Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
3) In ascolto di Ernesto Balducci
Una grande stagione
Trovandoci, qui, a Bergamo, il pensiero non può non andare spontaneamente alla memoria di Giovanni XXIII, la cui immagine rimanda ad una stagione di grande cambiamento e rinnovamento nella Chiesa e nella società. Siamo ad un convegno di preti operai, organizzato da persone che sono state legate ad un’esperienza molto originale e importante nella storia civile e religiosa dei decenni recenti nel nostro Paese, e non solo. Un omaggio va formulato all’indirizzo di figure, molto note e molto amate nell’ambito di tale movimento, come quella di don Sirio Politi, che creativamente ha operato in terra di Toscana. E veniamo al tema di cui mi è stato cortesemente chiesto di occuparmi. Ne parlo nella mia qualità di direttore di «Testimonianze», la rivista della cultura del dialogo che, sessanta anni fa, in tempi segnati dalle divisioni e dalle contrapposizioni ideologiche, è stata fondata da Ernesto Balducci. La rivista ha dedicato al suo fondatore, nel venticinquennale della sua scomparsa, un volume speciale, che, oltre che a Balducci, è dedicato a don Lorenzo Milani (a cinquanta anni dal suo decesso) e a David Maria Turoldo (che se ne è andato poco prima di Ernesto Balducci, nello stesso anno 1992). Si tratta di un volume del tutto non celebrativo, basato sulla ricostruzione storica dell’esperienza e della personalità e su una riflessione critica sui temi di fondo del percorso di questi preti «di frontiera». Il volume si intitola proprio così: Balducci, Turoldo, Milani, preti «di frontiera»1. Un titolo che cerca di dar conto dei due elementi di fondo che li accomunano: l’essere stati pienamente preti (nonostante le difficoltà spesso incontrate nel rapporto con la chiesa istituzionale) e uomini di fede e l’avere cercato, però, di porsi in una dimensione nuova tendente a cogliere e a raccogliere la sfida e i «segni» dei tempi. Nel loro caso, evidentemente, il termine «frontiera», che cerca in maniera immaginifica di evocare tale dimensione, non ha il significato di «barriera», limite invalicabile o separazione, ma evoca l’esatto contrario: uno spazio aperto, inesplorato e inedito, in cui è possibile la contaminazione ardita e feconda fra diversi. Nella copertina del volume abbiamo cercato di rendere graficamente l’idea con l’immagine della «Chiesa dell’autostrada» di Giovanni Michelucci: una «chiesa tenda», idealmente mobile e adattabile, capace di insediarsi nei difficili crocevia, negli spazi metropolitani e nei deserti della vita contemporanea.
Il tema delle radici
Per ognuno di noi, nelle sue scelte di vita, non conta tanto da dove viene, ma dove va. Nel caso di Ernesto Balducci, però, è molto importante capire da dove egli veniva ed è fondamentale il tema delle radici. Originario di Santa Fiora, un paesino delizioso del Monte Amiata, in cui però, un tempo, si viveva al confine fra una più dignitosa povertà e la vera e propria miseria, Balducci era nato in una famiglia del popolo. L’ambiente era quello dei minatori e minatore era il padre di Balducci. Nei testi de Il sogno di una cosa2, il libro degli scritti amiatini, curati da Lucio Niccolai, Balducci ne parla, ricordando che, al pari degli altri minatori, egli faceva quattordici chilometri per andare e quattordici per tornare dalla miniera, in cui lavorava tutto il giorno. E racconta che, da ragazzo, la sera vedeva questi minatori tornare con la lanterna e che, in lontananza, sembravano delle lucciole. Questo è l’impasto di durezza, ma anche di cultura del lavoro e di solidarietà umana in cui il futuro fondatore di «Testimonianze», nelle sue prime esperienze di vita, si forma. Per chi, oggi, si recasse a Santa Fiora, passare in visita al cimitero del paese può servire a capire molte cose. Bisogna, a volte, andare nella città dei morti per capire qualcosa della città dei vivi. E’ un cimitero semplice e, al tempo stesso, quasi monumentale. Un autentico deposito di memorie. Ci sono le tombe dei minatori e, insieme, quelle degli ingegneri minerari che hanno fatto la storia di questa terra. La parte storicamente più povera