Frammenti di vita raccontati dai PO
nel decimo anniversario della nostra rivista
Ho iniziato a lavorare a 29 anni in una fabbrica artigianale di lampadari. Un impatto duro con il mondo del lavoro dipendente!
Ho resistito 2 anni (1992-1994). Al termine di quel periodo ho steso alcune note.
1. DUE ANNI VISSUTI PERICOLOSAMENTE
Emerge innanzitutto la sensazione dell’inganno tra dentro e fuori : fuori , un normale capannone (quasi bello!) che non lascia trasparire ciò che avviene dentro (cosa percepirà la signora della casa di fronte che vedevo stendere la biancheria, tranquilla, ascoltando la musica…?).
Ma anche dentro il capannone c’è un ulteriore dentro e fuori . Chi viene dall’esterno e si ferma solo pochi minuti per scaricare o caricare, probabilmente non si accorge di quello che avviene dentro (a meno che arrivi proprio durante una delle numerose “scene di ordinaria follia”…). Magari arriva a dire: “fortunati voi che lavorate in una piccola fabbrica…”, perché ha scambiato una battuta col padrone e l’ha trovato simpatico! Stessa esperienza del prete della parrocchia: è un padrone che va a messa, che vuole la benedizione natalizia (e la paga!), che dà lavoro anche ad extracomunitari…
Chissà cosa percepiranno del lavoro gli amici del padrone o quelli che scambiano con lui, occasionalmente, quattro chiacchiere…
Da dentro si capisce bene l’inganno, come si formano i “luoghi comuni” ripetuti da chi è fuori . Questa percezione dell’inganno mi fa star male ogni volta che vedo un capannone…
Come descrivere il dentro ?
Una serie di “packaging machines” per sigillare le scatole di diversa dimensione, per timbrare e applicare un’etichetta (ma a volte bisogna farlo a mano); un carrello dove scorrono le scatole che così giungono su una piattaforma mobile dove è posto il bancale. Lì si accumulano e quando il bancale è completo, un pressino lo blocca e la piattaforma inizia a girare per chiuderlo con il nastro politenato.
E poi i cestoni che contengono la merce da imballare (lampadari, lampioni per giardini….).
Le scatole di diverse dimensioni e colori.
I vetri.
I bancali vuoti.
I sacchi a bolle.
Le file di bancali “chiusi”, pronti per essere caricati.
Il muletto e i transpallets…
Ma questa descrizione sta sotto il segno dell’inganno. È come una foto che ferma una realtà in movimento.
Per descrivere il dentro occorre inventare una fenomenologia diversa, dalla quale emerge chiaramente che:
– la macchina terrorizza perché decide (sic!) i ritmi, la velocità, e la si guarda sperando che qualche ingranaggio si inceppi (valore umanizzante del luddismo!);
– il carrello che porta le scatole si riempie velocemente e per chi deve prendere le scatole e sistemarle sul bancale inizia l’angoscia;
– le scatole pesano e tagliano, si spostano sul bancale complicando il carico sul camion; ecc…
E poi occorrerebbe una fenomenologia che riesca a descrivere le persone. Il padrone (forse per chi non è dentro darà fastidio la parola stessa. Sarebbe meglio nominarlo come datore di lavoro… anche il vocabolario cambia tra chi è dentro e chi è fuori !): un giovane brianzolo rampante, che lavora anche quando gli operai (non tutti!) sono in ferie (tre settimane ad agosto). Colui che ha reso la ditta “più competitiva della Corea” (così ha detto…).
I cinque dipendenti del magazzino: Monica, 23 anni, capo magazzino; Andrea, 17 anni, suo fratello; Roberta, 23 anni, dalle elementari amica di Monica (con due sorelle e due cugine che lavorano nella stessa fabbrica, in produzione); Tonino, 29 anni, mandato in magazzino per “farlo fuori”; ed io.
I legami di parentela e di amicizia nella piccola fabbrica sono una risorsa di controllo e di ricatto per il padrone e un handicap per gli operai.
