Fraternità di Lessolo


 

RENATO

 Cerco di dire come è nata questa comunità di Lessolo. È nata dopo gli anni ’60: un gruppo di giovani padri carmelitani della provincia lombarda erano alla ricerca di un’autenticità nella vita fraterna e nell’insieme della vita religiosa. Avevano la coscienza di vivere separati dalla gente,di vivere soprattutto lontani dai più poveri, incapaci loro stessi di esser fraterni tra di loro, di vivere fraternamente perché incapsulati dentro strutture che sono il grosso convento, che sono le tradizioni, le usanze. Ecco allora che chiedono ed ottengono in modo ufficiale di uscire dai conventi tradizionali e di andare a cercare di vivere la loro vita religiosa in una cascina sopra Lessolo, che è quella in cui ancora sono e siamo.
Sono capitati nella Diocesi di Ivrea non a caso, ma perché c’era Monsignor Bettazzi di cui avevano sentito parlare e hanno trovato a Lessolo, grazie al parroco di allora, questa cascina in mezzo ai boschi. Quindi nasce come una comunità ufficiale; il terreno e la casa sono di proprietà della provincia lombarda dell’ordine dei carmelitani scalzi.
Poi però nascono delle difficoltà. Difficoltà che, in modo forse un po’ diverso, ci sono ancora adesso. Vi leggo qualche riga di cosa scriveva Padre Giuliano, credo nel ’78-’80 quasi a giustificarsi, a spiegare cosa succedeva:  

“Abbiamo provato ad esercitare la fraternità tra noi. Poi è venuta su gente, giovani soprattutto per un po’ di preghiera, di consigli. Poi poveri, operai, emarginati, semplici, carcerati, perseguitati. Non più a chiedere preghiera e consigli ma pane, rifugio, un po’ di affetto e di amicizia. È con fatica che, vangelo alla mano, abbiamo accettato questo dono di fraternità, di condivisione, di ospitalità. Non abbiamo cercato né scelto. Alcuni si sono fermati tra noi e sono diventati a tempo pieno nostri fratelli. Volevano e vogliono fare la nostra vita. Da tutto questo ecco i nostri problemi più contestati: il lavoro, il mondo operaio,le ‘masse scristianizzate’, come il Magistero le chiama, accessibili all’amicizia e alla possibilità di una testimonianza solo attraverso una condivisione totale della situazione loro più specifica, l’ospitalità; i poveri che entrano ed escono dal nostro convento solo nella misura in cui lo sentono una casa di fratelli; le donne, che abbiamo cominciato ad accogliere solo perché non potevamo sceverare tra i poveri, gli amici, gli emarginati quelli di un sesso e non quelli di un altro. E sono diventate poi nostre sorelle almeno quanto gli altri nostri fratelli“.

Ecco, anche io sono arrivato a Lessolo da una ‘famiglia distrutta’, la comunità di Banchette – non proprio ‘distrutta’, ma in via di crisi, di disfacimento. E pur avendo fatto un cammino diverso da loro ho chiesto ospitalità per quindici giorni…e sono ancora lì adesso, dal ’74.

Adesso cosa siamo e cosa facciamo?
Siamo una comunità che vive non poveramente – stiamo bene, non siamo poveri – ma che vive con i beni in comune, avendo scelto di mantenersi con il proprio lavoro possibilmente manuale e che apre la casa nei limiti delle possibilità a chi chiede di venire. Con due soli limiti, che sono grossi però: la nostra capacità di accoglienza e di fratellanza, o forse più prosaicamente di ‘sopportazione’, e la voglia dell’ospite di fare una vita come la nostra.
La casa si riempie spesso e facilmente e quando la casa è troppo piena è difficile mantenere anche la serenità di rapporto. C’è poca privacy, c’è una sola cucina, mangiamo sempre tutti insieme, ognuno ha una sua stanzetta ma niente di più; ci sono poche comodità perché la cascina è fatta così; abbiamo i bagni fuori, i bagni a pian terreno.
Un po’ difficile da vivere, forse inconcepibile ormai per i giovani di oggi. Un posto che è stato abbandonato negli anni ’70 proprio per questi motivi, di scomodità e di isolamento. Perché la famiglia che abitava lì aveva due bambine piccole da mandare a scuola e da lì andare a scuola non era molto semplice. Però è anche un posto che ha notevoli vantaggi per l’ospitalità: c’è sempre qualcuno di noi in casa, ci sono sempre lavori da fare anche in casa e, per certi versi, la difficoltà a salire e a scendere ha i suoi vantaggi.
Vorrei solo dire brevemente due o tre caratteristiche.