ed emarginata della Toscana. Vicino ad Ernesto Balducci, che qui riposa, stanno i «martiri di Niccioleta». Chi sono i «martiri di Niccioleta»? Sono 83 minatori, del villaggio operaio della Niccioleta, un certo numero dei quali di Santa Fiora, compagni di scuola e in qualche caso, anche compagni di classe di padre Ernesto Balducci che vengono fucilati dai nazisti in ritirata che, con un atto di quelli che spesso compivano per una sorta di vendetta e di ritorsione, volevano far saltare in aria la miniera. Qui c’è un paradosso apparente. Questi lavoratori muoiono per difendere il loro «inferno» quotidiano, che è pero anche la fonte del loro sostentamento e il luogo della loro cultura del lavoro. E’ un episodio che ha molta importanza anche dal punto di vista biografico ed esistenziale, per Balducci. Che fu incaricato quando i caduti santafioresi furono riesumati per essere sepolti nel loro paese, di tenere l’orazione funebre ufficiale. E’ un momento toccante, ed emotivamente coinvolgente, che lo stesso Balducci così ricostruisce: «Quando le 23 bare (…) vennero portate al nostro paese, un urlo si levò dalla folla. Io ero stretto fra la gente. Non ero uno spettatore. Ero un traditore. Me ne ero andato per una strada dove uno passa per rivoluzionario solo per aver scritto un articolo che può compromettergli la carriera.»3. Al riguardo, egli sente come un oscuro senso di colpa e un imperativo che lo induce a rimanere fedele alle sue origini ed a lavorare quindi, sia dal punto di vista civile, sia sul piano della fede, perché gli ultimi veramente siano i privilegiati nell’attenzione che è loro dovuta dal punto di vista umano, politico e culturale.
Sempre in riferimento al tema delle radici non si può non ricordare che Balducci ha conosciuto personalmente, e per esperienza diretta, anche il mondo del lavoro perché, prima di poter studiare presso gli Scolopi, per interessamento di un amico di famiglia, egli deve andare a fare l’apprendista da un fabbro ferraio, Manfredi Cicaloni, che adesso è sepolto a due passi da lui, nel cimitero di Santa Fiora.
Un personaggio particolare: è un fabbro libertario, anarchico, grande bestemmiatore, Manfredi. «Mia madre -scrive Balducci- mi aveva premunito nei confronti di questo scandalo, ma, alla lontana, io sono riuscito, per merito di Manfredi, a distinguere la bestemmia proletaria, che è un fenomeno religioso, dalla bestemmia borghese, che è ributtante cinismo». Ma il bestemmiatore Manfredi è, d’altra parte, un uomo di grande rettitudine morale. Nei sei mesi del suo apprendistato, il giovane Balducci riceve una lezione di vita fondamentale; quando se ne va a studiare nella scuola dei preti, Manfredi ci rimane male e gli dice: «Ernesto, non ti far imbrogliare dai preti!». Passano parecchi anni. Balducci diventa non solo prete, ma anche scrittore famoso, intellettuale, editorialista, intervenendo anche nelle polemiche politiche. Viene condannato nel processo per la sua difesa (analoga a quella del don Milani de L’obbedienza non è più una virtù4) dell’obiezione di coscienza, e torna un po’ scorato a Santa Fiora, mentre viene attaccato da tutta la stampa cattolica, benpensante, «borghese», che lo addita come «prete rosso». Va al cimitero di Santa Fiora, in raccoglimento sulla tomba del padre, quando sente qualcuno che gli mette una mano sulla spalla e gli dice, come se si fossero lasciati il giorno prima: “Ernesto, non ci sono riusciti”. La sua fierezza, è la constatazione commossa di Balducci, «mi toccò nel profondo come una benedizione di Dio»5. In queste parole c’è tutto Ernesto Balducci e il senso stesso del suo modo di intendere la fede e l’impegno civile. A volte, c’è stato chi ha interpretato questa sua estrema fedeltà al vangelo come una modalità che lo rendesse un po’ meno prete del dovuto a causa delle sue posizioni politiche, come se esse rappresentassero una sorta di detrazione della sua fede. Balducci, in realtà era, per così dire, molto prete, molto cristiano, ma cercava, nell’adesione ad una dimensione di laicità, il modo per dare espressione alla sua spiccata sensibilità sociale che affondava le radici in una lezione di vita