Mini-antologia in vista di Bergamo 2018
3) Ernesto Balducci
Un aspetto di quello che io amo chiamare “l’uomo planetario” è l’ecumenismo creaturale. È una forma nuova di ecumenismo che abbraccia in un solo cerchio non solo i credenti delle diverse confessioni cristiane, non solo i credenti delle diverse religioni, non solo i seguaci delle varie ideologie in cui si precisa e prende struttura razionale la speranza dell’uomo, ma tutte le creature dell’universo. Capisco che è un tema presuntuoso, forse anche lievemente ispirato ad una specie di enfasi profetica, però io non ho saputo trovarne uno più adatto, sia per raccogliere i motivi dispersi che abbiamo distintamente affrontato lungo il nostro itinerario di riflessione, sia per aprire un orizzonte sul futuro in cui possano trovare senso i molti segni nuovi che si sono accesi in questi ultimi tempi…
Quando pensai questo tema, non si era ancora celebrata l’Assemblea del Consiglio Ecumenico delle chiese che si è tenuta a Seoul dal 5 al 12 marzo di quest’anno [1990]. Nell’animo di molti di noi c’era ancora l’emozione per l’incontro di Basilea (15-21 maggio dello scorso anno), che aveva assunto il tema centrale di questa assemblea del 1990, “Giustizia, pace, salvaguardia del creato”, e ne aveva fatto un motivo per un happening ecumenico a dimensioni europee. L’opinione pubblica generale non ha avvertito i due avvenimenti in tutta la loro portata. Nessuna meraviglia, perché si tratta di avvenimenti, carichi di senso profetico, che di loro natura si collocano fuori del quadro di lettura vigente nella cultura dominante. Essi colgono nel profondo il processo di cambiamento che è in corso non solo nelle chiese ma nell’umanità in genere. Per definire in termini semplici il senso di questo cambiamento, e per farlo nell’ottica tipica delle chiese evangeliche, potremmo dire che al centro di questa nuova comprensione dei processi di unificazione delle chiese e del mondo intero sta la scoperta che – come dice il documento preparatorio di Seoul – «l’umanità e l’ecosfera sono diventate una sola comunità di sopravvivenza interdipendente», e cioè che le dimensioni comunitarie, costitutive dell’esser chiesa, non investono semplicemente l’ambito dei credenti di diverse confessioni, investono ormai l’umanità e l’ambiente vitale in cui l’umanità si trova a vivere. È come se all’improvviso la dimensione comunitaria varcasse perfino le soglie della specie umana e investisse l’universo delle cose. E’ questa la nuova congiuntura in cui ci troviamo…
Nella lettura razionale che io tento di darne, potrei dire che quella che è in crisi è la cultura del dominio, la cultura che aveva come sua intima spinta costruttiva la certezza di poter unificare tutti gli uomini secondo le regole del dominio dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla natura. Era la cultura che veicolava, dominandola, la violenza. A questo polo dialettico io contrappongo l’altra cultura, che, grazie a Dio, si sta rivelando feconda, ed è la cultura che chiamerò della comunione. Noi possiamo immaginare una unità del mondo attraverso la logica del dominio – una unificazione per coazioni di tutti i tipi – ed una unificazione del mondo per comunione, cioè per esaltazione delle diversità, per un rapporto tra le diversità che si riconoscono reciprocamente come tali.
Questa è l’unica linea di salvezza ed è la linea che vedo crescere sotto i miei occhi. Questa crescita della comunione porta con sé molte ambiguità, ma porta con sé scoperte che vanno osservate con estrema delicatezza e con una specie di capacità di attesa, perché il tempo e l’esperienza verifichino se si tratta di esperienze valide oppure no. Io penso ora alle ricerche di un diverso modo di vivere, di un diverso senso del tempo, di un diverso rapporto con l’altro, di una diversa accettazione della propria finitezza. Il male della cultura del dominio – mi viene a mente una espressione di Hegel – è che essa trasmette la “falsa infinità”. Questa falsa infinità è il superamento dei confini della finitezza di noi individui nella patria, nella razza, o comunque in entità che ci trascendono e a cui attribuiamo una abusiva assolutezza. Così facendo ci sentiamo salvati dalla nostra finitudine.
