Nord – Sud
(continua dal numero precedente: qui)
Il cuore della teologia della lotta sta nella fede biblica. Dall’Antico Testamento alle prime comunità cristiane c’è questa prospettiva storica e di fede assoluta dei credenti; la teologia della lotta recupera ciò che si era parzialmente perduto a causa della istituzionalizzazione della religione.
Per fortuna i filippini hanno ancora la loro religiosità nativa. Solo ora riscopriamo la ricchezza della religiosità popolare, specialmente quella che si manifestava nelle credenze contadine antiche di secoli nei poteri e nella generosità di Bathala (Dio).
Quando Menang, che suonava i loro canti e musica sul lamudingitaha (chitarra locale) disse: «C’è qualcosa che ci ha turbato. Noi desideriamo essere illuminati. Alcuni cristiani del Sud ci han detto che non avremo parte nel paradiso che Cristo ha promesso perché non siamo stati battezzati… Ma anche noi desideriamo una vita migliore. Noi viviamo e nelle nostre attività quotidiane chiediamo la benedizione di Dio:
– prima della pesca: «Signore, che la nostra pesca nel fiume o nel mare sia abbondante per i nostri figli e le nostre famiglie»;
– prima della caccia: «Signore, che possiamo prendere qualcosa nella foresta per poterlo condividere»;
– prima della semina: «Signore, ecco i nostri campi, il nostro kaingin (tagliare e bruciare). Possiamo trarne cibo sufficiente per il nostro fabbisogno quotidiano».
Nessuno può negare l’influenza di un cattolicesimo che sottolinea la salvezza dell’anima e la ricompensa celeste riservata ai miti e agli umili. D’altra parte, molta di quella religiosità popolare è vivificante perché riconosce, come si vede dalle preghiere di Menang, il legame stretto fra la gente e il resto della creazione. È solo per grazia di Dio che questa saggezza nativa è sopravvissuta all’evangelizzazione fatta con l’ottica del primo mondo.
Per molto tempo le nostre teologie non ci hanno incoraggiato ad imparare dalla saggezza nativa. Al contrario esse si oppongono diametralmente a tutto quello che è visto come “superstizioso”, tentando di cancellare questa religiosità dalla memoria collettiva del nostro popolo. Per fortuna hanno fallito in questo tentativo. La teologia della lotta si abbevera alla ricchezza della nostra fede indigena così come è nutrita dalla nostra fede biblica. Forse sarà proprio la teologia della lotta a portare una genuina inculturazione.
Va notato come le celebrazioni liturgiche che si sono sviluppate in modo creativo a partire dalla prospettiva della teologia della lotta abbiano attinto alle ricche fonti della nostra cultura. La cultura della pianura, tanto pesantemente influenzata dall’occidente, non può esprimere completamente l’anima filippina. Le celebrazioni liturgiche, piene di creatività, sono assai più ricche e pittoresche a Mindanao e nella Cordigliera proprio perché attingono all’espressione culturale dei nostri antenati nei canti, musica, arte e movimenti del corpo.
Tuttavia la fede totale e integrale che è al centro della teologia della lotta è definita come “politica rivestita dell’abito talare”. È stata bollata come la fede dei marxisti e dei comunisti. Il nodo conflittuale è l’affermazione che questa fede manca di spiritualità.
Dove si trova la spiritualità della teologia della lotta?
P. Pedro Lucero, imprigionato con l’accusa di sovversione, scrisse una poesia che risponde a questo interrogativo:
«Il piegare le ginocchia
non costituisce santità – i farisei lo fanno.
Migliaia di giaculatorie e alleluia
non rendono santo un uomo – i carismatici lo fanno.
Una brillante omelia del calibro di quelle di S. Giovanni Crisostomo
non aggiunge un solo cubito alla pietà – i demagoghi lo fanno.
È la testimonianza collettiva, l’idea collettiva di martirio
la lotta collettiva che rende l’uomo pienamente umano,
pienamente vivo, pienamente santo.
Essere umani, preservare la vita, sostenerne la sacralità
ecco la quintessenza della spiritualità.