appresa dalle sue origini e dalla sua terra. Tornando, per un attimo al cimitero di S. Fiora, sepolto poco lontano da Balducci, troviamo anche un personaggio che ad Arcidosso, un altro bel paese dell’Amiata, dove egli era nato, non lo vollero nemmeno da morto, in quanto considerato eretico. E’ David Lazzaretti, il «Cristo dell’Amiata», il profeta degli ultimi della sua terra, connotato da una singolare biografia: barrocciaio, semi-illetterato, protagonista di un’emblematica vicenda (con esito drammatico), nella seconda metà dell’Ottocento. David partecipa ad un paio di guerre risorgimentali, poi torna nel suo territorio, nel suo paese e non trova da reinserirsi; vive una crisi mistica e religiosa che lo porta non tanto a fuggire dal mondo, ma che lo schiude, anzi, all’esperienza di un cristianesimo di fiammeggiante vocazione sociale. Fonda sul Monte Labbro (il cui profilo è ben visibile da Santa Fiora) una comunità in cui si cominciavano a spartire i beni ed i frutti della terra, con un’esperienza che anticipa le idee cooperativistiche e socialiste. David muore in camicia rossa ucciso dalla fucilata di un regio carabiniere6. Ci sono molti simboli concentrati in una sola vicenda. Di Lazzaretti parla Lombroso e ne parla, in termini opposti, anche Gramsci (che vede nella vicenda di Lazzaretti un esempio del non inserimento delle masse popolari nel nuovo stato unitario post-risorgimentale). Anche Balducci si riferisce più volte alla storia di David Lazzaretti, che considera come una sorta di Gandhi locale ante litteram che, in nome della giustizia e della libertà, sacrifica la sua vita. Balducci stesso riprende spesso da questo «eretico» molti spunti per la sua azione non violenta per la pace e per i diritti umani. Balducci, Milani e Turoldo e tanti preti e cristiani «di frontiera» come loro (e come i preti operai) hanno contribuito moltissimo a favorire un cambio di mentalità, a stimolare il rinnovamento religioso e culturale e ad operare per l’avvicinamento fra esperienze e appartenenze culturali diverse in tempi in cui esse sembravano distanti e racchiuse, ognuna per la sua parte, dentro a dei comparti stagni.
La cultura del dialogo
Lo sottolinea benissimo , nel nostro volume, Valdo Spini, dal punto di vista della sua laicità e della sua fede valdese, riconoscendo come essi, al di là della diversità dell’identità, della provenienza e dell’appartenenza, hanno saputo rappresentare un riferimento anche per credenti di altre confessioni cristiane (cosa da dare, decenni fa, tutt’altro che per scontata) o di altre religioni e per gli stessi non credenti in virtù della loro apertura culturale e della loro propensione al dialogo.
Caratteristica comune a tutte queste personalità ed esperienze è stata quella di tenere aperte le finestre sul mondo (come sottolinea, in apertura del nostro volume il filosofo Sergio Givone).
Va considerato che essi si muovevano in un contesto e in tempi non semplici. La loro esigenza di fondo, in un tempo segnato da profonde divisioni, era quella di provare a saldare la frattura, che si era creata, fra chiesa e mondo.
Bisogna pensare che il Concilio Vaticano II (cioè il momento in cui la chiesa prova finalmente a fare i conti con la modernità) è solo degli anni sessanta.
Spesso la chiesa era vissuta come chiesa del peccato e della paura (per parafrasare un famoso libro del francese Delumeau7).
La chiesa aveva, del resto, registrato fratture profonde al suo interno: per esempio, con la condanna del Modernismo.
Anche la vicenda di cui parliamo reca un’eco di quei passaggi e di quelle ferite.
Givone parla non solo di Balducci, Turoldo e Milani, ma anche di precedenti «preti scomodi», come don Ferdinando Tartaglia che (a differenza de nostri preti «di frontiera», i quali, sia pure con non poca sofferenza, rimasero sempre dentro la chiesa) fu addirittura scomunicato. Era addirittura uno scomunicato «vitando» (nel senso che anche chi aveva contatti con lui avrebbe dovuto considerarsi automaticamente scomunicato).
La visione del cristianesimo di Tartaglia era del tutto opposta a quella della predicazione fondata sul terrore del peccato e della punizione.
