranno a riconoscere i nuovi “stati”, per non esser secondi alla Germania e indifferenti alla “moralità” degli interessi della Chiesa cattolica. Così l’Europa si è assunta la responsabilità di fomentare, nel punto più delicato d’Europa, i Balcani, la frammentazione etnica.
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Se si riconosce il diritto a una etnia di proclamarsi stato, non è possibile negarlo ad un’altra. In tutte le repubbliche jugoslave i leader nazionalisti non aspettavano altro. I massacri e le pulizie etniche si susseguono da ogni parte. E le potenze occidentali vi mettono mano non per tutelare i massacrati di turno ma per portare avanti i loro progetti strategici di insediamento nell’area. All’ombra dei bombardamenti Nato per fermare il massacro di Sarajevo, i croati scatenano impunemente l’operazione “Tempesta” contro la minoranza serba in Krajna, dalla quale saranno cacciati circa 300.000 serbi: 16mila morti e un’operazione di pulizia etnica considerata ormai come la più rapida e grande di tutta la guerra. Tre mesi dopo la “pace” di Dayton, nel silenzio generale, circa 120.000 serbi di Sarajevo, di cui nessuno ha mai parlato, fuggono dalla città in preda al terrore seminato dalle milizie musulmane. Nessuno ricorda più l’intrigo del Bosniagate, una triangolazione di armi con l’Iran, favorita da Bill Clinton, a favore dell’esercito musulmano-bosniaco..
2. L’INGANNO Dl RAMBOUILLET
La guerra dell’Adriatico, la cui dimensione totalizzante sta penetrando nelle viscere dell’Europa alterandone irreversibilmente e negativamente l’intelaiatura storica e umana, ha già una sua precisa valenza vietnamita per ciò che riguarda il rapporto tra le istituzioni democratiche e i meccanismi decisionali che hanno portato ad attaccare militarmente la Jugoslavia. Come sappiamo, la giustificazione dei bombardamenti sul Vietnam del nord nel 1964 — e quindi l’estensione del conflitto, fino all’allestimento di un corpo di invasione americano — fu una presunta provocazione armata contro gli USA da parte delle forze di Hanoi. La montatura imbastita dal governo di Washington venne smontata anni dopo con la scoperta dei famosi “Pentagon’s Papers”.
Tuttavia la montatura permise di imbavagliare le istituzioni dei paese dando via libera allo scatenamento di una decennale guerra “non dichiarata su tutto l’arco della penisola indocinese”. La scoperta dei “Pentagon’s Papers”, resa possibile anche dal clima di opposizione alla guerra che regnava allora negli Usa, mostrò quanto profonda fosse la degradazione dei processi democratici del paese causata dal conflitto.
Per ciò che riguarda la guerra non formalmente dichiarata contro la Jugoslavia, l’equivalente dell’imbroglio contenuto nei “Pentagon’s Papers” sta emergendo giorno dopo giorno. Luciana Castellina ha elencato sul “Manifesto” del 18 aprile gli articoli di Rambouillet che avrebbero permesso alla Nato di accedere all’intero territorio, spazio aereo ed infrastrutture della Jugoslavia. Belgrado, nel recente passato aveva rifiutato di aprirsi alla Nato e il documento di Rambouillet correggeva questa temerarietà. Non si trattava dunque di una proposta di accordo, bensì di un testo scritto apposta per essere rifiutato da una delle parti e quindi ideato per attizzare il fuoco.
Al documento bidone di Rambouillet si aggiunge quello fantasma firmato dai kossovari a Parigi. Le dichiarazioni di Dini in proposito sono in questo contesto estremamente importanti: “I kossovari hanno firmato un accordo che comportava delle modifiche non indifferenti rispetto a quello che era avvenuto a Rambouillet”. Che si trattasse di un pasticcio creato ad arte dalla Albright è confermato dal fatto che “non sappiamo cosa hanno firmato realmente, il testo esatto e i codicilli”.