Coloro che aderiscono alla teologia della lotta non hanno motivo di difendere la loro spiritualità, perché sanno che è ancorata a Luca 4,18-19. Si tratta di qualcosa di non facilmente comprensibile, ancor meno accettabile per quanti si aggrappano a una spiritualità non radicata nella fede biblica. Ma è vero che Cristo non fu capito né accettato da tanta gente del suo tempo.
È necessario che coltiviamo una spiritualità che sostenga la nostra opzione per i poveri, che ci apra alla loro forza evangelizzatrice, che ci permetta di camminare con loro verso cielo e terra nuovi. Senza questa dimensione ci troviamo ad affrontare le prospettive di una vera povertà spirituale.
Dobbiamo essere aperti a tutte le possibilità e forme della venuta del Regno di Dio nella matrice di situazioni concrete e di processi storici in evoluzione, mettendo intera la nostra fiducia e speranza nel Dio dell’alleanza, il cui sogno per il suo popolo è frustrato nell’attuale condizione dei poveri, degli affamati e degli afflitti.
Questo spirito di povertà si manifesta in uno stile di vita semplice, liberamente abbracciato per amore del Regno. Questa povertà volontaria garantisce compassione, misericordia, equa divisione dei beni, passione per la verità, giustizia e libertà, amore disinteressato. Allo stesso tempo, esso è una possente accusa e protesta contro quelli che vivono secondo le regole del grande prestigio, del potere ingiusto e crudele e della ricchezza sfrenata (JuIio X. Labayen. op. cit., p. 32.).
Coloro che aderiscono alla teologia della lotta conducono una vita semplice come espressione del loro coinvolgimento con i poveri. Perciò essi scelgono di vivere nei villaggi rurali, nelle piantagioni, negli slums e nell’interno. I religiosi che si sono seriamente impegnati in questo stile di vita incontrano ostacoli nel sistema istituzionale. Malgrado tali conflitti la teologia della lotta continua a incoraggiarci ad una opzione per i poveri e gli oppressi.
Coinvolgimento in azioni che portano a una trasformazione sociale
«È tempo, amici, di mostrare la forza della nostra unità
è tempo, amici, di conseguire la vera libertà»
(da un canto di Rody de Vera)
«O mio popolo, combattiamo
in difesa della nostra terra nativa
cambiamo il nostro destino
perché solo allora potremo liberarci»
(canto rivoluzionario di Maranao)
«Operai e contadini, giovani e professionisti
persone di chiesa, uomini d’affari nazionalisti e impiegati statali
diamoci la mano per distruggere l’imperialismo
siamo come un sol uomo per sradicare il fascisrno
in noi c’è una forza vera, il futuro è nostro
siamo uno con la democrazia nazionale».
(canto nazionalista Tagalog)
I brani citati sono tratti da alcuni delle centinaia di canti che veicolano lo stesso messaggio: siate parte della lotta per la giustizia, la verità, la libertà, la democrazia. Sono scritti in diverse lingue e dialetti: in Tagalog, Cebuano, Ilongo, Bicolano, Maranao, Ilokano e altri dialetti e lingue filippine, ma tutti fluiscono da quella presa di coscienza che ha dato origine allo slogan: «Marikaba, huwag matakot!» (osate combattere, non abbiate paura!).
Nonostante il ripristino di alcuni diritti civili sotto il governo Aquino, le strutture oppressive del passato restano immutate. Perciò la lotta deve continuare.
«Fino a quando potrò vedere un pezzetto di cielo
un pezzetto di azzurro al di là del filo spinato
oltre le sbarre e oserò sognare
e oserò combattere
e oserò pagare il prezzo
della libertà agognata
della giustizia ricercata e della verità
per la terra amata».
(da una poesia di Leonor Seville)
Osare di combattere! Osare di pagare il prezzo, osare di lottare, osare di vincere! Il sogno è il conseguimento di un ordine sociale radicalmente nuovo in cui ognuno goda pienamente dei propri diritti, in cui siano soddisfatti i bisogni essenziali e in cui tutti possano partecipare pienamente alla programmazione del corso del loro destino.