Egli sosteneva (come l’antico Origene) la teoria dell’Apocatastasi, una dimensione in cui nessuno si perde e in cui alla fine vengono recuperati perfino gli «angeli ribelli».
Quelli come Balducci, Turoldo e Milani muovevano dalla presa d’atto e dalla preoccupazione per l’autentica «apostasia di massa» del mondo operaio e dei ceti popolari rispetto alla chiesa, considerata troppo contigua o interna, addirittura, alla dimensione del potere.
E’ in questo senso che don Milani, vedendo la gente del popolo che non partecipa alla processione, invece di chiedersi «Perché non sono qui con noi?», rovescia la domanda, che così formula mentalmente: «Perché non siamo là con loro?». Di Milani va ricordato soprattutto (come ha fatto, del resto, papa Bergoglio, nella visita a Barbiana che ha rappresentato una svolta epocale nell’atteggiamento della Chiesa istituzionale) il suo essere e voler essere maestro. Le fotografie più belle e più caratteristiche di don Milani sono quelle in cui egli è con i suoi ragazzi. Senza educazione e senza padronanza e comprensione piena della parola non c’è spazio nemmeno per l’evangelizzazione, che non potrebbe essere recepita. Questa la convinzione che, come è noto, animò tutto il suo agire. E cosa insegnava Lorenzo Milani ai suoi allievi montanari, chiusi in un angusto angolo di mondo? Insegnava a tenere ben aperte le finestre sul mondo e, anzi, ad essere «cittadini del mondo». A Barbiana si faceva scuola con il planisfero, si studiavano le lingue e si organizzavano i ragazzi a fare viaggi all’estero. Per conoscere persone, realtà ed esperienze diverse. In questo, sia pure nell’evidente diversità delle esperienze e degli strumenti usati, c’è una profonda affinità ideale fra Milani e Balducci. E c’è il segno della grande lezione del «sindaco santo» Giorgio La Pira, che esaltò il ruolo di Firenze come «città del mondo» e come città-simbolo della pace e dei diritti dell’uomo.
L’asse verticale e quello orizzontale
La Pira e Balducci si trovavano in sintonia nel parlare del «crinale apocalittico» su cui si muove l’umanità, nel tempo dell’«era atomica» e della crescente interdipendenza fra popoli, culture e nazioni di ogni parte del pianeta. E’ un’umanità il cui destino e le cui prospettive sono segnate da una profonda ambivalenza, sospese come sono fra inaudite possibilità di distruzione (e di autodistruzione) della specie umana in quanto tale ed inedite potenzialità di convivenza e di elaborazione di una nuova cultura della pace. E’ a partire da una tale ispirazione che Ernesto Balducci scrisse L’uomo planetario8, una sorta di libro-simbolo. L’ uomo planetario di cui parla Balducci, con singolare preveggenza e capacità di lettura dei «segni dei tempi», non rimanda ad una sorta di dimensione indifferenziata in cui si annullino le differenze fra i diversi comparti dell’umanità. Anzi, all’interno del cammino unitario che attende l’umanità del futuro, le differenze possono acquistare rilievo all’insegna di una cultura del dialogo che non rinneghi le identità di appartenenza, ma induca ad impostare in modo nuovo, creativo, rispettoso ed aperto, il tema del rapporto fra identità e alterità. E’ un tempo in cui anche per le religioni, come Balducci sottolinea, maturano responsabilità nuove e si prospetta la possibilità di una diversa interazione fra differenti culture e confessioni nell’ambito dello stesso cammino e rapporto ecumenico. Comune, intanto, dovrebbe essere, secondo l’autore de L’uomo planetario, il riconoscimento al valore ed alla dimensione della laicità che indica lo spazio in cui tutti, al di là delle convinzioni e delle credenze di riferimento, possono collocarsi e portare il loro contributo ad un costruttivo percorso di crescita umana e civile. Le convergenze fra le religioni, nel tempo nuovo che ci è dato vivere, nell’ottica balducciana, non sono da cercare lungo l’asse verticale delle credenze e dei convincimenti di carattere dogmatico (che, per ognuno, rimangono indiscutibili), ma lungo l’asse orizzontale della comune premura per la difesa della pace, dei diritti e della dignità dell’uomo. Un’impostazione del genere fu ben riconoscibile (come Balducci stesso, che pure non mostrava eccessivo apprezzamento per molti aspetti del pontificato wojtyliano, ebbe a riconoscere) nel primo, e memorabile, incontro delle religioni per la pace