Sono tutte persone giovani, non sposate che hanno fatto precedentemente altri lavoretti in nero, mal pagati (in quell’età in cui io acquisivo preziosi strumenti culturali, giocavo, vivevo spensierato…). Se li incontrate fuori dal lavoro non li riconoscete: belli, simpatici… ma dentro …!
Il “caso serio” è Monica che, in qualità di responsabile, è stata esaurita dal padrone. Nervosa, angosciata dalla paura di non riuscire a fare tutto, respira con affanno, e, naturalmente, scarica sugli altri le sue tensioni. Soprattutto su Tonino che è lento (“Mi devono mandare sempre a me tutti gli incapaci?”), ma anche su di me, su Andrea e Roberta (“Ve l’ho trovato io il lavoro”).
Bisognerebbe studiare il problema della comunicazione. Da noi la comunicazione è solo direttiva, da controllore a controllato. Mi tornano in mente alcune frasi fatte che sono come pugnali (ma scriverle non rende l’idea: manca l’inflessione della voce, il timbro, le ripercussioni emotive…): “ci sei?”; “ti manca ancora tanto?”; “guarda che c’è tanto da fare”…
E poi gli insulti (uno di fuori , forse, li prenderebbe per interiezioni di un discorso dal genere letterario del lamento, tipico di ogni padrone… ma come spiegare che rivolgendosi agli uomini la interiezione è: “brutto cane”; mentre per le donne è “brutta cagna”?); il continuo lamento (sempre c’è qualcosa che non va bene e così “rubiamo il pane ad altri che han voglia di lavorare”); la mancanza di fiducia; il sospetto; la mistificazione (“dovresti farmi un piacere”…); la falsità (c’è ancora fuori il cartello che recita “per motivi di tempestività nelle consegne si domanda a tutti i dipendenti di rendersi disponibili per gli straordinari nel periodo che intercorre dal 01.02.’94 al 31.03.’94”. Ma tutti sanno che gli straordinari durano tutto l’anno!).
In questo clima “comunicativo” l’essere chiamati (gridando) per nome è angosciante (chissà cosa penserà un operaio quando sente dire in chiesa che Dio chiama per nome…!).
Tutto (anche la parola) è finalizzato alla spremitura dell’operaio “usa e getta” e qui occorrerebbe inserire un capitolo sulle umiliazioni aggiuntive (rispetto alla già umiliante condizione del lavoro manuale dipendente) tipiche di una piccola fabbrica: nessuna pausa nell’orario di lavoro; di caffé non se ne parla, nonostante, d’inverno, si lavora spesso a 9 gradi; l’andare alla toilette di corsa e non più di due volte al giorno; doversi portare il sapone da casa…
A tutto questo si sottostà perché il padrone “paga” e poi “con la crisi che c’è, è già tanto che posso lavorare…”.
Come parlare di questa paura che rende muti di fronte all’umiliazione e all’ingiustizia? (Il contratto fa testo solo per lo stipendio: sugli altri aspetti le irregolarità sono numerose. Un esempio clamoroso è lo sfondamento del tetto previsto per le ore di straordinario. Da gennaio a giugno ‘93 la settimana lavorativa è stata di 10 ore al giorno, più 8 ore al sabato e 4 la domenica! Commento del padrone: “se ti va è così, altrimenti fuori ce ne sono 10 pronti a sostituirti…”).
Oltre alla paura c’è anche l’incapacità a pensare ad una reazione. L’unica reazione è quella emotiva: rabbia, pianto, insulti… Ricordo che un giorno ero riuscito a convincere gli altri a trovarci prima del lavoro per parlare e vedere come affrontare un problema sorto. Quando ci siamo trovati, tutti erano d’accordo nell’affermare che non c’era più bisogno di parlarne, dal momento che erano passate alcune ore e il problema lo si poteva dimenticare…
Basta pensare che alla sera c’è alla televisione Fiorello o che si esce con gli amici per dimenticare la pesantezza della vita di fabbrica.