È una comunità laica.
In che senso? È fatta di credenti e di non credenti. Ci sono persone con diverse fedi. Il nostro stare insieme non è per tutti, “non è nel nome di Gesù” o “nel nome del vangelo”. E questa cosa , che può sembrare – e per certi versi certamente lo è – un ‘impoverimento’, paradossalmente credo ci renda più vicini al vangelo perché “Voi siete tutti fratelli”. E non siete fratelli perché cattolici, perché cristiani, perché impostate la vostra vita sul Vangelo, ma semplicemente perché siete fratelli. E ai fratelli non si chiede di avere le stesse idee, le stesse posizioni.
Quello che ci tiene insieme, ormai da più di trent’anni, credo che sia davvero la passione per la vita che facciamo e per questa disponibilità ad accogliere chi viene e chi bussa. Non siamo e non siamo mai stati e non abbiamo mai voluto essere una comunità di accoglienza. Per tanti motivi: perché non potremmo neanche esserlo, non avremmo condizioni igieniche etc. richieste dall’ASL; perché abbiamo sempre voluto essere più liberi e accogliere quelli che riuscivamo ad accogliere, sia che rientrassero nei canoni dell’ASL sia che non entrassero in questi canoni.

È una comunità che vive ancora nella precarietà.
Noi viviamo come se dovessimo stare sempre lì e morire lì ma in realtà non sappiamo se domani sarà ancora possibile perché in una parte dell’Ordine continua ad esserci sempre questa voglia di chiudere Lessolo perché non ha alcun senso per molti membri dell’Ordine stesso
Abbiamo tanti limiti e tanti difetti: siamo troppo presi dal lavoro – ho dimenticato di dire che nell’86 quando due di noi sono stati espulsi dalla fabbrica abbiamo messo su una piccolissima cooperativa di lavoro agricolo, mentre prima alcuni lavoravano fuori, alcuni stavano in casa e lavoravano dentro. Questo ci ha senz’altro portato a essere più presi dal lavoro, dalle necessità di tenere in piedi questa struttura che però ha dato a parecchi ragazzi la possibilità di uscire dal carcere, di mantenersi col proprio lavoro e anche di mettere da parte un po’ di quattrini sudati.
Probabilmente non vi interessa, ma abbiamo anche poco tempo per la preghiera, per la riflessione, per gli incontri. Credo che sia davvero una cosa eccezionale che scendiamo dopo cena dalla montagna sin qua. Credo che ci siamo anche impoveriti culturalmente per il poco tempo per leggere e per studiare, per avere poco tempo e voglia di fare dibattiti, di assistere a conferenze.
E però abbiamo ricevuto molto in amicizia, in umanità, in capacità di perdono. Severino accennava a questo non so perché, ma per noi credo che sia stata davvero un’esperienza grossa la capacità che questi ragazzi hanno avuto tante volte: capacità di fraternità e di perdono delle nostre intemperanze, della poca pazienza.
Ecco, siamo una comunità un po’ ‘strana’, laica ma ispirata dal Vangelo; e cercando di vivere, per una parte di noi, di portare avanti il Vangelo. Poi vi leggerò due righe sul tipo di vita religiosa e di preghiera. Come vedete, non abbiamo nulla da insegnare. Avevamo questa grossa speranza: che la Chiesa, dopo il Concilio, trovasse davvero la strada del poveri e del rinnovamento. Credo che come la colomba dell’arca questa speranza è ancora lì che gira, non sa bene dove posarsi.
Nascono comunità religiose – e credo tante – in Diocesi e fuori, ma i poveri disturbano la preghiera e la contemplazione. Per loro, al massimo, ci sono istituzioni ‘apposta’: le carceri, le comunità di accoglienza, i ricoveri, le case di accoglienza etc. Ma siamo ancora lì.
Volevo cominciare, poi l’ho lasciato da parte, con un richiamo che ho preso dal libro di mons. Bettazzi “La Chiesa dei poveri nel Concilio e oggi”: “L’espressione ‘Chiesa dei poveri’ intendeva dunque puntualizzare come la Chiesa, che per sua natura e sua missione è sempre stata ‘per’ i poveri, a loro offrendo la generosità della sua carità, debba prima di tutto essere ‘dei’ poveri, debba cioè costituirsi in modo che i poveri si sentano ‘a casa loro’, non solo come oggetto della carità dei fedeli, ma soggetto essi stessi, protagonisti attivi nella vita della Chiesa” (pag.31).
Questa era la speranza. In questi anni non sempre la Chiesa ha navigato su questa rotta, in questa direzione, ma la nostra speranza è ancora viva, siamo ancora qua. Per concludere vorrei ancora leggervi una mezza paginetta, secondo me molto bella, sempre scritta da P. Giuliano in quegli anni là, per rispondere a uno dei rimproveri che facevano a Lessolo: “Voi non pregate più” secondo i canoni.