convocato ad Assisi da Giovanni Paolo II nell’ormai lontano 1986. Anche quell’evento prese atto (con i suoi simboli e con la presenza dei rappresentanti delle diverse religioni a pregare, con semplicità di cuore ed ognuno a suo modo, per il bene primario della pace) dell’avvento di un mondo nuovo. Un mondo pieno di incognite e di contraddizioni. Di questo nuovo mondo, segnato dall’ambivalenza e dalla definizione comunque del genere umano, nel bene e nel male, come un’unica comunità di destino, parla non solo Balducci. Ne ha parlato un grande intellettuale europeo, tuttora vivente, come Edgar Morin in suo libro di alcuni anni fa, dal significativo titolo di Terra patria9. E ne ha scritto in un suo lavoro, uscito recentissimamente, anche un filosofo, residente a Bergamo, mio amico e collaboratore di «Testimonianze», che ha pubblicato un piccolo, e denso volume che si occupa de Il tempo della complessità10. Tra i temi, e le emergenze che la comune Terra-patria ed il tempo della complessità si trovano, in maniera pressante, ad affrontare c’è, certo, quello del ripensamento del rapporto fra uomo e ambiente e tra sviluppo economico e sistema ecologico del pianeta. Sono questioni a cui «Testimonianze» ha dedicato, di recente, un volume monotematico, triplo, speciale, dal titolo Aria, Acqua, Terra, Fuoco11. Il titolo del volume, nel rimando ai quattro «grandi elementi» costitutivi della realtà secondo la visione degli antichi, intende esprimere, in modo metaforico, la sottolineatura della centralità della «questione ambiente» nel nostro tempo. Nel volume (suddiviso in varie sottosezioni) sono presenti contributi ed interventi di carattere scientifico, educativo-pedagogico, filosofico, letterario, teologico-religioso ed antropologico. Nello spazio dedicato al rapporto fra antropologia e «questione ambiente» è riportato anche un testo del grande Vittorio Lanternari (che, su questi temi, si era confrontato anche con Balducci) dal significativo titolo Ecoantropologia12.
Il «fuoco della vita»
Nelle pagine di Aria, Acqua, Terra, Fuoco, si trova anche un intervento di Stefano Zani su Ernesto Balducci e il «fuoco della vita»13. In tale contributo viene sinteticamente ricostruito il punto di vista di Ernesto Balducci su questi vitali temi. Secondo Balducci, in sostanza, la minaccia dell’estinzione della biosfera a causa dell’azione (spesso sconsiderata o poco preveggente) dell’homo sapiens è sempre più pressante e, per contrastarla, occorre immaginare una nuova forma di umanesimo. Un umanesimo che sappia custodire il «fuoco della vita», come egli dice, in nome di una visione che abbracci la totalità dei viventi. Significativi i richiami a citazioni di brani delle sue opere, che vengono, al riguardo proposte. Come questo passaggio, tratto dal suo Francesco d’Assisi, in cui si sostiene che l’uomo si deve convincere che «(…) il mondo in cui vive non è uno spazio per le sue conquiste, è un organismo vivente», ragion per cui occorre congedarsi dall’ «(…) impulso prometeico per aprirsi a una visione per cui (…) la vita è un tessuto unitario, dentro il quale – non sopra il quale – lampeggia la luce del pensiero, che pensa e progetta, scopertasi finalmente non arbitra, ma custode di tutte le cose»14. E’ un vero cambio di paradigma, come si dice, quello che qui viene auspicato, enunciato ed annunciato. Un cambiamento che viene postulato da una grande lezione che l’uomo deve disporsi a ricevere e ad apprendere. La «grande lezione nell’albero della vita», che è insita «in quelle ramificazioni con cui lo slancio vitale primigenio ha provveduto a se stesso, ora soccombendo, ora tentando nuove vie fino alla divaricazione genetica con cui ebbe inizio la nostra specie. L’umanità sta navigando ora fra pianeta e pianeta, ma i suoi piedi rimangono di argilla, sono friabili. Se appena guardiamo il futuro, il problema che ci afferra è addirittura se avremo acqua da bere, aria da respirare, terra da coltivare». Cosa ne discende, da tutto questo? Che nel «coincidere con quella biologica, la necessità etica non muore, ritrova il suo senso più profondo che è, a dispetto di tutti gli spiritualismi, il primato delle decisioni umane sui processi della natura. Questo radicale mutamento di ottica inaugura (…) la via dell’umanesimo postmoderno, o addirittura, scoprendo le carte, dell’umanesimo etnologico»15.