Mi sembra che i miei compagni di lavoro siano convinti che “in fabbrica non c’è salvezza”; che quando lavori ciò che conta è far passare il tempo (che non passa mai…!); che il tempo vero, quello in cui si vive, è la sera (non tutte, perché si è stanchi e ci vorrebbe un fisico bestiale…), il fine settimana o, per qualcuno, la malattia (pochissimi, in realtà, perché si viene al lavoro anche con la febbre o con il braccio rotto! Solo Domenico, che dopo il lavoro studia ed ha qualche chance in più degli altri, ha deciso di farsi cadere sul piede la base di un lampione per poter stare a casa almeno un po’… E così in fabbrica, la malattia diventa una benedizione!).
Il dimenticare come unica via d’uscita!
Chissà se queste annotazioni fanno intuire qualcosa di ciò che vive un operaio di una piccola fabbrica artigianale! Certe cose le si vedono solo stando dentro ; e più che vederle con gli occhi, le si sentono con la pancia, con la contrazione nervosa dei muscoli, col respiro affannato, con la rabbia in corpo… Ma come descrivere questo? Dobbiamo ancora trovare un alfabeto…
TRE BREVI NOTE
a. Nota sui rapporti con i compagni di lavoro
Nella piccola fabbrica anche i rapporti tra compagni di lavoro sono ambigui. Mi viene spontaneo il confronto con l’esperienza di E. Van Broechoven (“Diario dell’amicizia”), il quale riesce a vivere la mistica dell’amicizia senza sconfinare nella mistificazione, perché dove lavorava erano ben delineate le parti…
Nella piccola fabbrica i compagni di lavoro sono numericamente pochi; dei miei 4 compagni, una è la capomagazzino (da che parte considerarla?), uno è suo fratello, una è sua amica…
Nonostante questa ambiguità, un minimo di solidarietà si è instaurata (tranne, forse, che con la capomagazzino). Un minimo, nel senso della simpatia, della stima reciproca, dell’aiutarsi…; non certo ad un livello di progettualità comune! Un po’ più di un minimo con Domenico al momento del suo licenziamento e con Tonino, continuamente umiliato e offeso…
b. Nota sulla dimensione politica
Avevo scelto di “stare per capire”, rimandando la possibilità di un intervento. Di fatto non c’erano le condizioni per creare una qualche forma di soggettività politico-sindacale…
Forse mi ha pure bloccato la paura di assumere la conflittualità o la minaccia di ritorsioni nei confronti della cooperativa…
Non sono andato aldilà di alcune rivendicazioni sui tempi di lavoro e sulle ferie, del rifiuto di fare straordinari, e di alcuni brevissimi ragionamenti con qualche compagno di lavoro.
c. Nota sulla dimensione religiosa
Un amico mi chiedeva: quale vangelo annunci ai tuoi compagni di lavoro? Io pensavo: a quale vangelo posso continuare a credere in questa situazione dove si sperimenta la potenza del negativo? Stando dentro occorre riformulare le domande sulla fede, sul prete, sulla chiesa…
2. CANTARE IN TERRA STRANIERA
Ora lavoro in una cooperativa di produzione-lavoro: assemblaggi, imbiancatura, raccolta-siringhe nei parchi, lavoretti vari… Di questo periodo, che è il mio presente, offro agli amici PO una riflessione sul “dire Dio nella prospettiva del Regno, in una società pluralistica e secolarizzata”. Sono delle note che ho preparato per il Segretariato Attività Ecumeniche di Milano.
Non sono in continuità con gli appunti riportati sopra. In fabbrica si sperimenta ”l’acqua che giunge alla gola” (Giona 2, 6) e la conseguente impossibilità di dire Dio. Qui, tuttavia, provo a “camminare sulle acque”…
Non cerco la luce troppo abbagliante dei pensieri conclusi (che si muovono nella direzione del “com-prendere” più che in quella dell’ ”in-tendere”). Vorrei tentare un approccio “intuitivo”, che non delinea percorsi ma li evoca, che si attiene agli “inizi”, agli “indizi”, alle “tracce”. Infatti “pensare è più interessante di sapere, ma non di intuire” (J. W. Goethe).
a. “Molti ascoltandolo rimanevano stupiti” (Mc 6,2)
Come uscire dal vicolo cieco di un linguaggio che non parla o perché è “moneta fuori corso” o perché è “carta di credito” riservata solo ad un’élite di esperti teologi? Quale linguaggio è capace di suscitare stupore non solo nel filosofo ma anche nella servetta tracia?
