Memoria biblica


 

Il grido di Israele, oppresso come schiavo, non solo non è indirizzato a Dio, ma esso non viene neppure udito dall’oppressore. Dio non si rivolge più alla discendenza di Abramo ormai da generazioni: è sperimentato assente. E gli egiziani non possono, certo, essere considerati interlocutori di quel grido disperato: la condizione di schiavitù l’hanno costruita loro, intenzionalmente.
Non è, dunque, “preghiera”: né rivolta a Dio, né in forma di supplica umana, per intenerire il duro aguzzino. Perché “preghiera” significa, innanzitutto, interlocuzione. Proprio quello che qui manca. Il grido esprime il disagio; ma è strozzato, perché non riesce a comunicare con qualcuno, si ferma in gola, senza giungere a risuonare agli orecchi altrui. E tuttavia il grido esplode. Nonostante la conclamata inutilità dell’impresa, Israele grida (Es 2,23).
Privo di una fede liberatrice, senza alcuna coscienza di classe, condannato a soccombere, visti i rapporti di forza, lo schiavo ebreo riparte da un grido strozzato. Inascoltato dagli altri ma segno che almeno l’oppresso continua ad ascoltare la vita, non si rassegna ad una “realtà insufficiente” (Capitini); dà voce ad un’opposizione morale, per quanto politicamente e religiosamente improbabile. Oggi si direbbe: riparte da sé. Dalla propria condizione, non rimossa. Non prevale il “tanto, non si può fare niente”. Gemiti e grida di lamento per una condizione se non altro giudicata ingiusta, insopportabile. Anche in regime di disperazione è dunque possibile almeno gridare…
E quel grido strozzato, non rivolto a qualcuno, giunge fino a Dio. Sale, come l’odore dei sacrifici. È Dio che decide di instaurare una relazione con quel grido, permettendogli di diventare preghiera, di trovare un interlocutore. In altri termini: è Dio il soggetto dell’ascolto e della preghiera!
Ogni credente, lettore delle Scritture, sa che l’iniziativa spetta a Dio. Un’idea espressa in termini di grazia, di Parola che giunge dall’alto, di creazione divina, ecc.
Ma, a proposito della preghiera, è idea condivisa pensare che l’operazione debba partire dall’essere umano. Se non c’è l’intenzionalità (la fede) di rivolgersi a Dio, non si dà preghiera. Di qui le liturgie, i culti, le formule… Anche in quelle chiese che più sono attente alla preghiera spontanea dei fedeli, rimane indiscusso il presupposto che il pregare nasca dalla consapevolezza di rivolgersi a Dio.
Le grida strozzate, dunque, sono destinate a non entrare nelle chiese; non si odono nelle riunioni di preghiera. Solo se si articolano intenzionalmente trovano cittadinanza religiosa, in qualità di supplica. Altrimenti vige il silenzio di Dio, la mancata presa in carico, la rimozione di quanto non trova espressione religiosa.
Diversa la situazione descritta nel racconto biblico, dove quel grido strozzato sta all’inizio dell’esodo, della liberazione (politica, economica, culturale e religiosa) dal Faraone. Un grido senza destinatario, un gesto disperato che, tuttavia, viene raccolto non solo da Dio ma anche da Mosè. Quest’ultimo, prima ancora di essere mandato da Dio a liberare Israele (3,7), vede di persona la condizione di oppressione in cui versano i suoi fratelli. A differenza di Dio, che può udire le parole strozzate, Mosè può solo vederle stampate sui volti ingiustamente percossi (2,11). Vede il grido perché si reca sul posto, uscendo dalle mura protettive della corte regale. Decidendo di instaurare una relazione con queste persone la cui sorte è del tutto differente ma che Mosè considera suoi fratelli.
Quel grido è simile ad un SOS, un messaggio nella bottiglia buttato a mare, mentre all’orizzonte non si scorge alcun destinatario. Il Dio di Mosè ed il Mosè di Dio intercettano il grido, lo fanno diventare il testo del lezionario della fede biblica, gli permettono di assumere la forma della preghiera e la radice dell’agire politico.
Non è la forza del grido a risultare vincente. Tutt’altro! Appare evidente la debolezza di quel gesto, l’inutilità di una voce che sembra uscire involontaria dalla bocca degli schiavi. Non c’è nessuna condizione favorevole che permetta a quel grido di avere delle conseguenze. L’Egitto è una stanza insonorizzata.
È solo la scelta di raccogliere quel grido che permette alla religione di essere “liberatrice” e alla società civile di venire “liberata”. Con tutta la complessità che questi termini assumono nel racconto esodico… Ma, in estrema sintesi, all’origine c’è una scelta di interlocuzione fatta non dal disperato, ma da Colui (colui) che sceglie di raccoglierne il grido. Il disperato deve poter almeno gridare; chi sogna un mondo diverso deve decidere di ascoltare quel grido, di dargli dignità.
Le nostre chiese risuonano di voci: sono contenitori saturi di parole. Tutte ben codificate, espresse da credenti dalla cittadinanza riconosciuta a pieno titolo. Per carità, nessuna guerra tra poveri: che ognuno possa pregare, dando voce ai bisogni e ai desideri che sorgono dal proprio vissuto. Che ogni vita possa trovare un interlocutore “Altro” rispetto al mercato!
Ma l’esperienza fondativa dell’Israele biblico ci parla soprattutto della sapienza di andare ad intercettare grida strozzate, “strappate dalla schiavitù”, incapaci di pensarsi come preghiera.
Cosa significherà per noi, oggi, fare i conti con un Dio che “sente”, “va in cerca” dei disperati, ne prova “compassione”? Quale esperienza di fede potrà essere all’altezza di un Dio simile?
La “chiesa di Mosè” non è un contenitore devozionale per le preghiere delle anime belle. Sensibile alle grida inarticolate, strozzate, senza speranza, la fede biblica domanda un orecchio penetrante, capace di udire l’altro grido, quello perlopiù sommerso dalle grida vincenti dei dominatori; ed un cuore compassionevole, delle viscere di misericordia che spingono alla cura, alla presa in carico dei dannati, dei sommersi della terra. Nella profonda convinzione che il Regno di Dio è loro.

Angelo Reginato


 

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