D’altra parte, è tempo (come suggeriscono autori come lo stesso Balducci, Morin o Ceruti) di un nuovo rapporto fra scienza e umanesimo, superando l’arcaica distinzione fra le «due culture » per elaborare una nuova cultura della complessità, fondata sull’idea dell’interdipendenza fra realtà diverse, fra uomini e donne di diverse identità ed appartenenze e fra umanità e natura. E’ all’ordine del giorno un nuovo senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future e dello stesso equilibrio naturale della biosfera e del pianeta Terra, come ha indicato, in maniera articolata, motivata ed autorevole la Laudato sì di papa Francesco (di cui nel sopracitato volume di «Testimonianze» dedicato alla «questione ambiente» parla diffusamente un testo di Piero Sirianni, dedicato alla lettura antropologica dell’ enciclica Laudato sì)16. E’ una visione complessiva che (nell’impostazione lungimirante e nella vena profetica di cristiani e di uomini civilmente impegnati come Milani, Turoldo e Balducci) si rifà ad una lettura globale della realtà contemporanea in cui si confrontano drammaticamente (secondo l’immagine che ne aveva tratteggiato Sigmund Freud, in un celebre carteggio con Albert Einstein del 1932 su «Perché la guerra?»17) le istanze di Eros (cioè dell’istinto unitivo, di vita) e quelle di Thanatos (l’istinto distruttivo, di morte). Di fronte alle emergenze di questo scenario (sul cui sfondo si staglia, a monito delle generazioni future il ricordo della «catastrofe atomica») non bisogna «vergognarsi di parlare con più sicurezza della potenza positiva dell’amore»18.
La lunga marcia dei diritti umani
Suggestive sono le parole di Ernesto Balducci, poco prima della sua scomparsa, al grande raduno dell’Arena di Verona, dedicato al cinquecentesimo della scoperta/conquista dell’America. Sono immagini emozionanti. Con lui c’è David Turoldo, emaciato e pallido, gravemente malato e in fase sostanzialmente terminale. E c’è Rigoberta Menchù, che rappresenta i popoli amerindi, che del mancato incontro fra l’uomo europeo (che si presenta in veste di conquistatore) e le popolazioni indigene del continente americano (confinate nel ruolo delle vittime) hanno fatto storicamente le spese, come ricorda lo stesso Balducci nel libro Montezuma scopre l’Europa19.
In tale occasione, Balducci critica fortemente l’Occidente per aver aderito ad una cultura della dominazione che ha sottomesso i popoli extraeuropei, ha svilito le loro culture ed ha disconosciuto l’«altro». E’ un convinto sostenitore della necessità di superare l’eurocentrismo, il fondatore di «Testimonianze», che è ben lontano tuttavia dal commettere l’errore di sostenere che il «tema Europa» e la questione dell’identità europea potessero essere cancellati, rimossi o liquidati in maniera semplicistica. Ne La Terra del tramonto20, egli rappresenta, l’Europa e l’Occidente come una sorta di «Giano bifronte». Che mostra, da un lato, il volto della cultura della sopraffazione, della dominazione e del colonialismo e che, dall’altro, rivela l’immagine di un percorso basato sul riferimento ai diritti umani ed alla democrazia. E’ un’ambivalenza profonda, su cui è possibile, culturalmente e politicamente, lavorare.
