Scritti di Sirio Politi / 1960-1965 (6)
…Il giorno dopo ho cominciato a lavorare con gli scaricatori.
A quel tempo il “console” della Compagnia Scaricatori era il vecchio Faliero – ora in pensione ma sempre a trafficare per il porto, anche perché il nuovo console è suo figlio e questi ragazzi vanno sempre aiutati, ma poi perché se non vede barche e filate d’autotreni e il bailamme del porto e non grida anche lui più forte del gridare di tutti, morirebbe.
“Ora vada su quell’autotreno, dopo passi a quella squadra e dopo si vedrà”. Era già montato in lambretta e urlava da un’altra parte, perché il mattino il lavoro del porto ad avviarsi è come una vecchia macchina arrugginita.
Gli ormig alzano il collo lungo e sembrano animali preistorici che si tirano su pigramente dalla nebbia della palude e qui in Darsena spesso, d’estate, un velo di nebbia ovatta il pelo dell’acqua e le barche e gli alberi delle navi e tutta l’attrezzatura del porto pare affiorare da una irrealtà di tempi lontani.
Gli autotreni si affiancano alla banchina dove le barche si lavano a secchi d’acqua su per il ponte e le murate, per svegliarsi e agghindarsi, perché i marinai le vogliono belle come una sposa, anche se sono vecchie motonavi di ferro lucidate a catrame o motovelieri che tirano su una velaccia che sbatte nel vento del mattino come se non volessero darla vinta al motore che gli hanno messo nel ventre, a poppa, per via del progresso.
E piano piano tutti cominciano a muoversi più in fretta, qualcuno si mette a correre, chi sale di qui, chi si arrampica di là e il tramestio cresce, il rumore dei motori si rafforza con il gracidare delle gru, il lamentarsi delle mancine, il cigolare delle funi indurite dalla notte e naturalmente ormai parlare è impossibile, gridare bisogna in Darsena e urlare (e bestemmiare!…) per farsi ascoltare in quel fracasso ormai acceso e per una fretta come di febbre che prende tutti e che si placa soltanto a mezzogiorno nella calura spietata dell’estate e la sera quando il sole allunga la sua scia da luce d’oro e di fiamma sul mare, nell’avamporto, lungo la bocchetta e nell’acqua immobile della Darsena che allora diventa tutta dorata e di velluto rosso e di una pace infinita che sale fin sulle barche e sulla punta degli alberi dove si accendono le piccole luci di guardia quasi cercando di confondersi con le stelle, nella notte.
E’ un onore – e bisogna saperlo meritare – lavorare con il “sindaco”, lo stivatore del marmo. Magro e rosso in faccio – bravissimo tiratore di bocce, come mi raccontava nell’attesa che laggiù nella stiva arrivasse la risma di lastre di marmo grandi come tovaglie, guidata dall’orlo della murata da una mano che agita un dito, così e così, per dare l’ordine di discesa o di bloccaggio, al Pardini il gruista piccoletto di statura e sempre con il mezzo toscano in bocca, o all’altro Pardini, sperticone da palo telegrafico, con un naso lassù in cima che, dicono tutti, sente all’odore tutto quello che c’è e anche quello che non c’è.
Laggiù nella stiva – di sotto vi sono soltanto le sentine per raccogliere l’acqua e lo sporco e poi il fasciame della barca e poi il mare – sprofondati laggiù, con il quadrato della luce che è il rettangolo del boccaporto e la poca aria che scende, il caldo era da morire. La polvere dei laterizi sulla schiena sudata, le braccia e le gambe rosse di mattone, la faccia sporca a furia di spazzarvi il sudore con le mani polverose. E il passamano che scende e scende senza fine mattoni e mattoni, embrici e tabelloni e cassette di mattonelle che spiombano la vita, e quei dannati sacchetti di polvere di marmo, pesanti da far gridare pietà. Ma il “dottore” era bravissimo a stivare in piani perfetti, a paiolo, da paratìa di poppa fino a prora. Piccolo di statura e tutto pepe, aveva un occhio da fare invidia, nonostante quel paio di occhiali a culo di bicchiere. E si sentiva molto considerato che io lavorassi con lui. “Dammi qui. No, allunga fino qua. Così no!” E gridava per darsi importanza. E non riuscivo a capire come facesse a non essere mai stanco.