“La preghiera, sotto un nome o un altro, è un impegno caratteristico essenziale alla nostra tradizione. E lo rimane anche per noi. Ma nel mondo limitato in cui noi viviamo muore il culto e la religione e hanno sempre meno senso i segni ecclesiali e chissà quando lo ritroveranno. Dentro questi – o più – fuori di questi nelle angosce e nelle gioie, nelle conquiste e nelle delusioni, grandi o piccole, della vita di fraternità, nell’immedesimazione all’oppressione e alla liberazione dei poveri di ogni sorta, nell’inutilità dell’apostolato e nel desiderio impotente di annunciare il Signore, nasce qualcosa che non si sa bene se sia preghiera e partecipazione alle sorti visibili del Regno di Dio in questo angolino di terra in cui viviamo. È una presenza al Signore più o meno sentita, sofferta e desiderata, una presenza di fame e sete di giustizia, di pace, di riconciliazione. E non tanto per noi, già fin troppo privilegiati, venga il Tuo regno, non più in genere ma per questo e per quello, nella fabbrica, in quella famiglia, in fraternità. E qualche gioia di gratitudine e di riconoscenza, l’anima mia magnifica il Signore per un ricco superbo a mani vuote, per qualche affamato disperato una volta contento, a mani piene; per un bambino vivo o un uomo riconciliato, invece di un aborto o di un omicidio. Poi da capo: travolti dal succedersi delle cose e delle persone, per questo forse incapaci di perfetta fedeltà alle nostre tradizioni monastiche, ma scavati dentro dalla pesantezza non fuggita della vita della gente comune”.

Io vi dicevo: è una comunità laica, non vuol dire una comunità di non credenti. Vuol dire una comunità in cui il rapporto con Dio forse viene cercato più che nelle funzioni, nelle liturgie, nelle preghiere così come le intendiamo, all’interno stesso della vita, dei rapporti con gli altri.
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Nino e Renato con la famiglia Nelli

ENNIO

Io vorrei riprendere alcuni punti della vita della fraternità che Renato ha esposto in modo molto comprensibile. Qualche nota in più che vi può interessare, per dare un quadro più completo, se possibile. Vorrei ricordare il contesto in cui è nata e cresciuta la comunità. Non eravamo i soli, c’erano tante altre realtà, comunità e gruppi che in qualche modo svolgevano attività molto simili con i quali siamo stati in relazione e siamo cresciuti insieme. Ed erano espressione allora di un rinnovamento notevole.
Inizio da Banchette, la comunità di Banchette di cui ha già parlato Renato. Io la ricordo in particolare perché ci trovavamo a degli incontri, a delle discussioni molto vivaci su argomenti di teologia o su cambiamenti in atto nella società di allora.
Allora nasceva anche la comunità di Bose, vi ricordate, con un indirizzo monastico ben preciso. La Casa dell’Ospitalità di Ivrea, che era una comunità aperta, poche regole, come oggi non sarebbe più possibile: una grande capacità di accoglienza, rifugio per quelli che non sapevano dove andare. Con loro abbiamo anche lavorato molto, insieme.
E ancora, per chi ricorda, la comunità femminile delle “Ardine”, nell’omonima via di Ivrea, una comunità molto piccola, di lavoro e di accoglienza. La Mastropietro di Cuorgnè, tanti di voi la conosceranno, ancora in piena attività, strutturata ora in diverse comunità terapeutiche. Fin dai primi anni è stata un punto di approdo per tanti ragazzi e ragazze un po’ alla deriva. La comunità di Valperga, ’74-’78.
Ci fu un periodo in cui la fraternità di Lessolo diventò tropo numerosa e dovette sciamare, come fanno le api, e formare una comunità sulle alture di Valperga con le stesse caratteristiche di accoglienza di giovani un po’ sbandati o fuori famiglia. La comunità di Misobolo, a San Giorgio, più piccola e raccolta di quella di Lessolo, fondata da studenti di teologia, che non volevano restare a studiare in città a Torino e hanno trovato questa soluzione. E anche qui l’impatto con il mondo del lavoro, l’ospitalità, il carcere, poi l’aiuto ai ragazzi tossicodipendenti, convenzionati con l’ASL. Sono stati per loro lunghi anni sulla breccia.
Abbiamo lavorato e ancora collaboriamo con il Gruppo Abele, sostenuti dalla loro grande opera culturale di sensibilizzazione verso ogni tipo di emarginazione. Poi, più vicina a noi, cascina Praie, anni di fatica, di impegno e di ricerca per offrire posti di lavoro, per offrire sostegno ai più indifesi. La comunità dell’Argine, forse ancora in cerca di identità ma attualmente l’ultima spiaggia a Ivrea per chi è sulla strada.
Ecco, l’elenco non vuole essere completo, ci sono tante altre realtà, come il Peana per i senza fissa dimora, la Casa di Abramo e altre ancora (Santa Maria della Rotonda, i Centri di accoglienza di don Ernesto Valvassori, ecc.) Insieme fanno una rete di solidarietà, luoghi di riferimento, di resistenza per evitare sofferenze, sconfitte.
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Lessolo 2007