I cristiani impegnati scelgono di partecipare alla trasformazione sociale. Questo costituisce la prassi della loro adesione alla teologia della lotta.
«È nella prassi del coinvolgimento nella lotta dei poveri e nella consapevolezza della necessità di una teologia liberatrice che noi scopriamo pure che la teologia non può arrestarsi alla riflessione. Deve portare all’azione.
In qualche modo si sapeva da sempre che una buona teologia deve portare a una buona azione pastorale, ma tuttavia la lunga convivenza col pensiero metafisico greco ci ha condizionato, spingendoci a considerare la teologia come una speculazione astratta. Adesso la prassi, l‘analisi e la fede cospirano a farci vedere che anche per la teologia l’essenziale è contemplare, spiegare il mondo e anche cambiarlo.
E così parliamo di una teologia che porta ad agire per una trasformazione. Qualsiasi buona teologia deve portare almeno a una trasformazione individuale, tuttavia vediamo che la teologia odierna non deve solo fare questo, ma andare al di là e contribuire a una vita globale attraverso la trasformazione sociale» (Carlos Abesamis, op. cit., p. 135.).
La comprensione intuitiva della teologia della lotta ha spinto molta gente di chiesa a impegnarsi e a partecipare alla lotta a favore dei poveri e degli oppressi. La loro solidarietà assume forma concreta. Con i contadini, appoggiano la lotta per una autentica riforma agraria. Con gli operai, alzano i loro kamao (pugni chiusi) per chiedere paghe giuste, garanzia del posto di lavoro e libertà di fondare veri sindacati. Con i poveri della città, c’è il kapit – bisig (formare una catena tenendosi sottobraccio) per opporsi agli ordini di sfratto dello Stato e per chiedere abitazioni decenti e servizi sociali adeguati.
Con le comunità tribali portano il tubaw (striscia intorno alla testa) per esprimere dissenso contro l’usurpazione delle terre degli antenati, la distruzione delle foreste e l’introduzione di progetti di infrastrutture che costringono i tribali a spostarsi altrove.
Oltre ad appoggiare queste richieste settoriali, la prassi porta le persone di chiesa impegnate a partecipare a campagne che affrontano problemi generali: l’intervento USA a causa delle basi militari, la militarizzazione, il traffico delle donne filippine, la prostituzione infantile, il controllo della Banca Mondiale e del FMI sulla economia, la corruzione nel governo, ecc.
In molti casi la prassi ha portato la gente di chiesa ad occuparsi di programmi di istruzione e organizzazione o dei servizi tecnici (per es. la salute, la tecnologia appropriata, i mass media) che fanno da supporto a questi programmi.
Purtroppo c’è la convinzione preconcetta che il coinvolgimento nella lotta dei poveri, degli oppressi e degli sfruttati porti automaticamente a una prospettiva orientata al conflitto che promuove la lotta di classe. Anni fa diversi vescovi erano contrari all’animazione di comunità perché secondo loro un tale metodo favoriva il conflitto. Oggi essi si oppongono al programma Comunità Cristiane di Base – Animazione di Comunità perché ci sono elementi appunto di animazione di comunità.
P. Pedro Selgado chiede: «Ma come possono i teologi parlare correttamente dei problemi dei poveri quando sono circondati dai privilegi e dalla ricchezza di coloro che opprimono i poveri?».
Ciononostante i movimenti popolari sono visti oggi da molti teologi come segni del regno di Dio.
I non privilegiati e gli sfruttati cominciano ad affermarsi. Hanno preso coscienza delle loro comuni esperienze di oppressione e hanno deciso di unire le loro forze per trasformare la loro condizione. Acquistano ogni giorno maggiore fiducia in se stessi e guardano a sé come coloro che provvedono i mezzi primari che porteranno al cambiamento necessario per il loro benessere. Nella Bibbia ci sono modelli di movimenti popolari che mostrano la tensione fra il desiderio del tiranno di perpetuare il proprio potere e la volontà del popolo di liberarsi (Elizabeth Dominguez, Signs and Countersigns of the Kingdom of God in Asia today, Kalinangan, dic. 1984, p. 10).