Di laggiù sentivo il tramestio della Darsena e mi pareva che mi arrivasse da un mondo lontanissimo, quasi impossibile. Come se fossi nel cuore del mondo, e tutto mi rimaneva esterno, al di fuori. Provo questo soltanto nella Messa perché forse mi ritrovo nel cuore del Mistero di Gesù Cristo e Lui, so bene, che è il cuore del mondo. Mi abbandonavo allora a un silenzio di dentro e ascoltavo soltanto il battere di quel cuore per potere conoscere cosa c’è dentro a questa umanità così misteriosa e terribile, nata dall’Amore di Dio e così spaventosamente agitata da questo richiamo infinito.
Mi faceva tanta tenerezza quando quelli della catena e quello che agitava il dito, mi chiamavano a salire sul ponte – e bisognava arrampicarsi in qualche modo per arrivare fin lassù. E quando mi affacciavo alla paratia, sbaluginando gli occhi per la luce di pieno sole che mi accecava, mi ammiccavano due o tre ragazze che passavano allora, allora. “Che grazia di Dio”, ridacchiavano, “che ne dici… tu non ci pensi mai… ma com’è questa storia…”. Non avevo nemmeno un’ombra di timore a guardare quel sole fatto corpo stupendo e capelli dorati, e giovinezza tutta felicità e amore. E me ne scendeva nell’anima e nel sangue tutta una dolcezza. Ma non riuscivo a sentire quelle ragazze realtà umana diversa da quegli uomini duri, mezzo disfatti, mangiati dal sole e dalla polvere, che si logorano di fatica a catena, dall’autotreno fin laggiù, da basso, nella penombra afosa, soffocante della nave.
Ho scelto da anni di vivere nel cuore dell’umanità, di tutta l’umanità. E tutta l’esistenza umana sempre più la sento come la contenenza di un mistero, le apparenze che nascondono tutta una realtà che non mi appartiene e non mi può suscitare problemi di rapporti particolari – anche se bellissimi, da portare via gli occhi e il cuore – perché il mio vivere è nel cuore dell’umanità, nel segreto dei motivi essenziali, nel mistero della ragione d’essere. E qui tutti sono uguali, uomini e donne e qualsiasi altro valore, e ogni altra possibile realtà.
Allora distribuivo felice tre o quattro “farabutti, mascalzoni, vecchiacci maligni” a seconda dei casi o un “ragazzaccio, lo dico a tua moglie” se l’organizzatore del fattaccio era quella pelle di Rondinella, il più giovane e scanzonato della Compagnia, riconosciuto da tutti come particolarmente esperto a svignarsela quando capitano lavori troppo pesanti.
E poi mi ricalavo da basso, dove il “dottore” o il Santini, uomo tutto saggezza che non per nulla lo chiamano il “tecnico”, mi aspettavano a stivare con ordine per alloggiare più tonnellaggio possibile. Mi ricalavo laggiù: rotto di fatica e colmato di gioia serena e dolce, nella stiva di una nave che mi dava così tanto di sentirmi e di essere nel cuore del mondo.
Di loro, degli scaricatori, porto tutto nell’anima e se anche le quaranta o cinquanta tonnellate di un carico quotidiano a forza di passamano non mi pesano più sulle braccia e non mi spiombano la schiena, però tutto il peso di un mistero di fatica umana uguale a tutto il peso del mondo, lo porto ormai nel cuore, che spesso è così stanco da non farcela più.
E di loro, di questo gruppo di uomini duri e scontrosi, che a guardarli così, con quella grinta che hanno quando sgobbano senza riposi altro che per rizzarsi su a bere a garganella un goccio, neri di sole e lucidi di sudore, o bevono al bar, lì davanti, un tubo di vino o di birra, viene da farsi un segno di croce e girare al largo, di questi uomini nella mia chiesetta vi è un blocco squadrato di travertino di oltre venti quintali.
Me l’hanno messo loro al suo posto, sopra un giro di catena dagli anelli enormi, capaci di tirar sugli scali le navi in riparazione.
Aiutandosi con l’ormig, pali di ferro, cunei e rulli di legno, e tirando fuori tutta la maestria di stivatori perfetti e mettendovi anche, lo vedevo bene, tanto Amore, il blocco enorme eccolo lì.
E’ l’altare della mia chiesetta.
E ogni mattino Dio vi celebra il Suo Amore per tutta l’umanità.
(da “Uno di loro”, Gribaudi ed., 1967)