Sguardi dalla stiva


 

1. Monetizzazione della salute

“Tante volte mi domando se, lavorando con esseri umani e non con le macchine o i pacchi di pasta, non mi capita di far sentire qualcuno smarrito, angosciato, solo.
Devo dire che sono fortunata ad avere colleghi con cui posso condividere uno sforzo nel porre attenzione al paziente come persona.
Ci sono comunque aspetti nel lavoro in ospedale di fronte ai quali mi sento assolutamente impotente e che sempre più mi demotivano facendomi sentire il lavoro solo come un peso e sono quelli indotti dalla “monetizzazione” della salute.
Secondo me il disastro è iniziato con l’introduzione dei DRG, la solita americanata importata senza senso critico.
Forse di questo ne sai più di me e non vorrei offenderti con definizioni grossolane; comunque si tratta del principio per cui ad ogni prestazione è associato un valore in soldi. Più prestazioni fornisce un’azienda ospedaliera, più soldi avrà dalla regione e se alla fine dell’anno la stessa azienda presenta un bilancio positivo (o poco negativo), avendo fornito tante prestazioni e speso pochi soldi, la dirigenza viene riconfermata.
Conseguenze: si operano tutti, anche i cadaveri (i pazienti martoriati da interventi devastanti e impossibili, quindi condannati ad una fine dolorosa quanto inutile mi tolgono il sonno), si fanno più interventi su una stessa persona in sedute diverse anche se ciò sarebbe evitabile, i pazienti vengono dimessi anzitempo per liberare posti-letto (spesso ritornano per complicanze, ma così è meglio perché sono nuovi DRG) che comunque sono sempre in diminuzione per ragioni di costo (da qui difficoltà di gestione a casa specie per le persone anziane o senza aiuto); spesso anche da noi in terapia intensiva si ricoverano pazienti respiratori cronici, gestiti per anni fra il domicilio e i reparti di medicina, solo per poterli tracheotomizzare (la tracheotomia ha un DRG molto alto); gli infermieri sono costretti a turni massacranti, vengono fatti oggetto di promesse pecuniarie per il superlavoro ed i riposi saltati, promesse che sovente non vengono mantenute, per cui molti se ne vanno e per quelli che restano il lavoro non può che diventare più pesante; il materiale di cui disponiamo per curare i pazienti è sempre più scadente (costa meno) e spesso improvvisamente viene a mancare un presidio che avevi usato fino al giorno prima, sostituito da qualcos’altro che spesso non risponde alle esigenze terapeutiche perché scelto solo in base ad un criterio economico.
Potrei andare avanti all’infinito a citare esempi (un’altra tragedia è rappresentata dai malati psichiatrici e dalle loro famiglie spesso lasciati a se stessi) ma non vorrei sembrarti catastrofica (credo però di non esserlo). Sono comunque pessimista, perché credo che la sanità debba forzatamente essere un settore “in perdita”, non si produce la salute come si producono i detersivi o i biscotti, si curano i malati e se questi sono anziani o disabili o cronici o terminali sicuramente il migliorare la loro situazione non può arricchire nessuno”.

2. Un po’ di mesi in Afghanistan con Emergency

“Non ammirarmi troppo, non è il caso. Le motivazioni di questa scelta non si identificano completamente col desiderio di aiutare chi sta male. Certo, c’è anche molto di questo, però anche nel nostro paese si può fare molto, anche come medici.
In un paese come l’ Afganistan, comunque, sicuramente i bisogni sono più urgenti e qualunque aiuto diventa più determinante. Vado là anche per cercare di capire se ho ancora voglia di fare questo lavoro, per capire se sono ancora in grado di farlo come vorrei. Ho bisogno di agire come medico in modo più diretto, senza dover soddisfare (come nei nostri ospedali) esigenze che non sono degli ammalati.
Vado là anche per allontanarmi dai nostri criteri di giudizio e dal nostro sistema di vita, dove il superfluo è necessario. Ho bisogno di staccarmi dalle piccole comode cose che mi danno sicurezza. Vado là anche per fare un piccolo gesto di pace”.

a cura di Sandro Artioli


 

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