In realtà uno dei segni più chiari della presenza del Regno è proprio l’impegno del popolo per i valori evangelici di libertà, giustizia, verità, pace e amore. Nell’assumere la lotta per il conseguimento di questi valori, il popolo è diventato vero co-creatore di Dio.
I teologi sono i poveri del popolo
«Come intendi il rapporto fra cristianesimo e lotta?» fu chiesto a un povero della città. «La lotta è Gesù Cristo. Noi vediamo Gesù Cristo come via alla libertà. Vediamo in Gesù l’amore per l’umanità. La lotta del popolo è la lotta di Gesù. Come Gesù e il popolo, i cristiani dovrebbero lottare per l’avvento del regno di Dio sulla terra».
Abesamis scrive: «I poveri del popolo, via via che escono dalla loro cultura di sottomissione e di silenzio, sono i veri teologi. L’atto del far teologia deve appartenere a loro. La fiducia nel popolo e la ferma convinzione che esso può fare teologia e che esso è il vero teologo resta il fulcro della nostra posizione. Ci sono state occasioni innumerevoli in cui la gente stessa fa opera di teologia quando comunica le riflessioni di fede – vita. Là dove la gente è stata coscientizzata ed ha approfondito la propria fede, nascono di solito comunità cristiane di base. Queste comunità divengono il centro di riflessioni di fede – vita (leggi: far teologia) cosicché i poveri diventano gli autori delle formulazioni teologiche più significative nel nostro paese.
Migliaia di comunità cristiane di base sono sorte in tutto il paese in questi ultimi venti anni. Esse hanno reso viva la chiesa per gli abitanti dei villaggi isolati creando comunità popolari. Esse costituiscono l’espressione più drammatica di una chiesa popolare nelle Filippine, con la loro cappella che serve da ‘tempio di bambù’. Lì, durante la riflessione sulla Bibbia e le celebrazioni liturgiche, essi portano la saggezza contadina ai loro incontri di fede. Le storie del Vangelo risuonano all’unisono con la loro vita… Sanno che il messaggio di Gesù è la buona novella; capiscono perché la giustizia è al centro della evangelizzazione» (Carlos Abesamis, op. cit., p. 136). Là dove i leaders laici sono dentro la lotta per una umanità più piena e hanno approfondito la loro fede, nascono riflessioni teologiche in grado di soggiogare l’animo di quanti hanno il privilegio di ascoltarli. Purtroppo c’è ben poca documentazione a quel livello, ma anche se ci fosse resta il fatto che la parola scritta non è in grado di cogliere pienamente la ricchezza di quanto è stato condiviso: bisogna essere lì.
Solo coloro che hanno trascorso un certo tempo con gli strati popolari riescono a capire di più le conseguenze dell’affermazione che i poveri del popolo sono i produttori delle formulazioni teologiche che andiamo cercando.
E tuttavia l’immergersi in questo mondo non basta: occorre entrare nell’esperienza e nell‘ottica delle masse popolari per avvertire ciò che vien detto ai differenti livelli. Si deve abbracciare il loro punto di osservazione per essere toccati dalle profondità della loro fede. Quanti missionari del ceto medio hanno alimentato il loro impegno di lotta ascoltando semplicemente le riflessioni di fede della gente che cercano di servire? Che dire degli altri teologi: hanno ancora un ruolo da svolgere?
Il ruolo dell’esperto è quello del tecnico. Poiché possiede competenza tecnica nell’esegesi, nelle scienze sociali o nel linguaggio, il tecnico offre il materiale che gli deriva da questi diversi settori ai veri teologi, per aiutarli ad interpretare la realtà nella prospettiva dei poveri. Questa persona comunque deve avere consapevolezza critica e deve continuare a sforzarsi davvero di superare la propria coscienza e le proprie abitudini borghesi.
KARL GASPAR, CSSR
(già detenuto politico, è Redentorista e membro di EATWOT, l’Associazione Ecumenica dei teologi del Terzo Mondo)
(Continua nel numero successivo: qui)