Come nel falso incidente del Golfo del Tonchino, l’imbroglio di Rambouillet e poi quello di Parigi impongono che il torto sia da una parte sola mentre l’altra parte agisce unicamente per correggerlo. Così, la firma su un pezzo di carta che non si sa cosa sia viene presentata come l’accettazione dell’accordo di pace per potere poi dire che il rifiuto della parte opposta equivale a un’aggressione che legittima un’azione di guerra. Nel frattempo, a guerra avanzata si è anche scoperto che il 24marzo, la sera prima dell’attacco Nato, il parlamento di Belgrado aveva votato una risoluzione in cui si ribadiva il rifiuto delle forze Nato, accettando però l’idea di una forza Onu su una base molto simile alla parte politica di Rambouillet.
L’imbroglio di Rambouillet aveva come solo obiettivo di inserire la Nato nel territorio kossovaro della Jugoslavia, obbligandolo ad aprirsi completamente all’Alleanza. Il risultato, come nel caso del Vietnam, è stato di lanciare una guerra non dichiarata permettendo così al governo americano di usare la Nato per sovrapporsi ai governi europei, liberandoli al contempo da qualsiasi verifica da parte delle loro istituzioni nazionali. Giocando sulla vischiosità della politica europea e sull’estrema fragilità del processo di Maastricht, gli Usa hanno trasformato la credibilità militare della Nato in elemento principale di legittimazione dell’esistenza stessa dei governi europei, indipendentemente dalle regole istituzionali dei singoli paesi. I governi europei conducono quindi una guerra avulsa dalle loro istituzioni ed è proprio per questo che, pur facendo retoriche dichiarazioni di responsabilità nazionale, preferiscono non dichiarare formalmente guerra alla Jugoslavia. L’imbroglio di Rambouillet è un attacco alla democrazia dei paesi europei coinvolti nell’avventura americana.
(Joseph Halevi – Il Manifesto , 21 aprile 1999)
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3. Mentre sembra dimenticato l’enorme contributo di lotta e di sangue
dato dal popolo serbo contro il nazifascismo,
L’INTERVENTO NATO VIENE PARAGONATO A QUELLO ALLEATO A FIANCO DEI PARTIGIANI,
che in questo caso sarebbero l’Esercito di Liberazione del Kossovo (UCK).
L’esercito di liberazione del Kossovo (Klao Uck) viene appoggiato come un serio movimento nazionalista che lotta per i diritti delI’etnia Albanese. La verità è che l’Uck è sostenuto dalla criminalità organizzata con la tacita approvazione degli USA e dei loro alleati. Mentre i leaders dell’Uck stringevano la mano del Segretario di Stato USA Madeleine Albright a Rambouillet, Europol – l’organismo di polizia europea con sede a L’Aja – stava “preparando un rapporto per i ministri dell’interno e della giustizia europei sul collegamento tra Uck e gangs albanesi della droga”. Solo due mesi prima di Rambouillet il Dipartimento di Stato USA aveva riconosciuto sulla base di rapporti degli osservatori Usa il ruolo dell’Uck nel terrorizzare e sradicare gli albanesi: “L’Uck minaccia o rapisce chiunque abbia contatti con la polizia jugoslava, rappresentanti dell’Uck hanno minacciato di uccidere abitanti dei villaggi, bruciare le loro case se non si uniscono all’Uck. Le minacce dell’Uck hanno raggiunto tale intensità che i residenti di sei villaggi della regione di Stirnlje sono pronti ad andarsene”.