Penso che dovremmo provare la strada del linguaggio simbolico, aperto ad una molteplicità di risonanze. Un linguaggio in cui si possa sentire i pensieri e pensare i sentimenti. “Un modo di parlare di Dio che non divida e non separi più tra sentimento e pensiero, tra inconscio e coscienza, tra natura ed essere umano, tra laici e chierici…Un linguaggio poetico, terapeutico, sensibile e onirico, esattamente così come Gesù parlava alla gente” (E. Drewermann). Dalle lingue ecclesiastiche ufficiali al “dialetto di Canaan”!
È forse la richiesta di un linguaggio troppo umano? È vero che sentimento e parola sembrano luoghi propri del mortale dell’umano. E se fosse, tuttavia, che entrambi – il Dio e l’essere umano – abitano il medesimo luogo, ma diversamente?
b. “Rispondete con gentilezza e rispetto…” (1 Pt 3,16)
“Una delle novità della nuova situazione culturale non è data tanto dal fatto che una cultura stia soppiantando la precedente, ma dal fatto che noi oggi ci troviamo di fronte ad un policentrismo culturale” (G. Ruggieri). La piazza nella quale dobbiamo parlare non ha più un centro. Ci sentiamo “spiazzati”!
Le chiese e i credenti spesso reagiscono o seguendo l’itinerario di Narciso, che contempla la propria identità (e cade così nella para-noia, che è il contrario della metà-noia!), o, all’opposto, quello di Eco, che ridice le parole di altri…
Quale cristianesimo può accogliere la sfida del pluralismo senza paralisi o dissolvimenti? Un cristianesimo capace di ascolto, di sentire in grande come il suo Dio (macrothymia); che non gioca la verità contro la carità; che non giudica (anche perché “male onora la propria religione chi se ne serve per denigrare quella di un altro”!). Un cristianesimo umile, cosciente che in realtà noi non siamo ancora cristiani, ma solo possiamo desiderare di diventarlo (non dimentichiamo l’insegnamento di Kierkegaard: il filosofo danese diceva che “il compito di un apostolo è di diffondere il cristianesimo, di conquistare nuovi adepti. Il mio compito è di liberare gli uomini dalla presunzione di essere cristiani”).
E soprattutto un cristianesimo che non demonizzi la diversità, ma la ritrovi iscritta nel suo stesso codice genetico (Genesi 1, portale d’ingresso della Torah, ci parla di un Dio che crea separando, differenziando. E così Genesi 10, che presenta una teologia delle nazioni basata sulla chiamata alla differenziazione e alla dispersione, letta non come la conseguenza di una maledizione, ma come il rinnovarsi della creazione dopo il diluvio. Tale lettura di Genesi 10 ci permette di non vedere nella dispersione delle genti dopo Babele, in Genesi 11 un atto punitivo divino, ma un ennesimo paziente tentativo di Dio di ristabilire il suo progetto).
c. “Cammina davanti a me…” (Gentile 17,1)
“Il midrash oppone Abramo a Noè. Quest’ultimo, come l’invalido, ha bisogno del bastone di Dio per sostenersi. Abramo invece cammina ritto, da solo, davanti a Dio. Noè è come il cieco, smarrito nelle paludi e che rischiava di impantanarsi in esse, se Dio non avesse steso il suo braccio per trarlo fuori da quella situazione. Abramo invece accende la lampada per guidare i passi brancolanti di Dio lungo le vie oscure della storia” (A. Neher).
