Sguardi dalla stiva
1.
Milano / Processo Breda-Ansaldo
IL GIUDICE RICONOSCE LA COLPA DI 9 DEI 12 DIRIGENTI IMPUTATI.
LA PRESCRIZIONE LI SALVA
Il giudice Ambrogio Moccia, del Tribunale di Milano, ha sentenziato il “Non doversi procedere per intervenuta prescrizione visto il riconoscimento delle attenuanti generiche” nei confronti di 9 dirigenti della Breda/Ansaldo, e l’assoluzione di altri 3, tutti imputati dell’omicidio colposo di Giancarlo Mangione, operaio, stroncato dal tipico tumore d’amianto, il mesotelioma della pleure. Così, pur essendo stati riconosciuti colpevoli di questa morte, nessuno di loro pagherà perché è decorso il tempo massimo. Ora la famiglia, se vorrà avere un risarcimento, dovrà imboccare il calvario di una nuova, lunga, causa civile. Ancora una volta, nonostante l’accertata responsabilità penale dei dirigenti di una delle più grandi aziende a livello nazionale, ingiustizia è fatta.
In Italia chi uccide i lavoratori in nome dei bilanci aziendali è, e resta, impunito. L’unico diritto riconosciuto è quello di fare profitti, a questo sono subordinati tutti gli altri “diritti umani”. Le leggi, le norme, una giustizia di classe che protegge in ogni modo i padroni, un intero sistema economico, politico e sociale fondato sul capitalismo fa sì che la salute e vita umana, davanti ai profitti, passino in secondo piano.
La sentenza è stata duramente contestata in aula dai familiari e dagli ex compagni di lavoro di Giancarlo.
Le motivazioni di una sentenza storica
Dirigenti colpevoli: alla Breda-Ansaldo si moriva d’amianto ed i dirigenti che tutto sapevano nulla hanno fatto per tutelare i lavoratori. Questo sta scritto nella sentenza. Nelle motivazioni della sentenza sul processo per la morte da amianto di Giancarlo Mangione, il giudice dott. Ambrogio Moccia del tribunale di Milano riconosce in pieno le tesi che il nostro Comitato va affermando da anni:
“la nocività dell’amianto era nota da tempo immemorabile; che la vittima è stata esposta a dosi consistenti di amianto nei periodi di permanenza in carica di ciascuno degli imputati qui ritenuti responsabili”; “ l’esposizione successiva all’innesco ha avuto incidenza negativa sulla durata della latenza e quindi sulla sopravvivenza del Mangione”; “ l’amianto, e solo l’amianto respirato sul luogo di lavoro può qualificarsi causa del mesotelioma letale” del lavoratore; “se il dovere di sicurezza (e di igiene) è da sempre posto specificamente a carico del datore di lavoro, dirigenti e preposti, allora è indubbio che, nella misura in cui avevano il compito di individuare e gestire le strategie produttive…, avevano l’obbligo giuridico di attivarsi, obbligo del tutto disatteso”.
Le motivazioni della concessione delle attenuanti generiche ai 9 dirigenti ritenuti colpevoli, facendo quindi scattare la prescrizione che li ha salvati, sono dovute “…all’età degli imputati (tutti ultra settantenni, due sono 90enni), infine l’incensuratezza”.
Inoltre il giudice ritiene che agli imputati “non possono essere addebitate oltre misura responsabilità che sono state sì individuali, ma che hanno affondato le loro radici nel “sistema” industriale dell’epoca, sistema che non tocca ad un organo giurisdizionale giudicare”.
Questa sentenza è importante sia per le motivazioni, sia perché è la prima volta che in Italia vengono sostanzialmente condannati dei dirigenti per una vicenda in cui l’amianto non figura come oggetto di produzione industriale, ma come strumento usato nell’attività lavorativa e di protezione dei lavoratori.
Anni di lotte nelle fabbriche, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nei tribunali, con la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, hanno rotto il muro dell’indifferenza, dell’omertà e delle complicità che tutte le istituzioni (padroni, magistratura, medicina ufficiale, partiti e sindacati) avevano creato contro la nostra lotta – contribuendo a sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli derivati dall’amianto. L’unico, profondo, rammarico per noi e per tutti coloro che con noi hanno lottato è che questa sentenza arriva dopo che sono morti 73 nostri compagni di lavoro della Breda e migliaia in tutta Italia.
Non solo, se la stessa magistratura si dichiara impotente a perseguire un sistema che, di tutti i diritti umani, riconosce solo il diritto al profitto, fatto sulla pelle dei lavoratori, allora ai lavoratori e a chi si batte per la salute non resta che combatterlo sui luoghi di lavoro e nelle piazze.
2.
Marghera / Processo Petrolchimico
Il Petrolchimico di Marghera era davvero un petrolkiller.
Le Corporations della chimica hanno davvero perseguito senza scrupoli la “patologica ricerca del profitto” sulla pelle degli operai e dell’ambiente.
Lo ha stabilito la Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza emessa il 15 gennaio 2005 nell’aula bunker di Mestre per le morti da cvm e per i danni ambientali provocati lungo decenni a Marghera.
Una sentenza che è di “parziale riforma” di quella in primo grado, il 2 novembre 2001, che aveva mandato assolti tutti gli imputati, in pratica i vertici dell’industria chimica italiana della seconda metà del ‘900.
Per quanto parziale, la riforma odierna di quella sentenza, appare in realtà un capovolgimento del suo senso ultimo, che consisteva nella rinuncia pedantemente e cocciutamente motivata a cercare la possibilità di rendere giustizia agli operai ammalati e morti, alle loro vedove e figli, a tutti coloro che si sono visti avvelenare e rendere ingrato l’ambiente di vita.
Il reato è impossibile da accertare, si era detto in primo grado, poiché non esisteva in quanto tale o non era stato commesso. No, replica la sentenza di appello, il reato c’è stato, qualcuno l’ha commesso e sappiamo anche chi.
Purtroppo, aggiunge, in molti casi questo giudizio arriva tardi, è tempo ormai di prescrizione. E così condanna ed assolve in un solo atto gli imputati; ma la sentenza odierna condanna anche la lentezza, la miopia e l’ignavia della Giustizia.
Come si ricorderà, il processo ha avuto come principale protagonista il pm Felice Casson, insieme all’operaio del petrolchimico Gabriele Bortolozzo che l’ha avviato con la propria denuncia, prima di morire alcuni anni fa.
È una sentenza che segna la storia. La voce emozionata del Presidente del Collegio giudicante della Corte d’Appello mentre leggeva rivelava la consapevolezza dell’atto forte e d’ora in poi imprescrivibile che questa sentenza costituisce, aprendo la via ad ulteriori significative evoluzioni del diritto e della prassi processuale.