Ricordate Oliver North e i Contras? Lo schema in Kossovo è simile ad altre operazioni segrete della Cia in America centrale, Haiti ed Afghanistan, dove “combattenti per la libertà” erano finanziati tramite il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga. Dalla fine della guerra fredda, i servizi segreti occidentali hanno sviluppato complesse relazioni con il traffico illegale di narcotici. Caso dopo caso, il denaro ripulito nel sistema bancario internazionale, ha finanziato operazioni segrete. Secondo l’analista di questioni di “intelligence” John Whitley, l’appoggio occulto ai ribelli del Kossovo fu stabilito come impresa comune tra Cia e la tedesca Bundes Nachrichten Dienst (Bnd). L’agenda nascosta di Bonn e Washington prevedeva di scatenare i movimenti nazionalisti di liberazione in Bosnia e Kossovo col fine ultimo di destabilizzare la Jugoslavia. Istruttori tedeschi, turchi e afghani avrebbero addestrato I’Uck nella guerriglia e nella tattica di diversione. Nelle parole di un rapporto del 1994 del Geopolitical Drug Watch si dice: “il traffico (di droga e armi) viene giudicato in base alle sue implicazioni strategiche; in Kossovo droga e armi alimentano speranze e timori geopolitici”. Per questo c’è stato silenzio totale da parte dei media internazionali sul traffico di armi e droga in Kossovo. La Nato sapeva benissimo che i “combattenti per la libertà” furono messi sul posto con l’obiettivo finale di destabilizzare il governo di Belgrado e di ricolonizzare completamente i Balcani. Si spiega così l’irresistibile ascesa dell’Uck: “siamo di fronte al primo caso nella storia di un piccolo e sconosciuto gruppo di ribelli che in un solo anno di lotta è stato capace di sedere a un tavolo di trattative della comunità internazionale”.
(Claudio Monici, 1999).
Solo due mesi prima della guerra Dini dichiarava:
«Mentre Belgrado rispetta gli accordi firmati con il mediatore americano Holbrooke, la guerriglia deIl’Uck ha sfruttato il ritiro delle milizie serbe (sotto gli occhi degli osservatori Osce, ndr) per tornare nelle campagne, rientrare nelle città e guadagnare così terreno, anche grazie alle armi che passano attraverso l’Albania. L’Uck si illude se spera di fomentare la guerra per spingere la NATO all’attacco contro la Serbia…» (il Manifesto, 6.1.1999).
4. MILOSEVIC NON È HITLER, È PEGGIO…
Io non sono d’accordo con i giornalisti che usano l’immagine “Milosevic come Hitler”. Non perché io mi schieri con Milosevic, ma perché rimanda a un modello storicamente già sconfitto; rimanda a una realtà che appartiene già al passato della politica e dello storia, una realtà che la forza potrebbe rovesciare. Purtroppo il potere di Milosevic incarna un modello oggi molto più pericoloso, proprio perché non è hitleriano. Milosevic rappresenta la commistione della gestione della cosa pubblica e del potere politico con la gestione della finanza criminale, dei capitali di provenienza illecita e la criminalizzazione complessiva del tessuto economico produttivo di un paese.
È un modello che ha incarnazioni e realizzazioni in tutto il mondo: in Russia, per cominciare, nell’Asia che abbiamo citato, nel terzo mondo in Nigeria; è un modello espansivo, pervasivo. È un modello di mafia che si fa stato scavalcando il vecchio modello italiano di condizionamento mafioso sulla politica. In un clima di accesso immediato, accelerato al mercato selvaggio, l’unico ciclo economico che permette le accumulazioni rapide di ricchezza che stabilizzano la nuova classe di potere è il ciclo criminale. Per le mafie, schematizzando ancora, è molto più redditizio ed economico oggi assumersi direttamente la gestione della cosa pubblica.
Milosevic e la sua “cupola” hanno realizzato in Serbia, attraverso la privatizzazione del credito, un sistema che ha permesso loro di impoverire la società, di drenare tutta la valuta pregiata in circolazione nella Jugoslavia, di impadronirsi di quote di controllo in tutte le attività produttive realizzando una centralizzazione dell’economia che non esisteva nemmeno sotto il socialismo. Paradossalmente, in un tempo di privatizzazione, l’economia è accentrata nelle mani del potere politico, acquisito grazie alle speculazioni truffaldine realizzate nel sistema finanziario; per questo oggi Milosevic e i suoi compagni d’affari — proprietari peraltro delle banche off-shore di Cipro, dove vengono riciclati i capitali delle mafie di tutto il Mediterraneo — sono un riferimento per la criminalità organizzata di mezzo mondo.