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Poi voglio ricordare un altro aspetto, che ha avuto un certo peso nella nostra vita di fraternità. Ed è il carcere. Il carcere è l’esperienza che più profondamente ha segnato la nostra vita, soprattutto dal 1980, anno di apertura del carcere di Ivrea. Giuliano è stato il primo cappellano; l’ha fatto per dieci anni. Quello del cappellano è un compito faticoso, ci vuole tanta pazienza, ci va tanto tempo per ascoltare, ci sono tanti cancelli di ferro da attraversare, tante richieste, anche impossibili, di detenuti a cui dare qualche risposta.
Poi il dramma delle famiglie dei detenuti, talvolta troppo lontane, le mogli, i figli. Un impegno, dicono quelli che hanno provato “che ti svuota dentro”. A Padre Giuliano è subentrato Padre Attilio dal Misobolo, anche lui cappellano per dieci anni; poi Renato, pochi mesi fino a quando è arrivato Don Leandro, che è l’attuale cappellano.
Attraverso questa presenza di qualcuno di noi nel carcere noi siamo stati un po’ contagiati da questa realtà che ci ha resi ancora più vicini a questa parte di umanità così emarginata e segregata. Abbiamo accolto tanti di loro in casa, in cooperativa, dando loro modo di scontare parte della loro pena agli arresti domiciliari, in semi-libertà o in permesso vivendo e lavorando insieme con noi ogni giorno. E aspettando insieme il giorno della liberazione, della loro liberazione.
Da tempo abbiamo scoperto che in carcere ci sono solo gli ‘stracci’ della nostra società, quelli che non contano, non i ricchi, non i potenti, come diceva già Gian Carlo Caselli. Abbiamo visto che i detenuti, comunitari o extra-comunitari, sono persone normali, punite per i loro reati con la perdita o lo spreco di anni della loro giovane vita.
Abbiamo visto che il carcere, con tutto il suo apparato burocratico, potrebbe essere in gran parte trasformato in piccole unità di vita più umana e costruttiva. Ecco, la fraternità si è costruita e sostenuta in questi anni grazie anche alla loro presenza, alla loro umanità, alla loro forza lavorativa, al desiderio di rifarsi una vita. E ancora oggi parte dei giovani che noi ospitiamo viene dal carcere di Ivrea e da altre carceri.
Un altro punto, breve: l’India. In questi anni in fraternità si è aperta una finestra sull’India, su Calcutta e altri luoghi più a nord di Calcutta. Una di noi, Mariuccia, con il sostegno della Fraternità e di una piccola associazione, trova tempo e mezzi per essere presente di persona tra i poveri più poveri, assiste malati e moribondi insieme a tanti volontari che vengono da ogni parte del mondo nelle case di madre Teresa di Calcutta e ancora promuove piccoli progetti a favore dei ragazzi di strada o disabili accolti in case o centri gestiti da suore.
Il mondo dei poveri è sempre più grande e quello che si fa è una goccia nell’oceano, si direbbe, ma preziosa per chi riceve e chi dà.
Ecco, mi sembra anche di dover ricordare un altro aspetto: una presenza molto gradita nella vita della fraternità, sono i volontari: amici, soprattutto donne, che da anni prestano il loro aiuto pratico e intelligente in comunità, prova che la fraternità e i poveri sono di tutti.
Concludendo: la fraternità è partita tanti anni fa come esperimento di vita religiosa monastica, ha chiesto e ottenuto permessi proprio per questa finalità. Poi, attraverso l’ospitalità, si è avventurata per la strada nuova e antica della condivisione di vita con i poveri e ha cercato con loro rapporti di reciprocità per vivere insieme come fratelli. Che sia questa la strada più indicata per il popolo di Dio, per le comunità cristiane, per risvegliarsi e rimettersi in cammino?

Renato Pipino e Nino


 

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