In un momento in cui, venute meno le grandi narrazioni delle ideologie, il mondo laico torna a parlare di Dio e del credere, le chiese corrono il rischio del revanscismo, di voler ricostruire sulle ceneri. Ma c’è ancora molto fuoco sotto la cenere della modernità! E se non ci limitiamo a seguire le mode, dobbiamo riconoscere che ancora non abbiamo “pagato i debiti” della modernità. La quale ci invita alla maggiore età e alla libertà. Figlie e figli di Dio maggiorenni, più simili ad Abramo che a Noè. Non semplici ripetitori di una tradizione ma discepoli dei profeti, di coloro che hanno sottoposto la tradizione alla prova della vita, hanno messo alla prova il senso della parola introducendola nel mondo.
d. “Gesù andò verso di loro, camminando sul mare” (Mt 14,25)
Solitamente pensiamo al Regno come ad una terra promessa, all’isola di utopia, dove le acque del caos, che pure la circondano, non hanno accesso: una specie di zona franca, dove si odono solo canti e non più grida.
Gesù non ha tolto le acque ma ci ha camminato sopra. E i discepoli e le discepole del Cristo non percorrono la storia lungo corsie preferenziali ma gridano al loro Dio: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque” (Mt 14,28).
Noi non possediamo già il futuro del Regno ma lo attendiamo nella speranza (che a volte è uno “sperare contro ogni speranza”!). Questo significa ricordare che siamo stranieri e pellegrini, sempre in stato di esodo. Forse anche le nostre divisioni confessionali vanno lette non solo come il “già” della ricchezza plurale ma anche come il “non ancora” dell’esilio, in attesa del compimento del Regno, quando Dio sarà tutto in tutti. La promessa del Regno chiede a noi di saper coltivare l’arte dell’attesa. “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
e. “Le parole dei saggi sono come pungoli… e come chiodi…” (Qo. 12,11)
Abbiamo bisogno della stabilità dei chiodi, della roccia; abbiamo bisogno di non sentirci soli e di poterci fidare, come ci ha insegnato nostra madre. Ma il coraggio di esistere ci chiede anche di abbandonare nidi, tane, pietre su cui posare il capo, caldi grembi. Abbiamo bisogno di pungoli che ci spingano a metterci in cammino. “In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla” (W. Benjamin).
Ma come? Levinas ci ha suggerito l’ermeneutica della sollecitazione. Occorre sollecitare, interrogare il testo affinché non si riduca a documento chiuso, morto, ma torni ad essere parola aperta, viva, che abbia la forza di far nascere nel lettore la sollecitudine per l’altro. A ciascuno è data la Parola; ma ognuno deve ritrascrivere il rotolo.
Le chiese non possono giocare il ruolo di custodi di una generica lettera morta, bensì quello di annunciatrici dell’evangelo, “cioè quel messaggio specifico particolare, che colpisce il cuore di una generazione, la sveglia e sveglia in lei la consapevolezza di Dio. Questa parola specifica non si può improvvisare e inventare: è piuttosto una “rivelazione” per la quale dobbiamo pregare e leggere la Bibbia con il cuore del nostro tempo e con la fede dei tempi antichi, con la fede di Abramo e con l’animo dell’europeo disorientato e perplesso che siamo un po’ tutti quanti” (P. Ricca). Siamo donne e uomini fatti ad immagine di Dio se, come lui, siamo capaci di dire parole creatrici.
Narra un midrash che “una volta il cattivo governatore romano Tinneio Rufo domandò a Rabbi Akivà: Quali sono le opere più belle, le opere di Dio o quelle degli esseri umani?
Rabbi Akivà rispose: Le opere degli esseri umani.
Naturalmente il governatore non si aspettava questa risposta e replicò: Sei capace di fare delle cose come il cielo e la terra?
E Akivà: Non parlarmi di cose che sono al di fuori della potenza umana, ma parliamo di qualcosa che è alla portata degli umani.
Rabbi Akivà mandò a prendere delle spighe nel campo e dei bei pani dal fornaio. Indicò le spighe e disse: Questa è l’opera di Dio.
Poi mostrò i pani e disse: E questa è l’opera degli esseri umani. Non è più bella dell’opera di Dio?.
Poi Akivà fece portare dal campo dei mazzi di lino e dei bei vestiti da Beisan. Di nuovo egli chiamò “opera di Dio” il prodotto della natura e “opera degli umani” il lavoro fatto a mano.
Poi ripetè la domanda: L’opera degli umani non è forse più bella dell’opera di Dio?”.