Insomma, è il caso di dire: Milosevic non è Hitler, per questo è ancora più pericoloso. È un modello più moderno, più attuale. Nel quale non pochi intellettuali, addetti all’informazione, vertici della funzione pubblica e dei settori produttivi hanno trovato propri spazi di interesse, hanno creduto di potersi arricchire.
Dire che non ci sono responsabilità nella Serbia, è come quando cercano di dirci che gli italiani erano tutti antifascisti: come se Mussolini fosse stato un incidente della storia. Queste sono favole consolatorie alle quali non conviene cedere perché fanno velo alla comprensione di quello che sta succedendo.
5. VERSO IL GOVERNO MONDIALE
Oggi, ci dicono, possiamo essere finalmente tutti soddisfatti, perché comincia a delinearsi davanti a noi, superati gli storici ed ingombranti blocchi, un unico governo mondiale. Si tratta di un governo di coalizione, a geometria variabile, ma dove due forze fondamentali detengono il potere: gli Usa, in primis, l’Unione Europea, e partner minori. Possiamo tentare, con ampi margini di approssimazione, di descrivere l’articolazione di questo “governo mondiale” secondo la tradizionale divisione dei compiti per ministeri:
a. il Fondo Monetario Internazionale, che rappresenta il ministero del tesoro e delle finanze;
b. la Banca Mondiale, che raggruppa i ministeri dello sviluppo economico, l’ambiente e le politiche sociali;
c. la Nato, che concentra in sé il ministero dello difesa e quello degli interni (con delega per le catastrofi umanitarie e non);
d. il WTO che è paragonabile ad un tradizionale ministero del commercio, marina mercantile, ecc.;
e. il G7 (ormai G8), infine, che rappresenta una sorta di consiglio dei ministri con procedure non ancora codificate.
Si tratta, come si vede, di un esecutivo molto snello, come è d’altra parte necessario, secondo la teoria politica più in voga, se si vuole governare la complessità dell’economia-mondo. Un esecutivo che non è condizionato da nessuna assemblea rappresentativa, che ne limiterebbe la velocità decisionale. D’altronde, come immaginare un’assemblea parlamentare che rappresenti la volontà di sei miliardi di persone?
Unico inconveniente per la piena operatività del G.M. (Governo Mondiale) era, fino a qualche anno fa, costituito dall’ONU. L’Onu, come è noto, appartiene ad un’altra epoca, quella in cui erano ancora prevalenti i mercati nazionali, il valore della moneta era ancorato agli andamenti della bilancia commerciale, il potere politico-militare era diviso in due blocchi. Oggi l‘Onu rappresenta, dal punto di vista del G.M., una barriera burocratica, una serie di «lacci e lacciuoli» paragonabili a quelli che vigevano una volta sul mercato mondiale e che l’ondata neoliberista è riuscita a rimuovere nell’ultimo ventennio. Non è un caso che, all’interno del G.M., il partito di maggioranza relativa [gli Usa] non paghi più da molti anni la sua quota.
(Tonino Perna)
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Nuovo ordine mondiale / Un alibi chiamato “umanitario”. È solo l’inizio dei guai
Ecco dunque la necessità di liberarsi, per tempo, degl’impacci e delle inutili bardature dell’Onu. Non è per questa via che il “miliardo d’oro” (il 20% più ricco dell’umanità, quello che detiene l’80% delle ricchezze del pianeta) potrà tutelare il proprio crescente benessere. Essa, al contrario, può soltanto minacciarlo, condizionarlo, rallentarlo.