C’è un’Europa che «noi non amiamo», dice Balducci: è «l’Europa che sta prospettando il suo dominio universale verso la recuperata fiducia nel mercato libero, perché conosciamo cos’ è la libertà del mercato, è ancora l’ideologia dell’oro di Cristoforo Colombo, una ideologia che mette al primo posto il profitto. Essa si orpella di democrazia, ma la democrazia dell’Europa che noi non amiamo non è che una sottodeterminazione del profitto. Dovunque la democrazia può combinarsi col profitto bene, dove non si combina, abbasso la democrazia. Questa è la storia dell’Europa. Noi non amiamo l’Europa che ha realizzato un modello di civiltà basata sul consumo, che comporta la compromissione radicale degli equilibri del pianeta, della biosfera, il modello occidentale che l’Europa, nel momento del suo massimo universalismo, pensava di esportare in tutti gli angoli della terra è un modello che non può essere esportato perché già nella dimensione attuale sta compromettendo gli equilibri dell’ambiente vitale dell’uomo».
Ma, accanto a questa, c’è un’«Europa che sta faticosamente nascendo e che ha dato stupendi segni di sé in questi ultimi anni. È per questa Europa che noi siamo disposti a consacrare la nostra vita. Noi vogliamo un’Europa che invece di inserirsi nella competizione dello sviluppo economico e tecnologico secondo la legge di mercato apra la propria tecnologia all’integrazione con le attese profonde dei continenti esclusi. L’Europa deve aprirsi al Sud, l’Europa deve mettere la sua tecnologia, le sue conoscenze tecniche al servizio della crescita autonoma dei paesi esclusi. Questa Europa noi l’amiamo, è per questa Europa che noi combattiamo. Noi amiamo un’Europa che basa il proprio futuro sulla difesa dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli. Questa Europa di Helsinki è la nostra Europa, per questa Europa noi siamo disposti a manifestare, nella buona e nella trista ventura, quando siamo derisi perché siamo sconfitti, quando siamo temuti perché siamo molti o quando siamo dimenticati perché non ci facciamo vivi.»21. Siamo, come egli diceva in uno degli ultimi scritti della sua vita, in cui tracciava un po’ un bilancio del controverso dibattito degli anni Ottanta, che aveva attraversato anche la nostra realtà e la nostra redazione, all’interno della lunga marcia dei diritti umani22.
Un percorso in cui (questa è la convinzione maturata dall’autore) la «democrazia» è «ormai la vera via della rivoluzione»23. E’ un percorso, quello della lunga marcia, da seguire e da portare avanti, senza timore degli inciampi, delle sconfitte (apparenti o reali), delle contraddizioni di cui il cammino è sicuramente disseminato. Una è la bussola da tenere presente: la difesa e la salvaguardia, ovunque, della dignità degli uomini e delle donne, ovunque e a tutte le latitudini, in combinazione con una nuova coscienza dell’importanza di un’interazione positiva, e non distruttiva, con la natura.
Grandi sono gli scenari di riferimento. Ma il cambiamento, come si dice, inizia davvero se lo si attua, qui ed ora, a partire dalla realtà specifica e locale in cui ci troviamo ad operare. C’è un volume di «Testimonianze» dedicato a L’Italia dei piccoli centri24, in cui, a partire dal deposito di memorie, storie, tesori artistici, naturali e umani, viene istintivo riandare all’indicazione (a volte tradotta in slogan, il che non ne sminuisce il valore) del legame del locale con il globale.
Questo è, dopotutto e anche, il senso della storia, di cui insieme abbiamo brevemente ricordato i capisaldi e di cui abbiamo evocato la forza suggestiva. Il circolo che conduce oggi dal villaggio all’ età planetaria (quello indicato da Balducci, che ha saputo parlare del mondo globale, avendo a mente valori, insegnamenti ed esperienze di vita della sua «montagna incantata» e del suo paese natale) è, in fondo, lo stesso percorso culturale e umano, che deve condurre oggi a cercare, per quel che riguarda l’insegnamento di don Milani, Barbiana non tanto e non solo sulle montagne del Mugello, ma (come ricorda Eraldo Affinati nel volume L’uomo del futuro25,) tra le «Barbiane del mondo», cioè nei luoghi in cui regna l’emarginazione ed in cui c’è un grande bisogno di riscatto e di diritti.
Bisogna sempre essere attenti a coltivare la memoria ed il senso delle radici e della storia, ma, come avrebbe detto con il suo linguaggio immaginifico Ernesto Balducci, con un’affermazione perentoria che bisognerebbe avere a mente in un’epoca in cui si vive schiacciati su un indistinto presente: c’è un solo tempo degno dell’uomo e quel tempo è il futuro.