Invece, fa parte di questa cultura della comunione il senso della finitezza, del limite anche esistenziale, di affratellamento con la morte, temine che nel mio concetto non ha niente di necrofilo perché comporta una riconciliazione della vita con le proprie risorse e con i propri limiti. Solo se noi riusciamo a parlare della morte come “sorella morte”, ad evitare la rimozione della morte, noi riusciamo ad evitare la tendenza alla violenza. L’aggressività nasce dal ripudio della morte e dalla falsa infinitezza dell’uomo. Sono tutte motivazioni che rapsodicamente adesso espongo per far capire che, quando parlo della cultura della comunione, intendo assumere dentro questa formula la proliferazione di nuove forme antropologiche che sono quotidianamente a nostra disposizione. Permettete che sottolinei di nuovo il senso positivo che ha a questo riguardo la consuetudine con gli altri, con gente di altra razza, con i gruppi etnici considerati spesso come indesiderati ospiti, da trattare con saggezza e generosità, ma senza compromettersi con loro, e che invece possono diventare occasioni mirabili per riconoscere dinanzi a noi una alterità degna di essere rispettata come la nostra. È un processo, sia pure vissuto nella gradualità quasi inavvertita del quotidiano, di maturazione antropologica. Il razzismo o la xenofobia non sono che la frizione, anche comprensibile, che nasce là dove questa presenza degli altri non trova in noi una disponibilità a rimetterci in questione. Il rigetto non nasce da un razzismo ideologico coltivato ma da una immediatezza istintiva culturalmente elaborata dal passato. Il mutamento di cui sono testimone porta in sé una grande speranza. Noi dobbiamo convincerci che – ecco dov’è un’altra forma della falsa infinità — la civiltà che vive oggi questo momento di disincantamento, la modernità che oggi avverte la propria relatività spazio-temporale non è che un capitolo della storia della specie. Noi viviamo il chiudersi di una parabola, iniziata nel neolitico, con la quale è cominciata la storia e con la quale potrebbe mutare il senso di vivere la storia.
La possibilità di ricondurre ad una narrazione unitaria la vicenda del genere umano ha avuto inizio col neolitico e si chiude oggi. Non riesco più ad immaginare come potranno fare gli storici del domani a tentare qualcosa che rassomigli ad una storia universale. Mi ricordo ancora – scusate questa nota autobiografica – che quando avevo 15-16 anni misi mano, in una vecchia biblioteca, ad una storia universale di Cesare Cantù in una trentina di piccoli tomi. Nella mia ambizione di adolescente volevo leggere tutta la storia universale. Credo che ogni bambino che si apra al sapere abbia questa ambizione: è l’ambizione in cui il mondo occidentale ci ha allevato, e che ha dato a qualcuno la presunzione che sia possibile davvero abbracciare la storia dell’umanità. Solo che quando abbracciamo la storia dell’umanità lasciamo fuori tutti quelli che non hanno vissuto la nostra storia e compiamo, così, un primo atto di razzismo epistemologico, lasciando cadere nella irrilevanza chiunque non ci rassomigli o in qualche modo non sia stato coinvolto nella nostra storia.
Io vedo in questo come l’ultima parte di quella fase della evoluzione umana che con gli antropologi possiamo chiamare della ominizzazione. Nella sua evoluzione homo sapiens ha prolungato, anche quando con la sua intelligenza è diventato non più puro prodotto di evoluzione ma artefice della propria evoluzione, le strutture antagonistiche della lotta per la vita. Questa sopravvivenza della fase preumana nell’umano ha fatto sì che a molti – a Marx, a Teilhard de Chardin, per accostare due uomini diversissimi – la storia apparisse appena preistoria, dato che la vera storia dell’uomo si avrà quando l’uomo sarà artefice del proprio divenire collettivo senza far uso della violenza, della forza fisica come strumento risolutivo. Noi abbiamo vissuto una storia in cui la forza fisica ha avuto valore risolutivo. La struttura dell’antagonismo caratterizza la storia fino a quando non abbiamo toccato il limite dell’esperienza della specie, che è la percezione del pianeta come una sola città. È il momento della planetarizzazione in cui l’antagonismo ha perso la sua funzione evolutiva, anzi ha mostrato di mettere in rischio i fondamenti della sopravvivenza stessa della specie. Di qui un ritorno della specie alle sue sorgenti per l’esigenza di modificare in radice questa logica che ha preceduto l’albeggiamento dell’intelligenza e della coscienza umana…
Ernesto Balducci