Occorrevano nuove motivazioni. Non quelle vere, inutilizzabili su larga scala perché provocherebbero indignazione generale, così bene riassunte recentemente da uno degli apologeti più intransigenti e sinceri di questo modo di ragionare.
«La mano nascosta del mercato globale non potrà mai funzionare senza un bastone nascosto. E il bastone nascosto – che garantisce la possibilità di fioritura alle tecnologie di Silicon Valley – si chiama Esercito degli Stati Uniti, Forze Aeree, Marina e Corpo dei Marines (con l’aiuto, incidentalmente, delle istituzioni globali come le Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale)». Parola di Thomas L. Friedmann (International Herald Tribune, 20 aprile 1998).
Non quelle vere, dunque, ma di nuove, più digeribili. E sono state trovate. Di figure odiose come Saddam Hussein o Slobodan Milosevic il mondo è pieno. Di tragedie come quella degli albanesi del Kosovo — terribile senza alcun dubbio — ve ne sono state e ve ne sono a decine, spesso non meno grandi e mostruose. Basta concentrare i riflettori su quelle che meglio possono toccare il cuore dei miliardi di telespettatori, sudditi del sesto membro permanente—il più permanente di tutti —del consiglio di sicurezza dell’Onu: la CNN. E a nulla vale chiedere: perché in Kossovo sì e in Kurdistan no? Perché in Bosnia sì e in Cecenia no? A nulla vale ricordare, ad esempio, che Saddam Hussein fu creatura americana finché servi come burattino, nemico di Teheran. È storia, cioè non serve e non interessa più in un mondo in cui Io spessore del tempo si va riducendo a lamine impercettibili e trasparenti, oltre le quali non c’è più nulla.
In ogni caso — è l’ultima e definitiva risposta — “bisognava pure incominciare da qualche parte”. Oppure si sottolinea che, purtroppo, “non dappertutto è possibile esportare diritti umani, ma questo non significa che dobbiamo assistere passivamente alle atrocità laddove possiamo impedirlo”. Argomenti tutti accompagnati dalla conclusione quasi unanime dei commentatori: le Nazioni Unite sono ormai solo una perdita di tempo.
Il modello da seguire è quello adottato per recintare Baghdad e Belgrado: una pioggia di bombe. Ed è l’America stessa che decide il come, il dove, il quando e anche il perché. Non importa se da sola o in compagnia.
È l’avvio di una nuova giurisprudenza internazionale, in cui l’accusa coincide con il tribunale giudicante e con l’esecutore della pena. Non è previsto appello e neppure l’arringa della difesa. Perfino il compromesso è escluso, salvo che nella forma di una gentile concessione del più forte. È toccato all’Europa dei governi socialisti assaggiare questo boccone. Che è diretto — se ne rendano conto o meno gli europei — anche contro l’Europa.
Non c’è nulla di casuale in questa tragedia. Le illusioni dell’euro appena nato, di una dialettica tra potenti, di un futuro condominio del mondo, debbono ora essere abbandonate. Saremo tutti, forse, nel “miliardo d’oro”, ma come fratelli minori, con voto consultivo. Se l’America prende il posto dell’Onu e la Nato quello dell’Osce, non sarà facile sfuggire alle future, uggiose, inevitabili decisioni unanimi che ci attendono.
Il vero problema, l’unico che rimane, e non piccolo, sono quelli che restano fuori del “miliardo d’oro”. E quelli che ne sono già fuori anche se vivono nei territori privilegiati. La globalizzazione, che tanto ha contribuito a rendere l’America ancora più ricca e potente, chiama imperiosamente in causa anche loro.
La Russia sembra reagire come se capisse che il “modello Belgrado” è disegnato anche per il suo futuro. Alla Cina verrà proposto un ruolo analogo a quello dell’Europa, altra ganascia della tenaglia con cui Washington — secondo la ricetta di Zbignew Brzezinski — risolverà, stritolando la Russia, l’equazione eurasiatica.
Grande, affascinante disegno, quello del “secolo americano” prossimo venturo. Che implicherebbe, tuttavia, una capacità (“egemonica” avrebbe detto Antonio Gramsci) di gestire la complessità del mondo, prima di tutto riconoscendone l’esistenza. Invece sorge il sospetto che a Washington pensino che tutto il mondo sarà un giorno, neanche troppo lontano, come Washington o, in subordine, come Washington vorrebbe che fosse. E questo, francamente, non sembra probabile, I guai nasceranno quando ciò diventerà evidente.
(Giulietto Chiesa – Nigrizia, maggio ‘99)
6. MERCANTI D’ARMI
La guerra in Kosovo è la vittoria strategica dei contrattisti del Pentagono
“Viva la morte, viva la guerra”, così si brindava nella vecchia Legione straniera. Così si brinda oggi al tavolo dei contrattisti del Pentagono. “Qualsiasi lezione possano trarre i responsabili militari della Nato dalla guerra contro la Serbia – scrive il New York Times del 19 maggio 1999 – i fabbricanti americani di armi stanno già anticipando che il Kossovo può assicurare loro una vittoria strategica, non sul campo di battaglia ma al Congresso”.
Lo conferma il repubblicano Duncan Hunter, capo della sottocommissione congressuale addetta all’acquisto di armamenti: “Il Kossovo ha sicuramente cambiato le cose qui a Washington per ciò che riguarda la spesa militare. Congressisti che prima erano soliti votare a favore dei tagli per il bilancio della difesa, ora votano per dare al nostro settore militare sempre più risorse”.
Fra i contrattisti del Pentagono vi è un clima di euforia. La voce del bilancia che più interessa loro, quella della spesa per l’acquisto di armamenti, dopo essere calata negli anni ‘90 in seguito alla fine della guerra fredda, sta ora decisamente risalendo: dai 44 miliardi di dollari annui del 1998, aumenterà ad almeno 53 miliardi il prossimo anno e a 60 miliardi nel 2001.
Il direttore generale della Raytheon Co., costruttrice dei missili Tomahawk, è fiducioso: “il Kossovo sta dimostrando ciò che noi diciamo da tempo. Dobbiamo avere sessanta miliardi di dollari destinati all’acquisto di armamenti. Ora siamo sulla strada giusta. E ci stiamo arrivando più rapidamente di quanto pensassimo”. La Raytheon fa parte, insieme alla Boeing e alla Lockheed Martin (rispettivamente al primo e secondo posto fra i contrattisti del Pentagono), della triade che oggi domina l’industria bellica statunitense.
(Manlio Dinucci)
Dopo qualche mese di guerra
VOCI DALL’ARCIPELAGO PACIFISTA
La presenza del presidente del Consiglio Massimo D’Alema alla marcia Perugia-Assisi è stato l’evento che ha catalizzato l’attenzione dei mezzi di comunicazione.
La stessa Marcia, con la straordinaria partecipazione che è andata ben oltre le previsioni, e l’assemblea dell’Onu dei popoli, con delegati giunti da ogni parte del mondo e con un dibattito serio ed approfondito, sono, agli occhi dei media, passate in secondo piano. Eppure era questo il vero evento: il popolo della pace, questo mondo variegato e molteplice, continua tenacemente a mobilitarsi, a discutere, a tessere la propria tela di relazioni per tentare di invertire il corso delle cose.
L’evento mediatico
L’iniziativa di D’Alema, però, non rappresenta soltanto un avvenimento mediatico, ma un atto politico che faremmo bene a valutare attentamente.
In primo luogo va sottolineato un elemento indubbiamente positivo: il movimento pacifista viene riconosciuto, da questo governo, come interlocutore politico con il quale confrontarsi.
Ciò è il frutto non tanto di una particolare sensibilità politica, ma della capacità del nostro movimento di rappresentare sentimenti ed ideali fortemente radicati in una parte consistente della società italiana, oggi sottoposta a processi di disgregazione e frammentazione molto forti, la quale rintraccia sempre più in questa trama di valori un elemento duraturo di identità.
Facciamo chiarezza
Ma proprio per questo occorre da subito fare chiarezza per evitare sia facili entusiasmi che reazioni di pura indignazione. In questo senso intendiamo partire dal cuore del problema. La rottura determinatasi in questa fase tra il mondo pacifista e lo schieramento di governo, che per storia e provenienza culturale dovrebbe essere naturale riferimento, è profonda e difficilmente ricomponibile; certamente non attraverso atti simbolici, sia pure di non trascurabile importanza.
La guerra contro la Federazione jugoslava, il vergognoso comportamento nei confronti di Ocalan e del popolo kurdo, le scelte di politica militare, in continuità con la filosofia del cosiddetto “nuovo modello di difesa”, sono le ragioni di questa rottura.
La guerra in Kossovo ha cambiato il mondo. In mesi di devastazioni materiali ed umane è stato messo in campo non solo un formidabile dispositivo militare, ma un incredibile apparato ideologico e mediatico volto ad occultare la realtà delle cose e a creare, in particolare nei paesi europei, un consenso attivo da parte della cosiddetta “opinione pubblica”.
La realtà è però sotto gli occhi di tutti e gli avvenimenti di questi giorni non fanno altro che confermare ciò che noi, con gran parte del movimento pacifista, avevamo previsto sin dall’inizio: si stanno creando le basi politiche, economiche e militari per la separazione del Kossovo dalla Jugoslavia, per la deportazione di tutte le minoranze non albanesi (innanzitutto serbi e rom), per la creazione di un’immensa base Usa nel cuore dei Balcani; al fine, tra gli altri, di continuare nell’opera di destabilizzazione dell’area e di porre sotto controllo una delle vie di approvvigionamento energetica dell’Europa e di scambio con la Russia.
Le bombe intelligenti
Cosa significa, altrimenti, l’adozione del marco come moneta ufficiale e la concreta trasformazione dell’Uck in polizia, magistratura, pubblica amministrazione e quant’altro, in spre gio non solo degli accordi sottoscritti, ma anche della reale dinamica politica kossovara e della pluralità di soggetti esistenti. Sarà opportuno ricordare che a comandare la polizia kossovara sarà Agim Ceku, un ex ufficiale delle milizie croate in Bosnia inquisito per crimini di guerra.
Sotto i colpi delle bombe “intelligenti” della Nato è caduta non certo l’ultima presenza del “socialismo” in Europa (chi crederebbe mai alla favola di un Milosevic, con il suo regime autoritario e corrotto, come portabandiera degli ideali socialisti in Jugoslavia?!), ma la possibilità di una soluzione pacifica alla crisi balcanica.
Infine è andata in frantumi, con la definitiva messa in mora dell’ONU, l’idea della ricostruzione su basi democratiche di un nuovo sistema di relazioni internazionali, fondato sulla pace, sul pieno rispetto dei diritti umani e su principi di solidarietà e cooperazione fra i popoli.
Dili come Pristina?
Gli avvenimenti di Timor Est contribuiscono a vedere nella giusta luce la “guerra umanitaria” scatenata nei Balcani. In questo senso Dili è profondamente diversa e lontana da Pristina, checché ne dicano alcuni commentatori politici nostrani.
In quest’occasione, a fronte di un massacro neanche lontanamente paragonabile agli avveni menti succedutisi in Kossovo prima della guerra, nessuno della cosiddetta “comunità internazionale” ha pensato di applicare al regime fascista di Jakarta, così pesantemente ed esplicitamente coinvolto nei crimini di questi giorni, le stesse condizioni poste alla Federazione Jugoslava.
Ovviamente non pensiamo al bombardamento dell’Indonesia, la qualcosa ci vedrebbe ovviamente strenui oppositori, ma alla chiusura delle forniture militari e alla restrizione dei rapporti politici ed economici.
A quanto pare né i filosofi della “guerra giusta” né le anime belle della “civiltà occidentale” hanno rilevato queste contraddizioni, forse appagati dalla messa a disposizione dell’Onu, resuscitata per l’occasione, di 600 militari italiani.
Così come sembra essersi smarrita nel vortice delle notizie la tragedia del popolo iracheno sottoposto ancora al fuoco incrociato dei bombardamenti Nato e dell’embargo.
Del resto di che stupirsi, quando in Turchia continua la politica di annientamento del popolo kurdo, di sospensione dei diritti politici per tutte le forze indipendenti della società turca, di corruzione della vita pubblica come la tragedia del terremoto ha messo in evidenza?
Ocalan, Ustica, Cermis…
Nonostante tutto ciò il nostro governo non trova nulla di meglio da fare che accreditare il regime di Ankara come fondamentale interlocutore politico e caldeggiarne l’ingresso nell’Unione europea. E non si avverte neanche l’esigenza di porre il tema di un tavolo internazionale che affronti la questione dei diritti del popolo kurdo.
La vicenda di Ocalan (costretto ad andarsene verso il suo destino di tortura, detenzione e probabilmente morte) rappresenta il simbolo di una concezione della politica internazionale dove i principi sono intermittenti, dove vale la regola dei due pesi e due misure, dove si è forti con i deboli e deboli con i forti, dove l’unico riferimento certo è rappresentato dagli interessi strategici degli Stati Uniti.
Questa subalternità è sancita dall’esito delle tragedie che hanno costellato il rapporto tra il nostro paese e la presenza militare americana, fra le quali Ustica ed il Cermis.
Né può bastare, se mai qualcuno lo pensasse, la detenzione condizionata in Italia di Silvia Baraldini, a cancellare questa storia e la necessità di un superamento di tali rapporti a partire dalla permanenza di un sistema militare come quello della Nato.
Ciò appare più evidente nel quadro della riforma materiale delle forze armate che ha subito proprio con questo governo un’importante e decisiva accelerazione.
Non intendiamo qui sollevare il tema del destino del servizio civile e neppure quello della leva (peraltro entrambi di grandissimo rilievo), ma andare al fondo degli obiettivi che hanno ispirato la riforma Scognamiglio e che fanno capo al cosiddetto “nuovo modello di difesa”.
Forze armate e separate
Su questo riteniamo si debba avviare un dibattito serio nel paese, anche perché alcuni principi mettono in discussione lo stesso dettato costituzionale (l’esercito difende il territorio o “interessi nazionali”?).
In questo contesto i costi del sistema militare aumentano (nonostante che, per esigenza di bilancio, si vuole mettere mano all’ennesima riforma delle pensioni), e si disegna un profilo di forze armate sempre più separate dalla società italiana, sempre più inserite in altre catene di comando (la Nato) indipendenti dal controllo delle istituzioni democratiche, infine disponibili ad azioni militari comunque mascherate, del tutto ininfluenti ai fini della difesa dei nostri confini da attacchi armati.
Come si vede i dissensi sono profondi e non facilmente superabili in assenza di una altrettanto profonda svolta politica. Il dialogo va certamente avviato e portato avanti, ma senza la retorica e l’ipocrisia che ha caratterizzato questa fase e sapendo che per il movimento pacifista esistono principi irrinunciabili.
Al tempo stesso si rende sempre più necessaria una discussione franca tra tuffi i soggetti del pacifismo italiano, tenendo certamente presente specificità e differenze, per superare il rischio dell’indeterminatezza e rintracciare quel filo comune che può portare alla crescita nel paese degli ideali di pace e di solidarietà che ci caratterizzano.
Sirio Conte e Giannina Del Bosco
portavoci nazionali dell’Associazione per la Pace
(“Il Manifesto”, 30 settembre 1999)