Frammenti di vita


 

Non è uno scherzo, arriverò alla cifra “40 anni di lavoro”. Tutto va veloce, ma gli ultimi anni sono sempre pesanti per tutti. Visto che da qualche anno mi devo arrabattare per racimolare qualcosa per la fine del mese, avere un minimo garantito mi sembra importante.
Da una decina di anni sto facendo i conti con le mie forze che non mi permettono più di sostenere lavori pesanti per una brutta caduta da una scala nel ‘96. Come sapete il mestiere del “falegname” richiede sforzi non indifferenti, ma per fortuna esso offre una vasta gamma di lavori che vanno dal pesante al leggero. Ho scelto quelli leggeri, alternati con l’intarsio e il piccolo restauro. Sono vari e sinceramente mi danno delle soddisfazioni che prima non avevo, perché essi richiedono pazienza, fantasia ed anche molta arte. Qualche volta sono tentato di fare qualche armadio un po’ più grosso, ma a rischio e pericolo. “Errare humanum est, perseverare diabolicum”. È più forte di me. Sono ormai trentadue anni che faccio questo mestiere ed esso è diventato come una droga. In questi giorni, per esempio stavo facendo una libreria, l’ho voluta togliere dal tavolo dopo il montaggio: e la schiena si è fatta sentire presentando immediatamente il conto che mi costa sempre caro: per qualche giorno devo stare a riposo. E fastidioso lavorare con quella musica dietro la schiena. Sono quindi in una situazione delicata, che richiede massima attenzione e soprattutto pazienza. Perciò quando devo fare questi lavori, approfitto della presenza di qualcuno qui all’eremo per farmi dare una mano: per il montaggio, per il trasporto, per caricare la macchina per la consegna. Quando vado ad acquistare il legno, gli operai del deposito mi mettono il tutto sulla macchina e a casa aspetto qualcuno che me lo tolga dal portabagagli. Nella progettazione devo tener presente questa situazione, i mobili vanno pensati smontabili per essere trasportati facilmente. E qui la fantasia si sprigiona e spessissimo trovo delle soluzioni originali.
Comunque, nonostante questi disagi il “falegname” è proprio un bel mestiere che cerco di insegnare, almeno per quanto riguarda alcuni lavoretti, a coloro che salgono quassù. Vedo la gioia di coloro che per la prima volta si mettono a scartavetrare, a mettere il colore, a incollare piccole cose, a lucidare. Ragazzi che devono metter su casa e che sono ormai assidui frequentatori dell’eremo li invito a prendersi qualche mezza giornata per costruire insieme alcuni loro mobili. Partecipare alla creazione di ciò che li accompagnerà per anni dà loro una forte motivazione. Per questo mi piace trasmettere questa arte. Non così è capitato a me quando ho iniziato. Facevo il ragazzo di bottega a 27 anni nella borgata Gregna di Roma, con mastro Geppetto, così lo chiamavo il vecchio Petrocchi, il mio primo maestro: pulire, scartavetrare, raddrizzare chiodi e se non avessi imparato con gli occhi, probabilmente mi sarei stancato e avrei cambiato mestiere.
Allora si usavano vernici sintetiche molto pericolose per la salute. Il lucidare era una delle prime cose che ti insegnavano e il motivo l’ho capito dopo: ti volevano appioppare un lavoro ingrato. Ora invece uso tutte vernici naturali all’acqua, che non puzzano e non fanno male alla salute. L’odore della vernice sintetica rimane per molto tempo, così pure la sua nocività: col caldo si sprigionano tutte le componenti negative, anche se questo odore faceva impazzire tutte le donne quando consegnavo il lavoro come fosse un profumo di prima qualità. Piaceva e piace, non ho mai capito perché. Certamente il procedimento con prodotti naturali richiede più tempo di essiccazione e più mani, mentre le vernici sintetiche che davo a spruzzo dopo qualche minuto erano asciutte, per la componente nitro. Ma la differenza è enorme: le sintetiche uccidono il mobile, esso appare perfetto, ma senz’anima. Utilizzare e mani per la lucidatura con un tampone, pennello o spugna è come accarezzare il legno ed alla fine esso appare più caldo, perché trattato con cura e amore. E un po’ come salutare delle persone: un conto è il saluto da lontano un conto è l’abbraccio e la stretta calorosa con le mani.
Vorrei ritornare al concetto del “trasmettere”. Oggi questo mestiere sta scomparendo, perché le grosse fabbriche costruiscono mobili in serie con il pericolo, spesse volte è realtà, di trasferimento dell’impresa in altri paesi, e se si ha in casa qualche cassetto o sportello, gamba di tavoli o sedie rotti, ti dicono che è più facile sostituirli. Ma spesso i pezzi non esistono più. Bisogna allora raccomandarsi al falegname sotto casa. Ma anche quello è divenuto merce rara e difficilmente si mette ad aggiustare un cassetto: ci vuole tempo e come sappiamo esso è denaro, purtroppo: siamo tutti vecchi e non si vedono giovani che scelgano questa professione anche se è un mestiere che piace, perché creativo, ma ci vogliono anni di pratica prima di potersi destreggiare. Il “tutto e subito” anche qui ha le sue responsabilità. Inoltre i pochi artigiani che ancora reggono difficilmente assumono qualche giovane apprendista: costa troppo. Allora preferiscono tirare avanti giorno per giorno in attesa della pensione, con l’aiuto di altri anziani falegnami (ne ho visti anche di 75 anni e oltre)che si devono arrabattare per aggiungere qualcosa in più alla loro pensione di artigiani.
Lo fanno anche per piacere, l’artigiano del legno non è un mestiere come un altro, difficilmente ti stacchi, è una passione che ti vorresti portare alla tomba, (qualcuno si fa anche la cassa da morto) o meglio finché le forze te lo permettono. Per me aggiustare piccole cose è un piacere e se dovessi calcolare il tempo impiegato farei fatica a lavorare, o meglio non avrei richieste di lavoro e allora mi accontento. Uno specialista mi chiede per una visita 150 euro, che dura al massimo mezz’ ora ed io per guadagnare gli stessi soldi devo faticare due o tre giorni. Preferisco “essere fesso” che approfittare.
Ho scelto il piccolo che mi dà un sacco di soddisfazioni. Il restauro poi è come la scoperta di un tesoro, che emerge giorno per giorno dagli strati che lungo gli anni si sono depositati. Ogni generazione ha voluto lasciare il segno, spesse volte negativo e di cattivo gusto soprattutto negli anni 50 e 60 che dipingevano di bianco mobili antichi, per essere alla “moda”.
Da oltre 20 anni mi rifiuto di utilizzare materiale scadente: truciolare rivestito di formica e impiallacciature varie, così come il riempimento in cartone per il tamburato. Oggi la tecnologia ha costruito macchine straordinarie che sanno camuffare bene e ti presentano un mobile perfetto, senza una sbavatura, ma basta un semplice smontaggio per un trasloco e leviti non tengono più, oppure un graffio impossibile da eliminare su una lucidatura perfetta, a meno che si riscartavetri il tutto. Come materiale riempitivo per il tamburato preferisco pezzetti di legno che giorno per giorno ho messo da parte, senza buttarli e bruciarli. Si fa prima riempiendo con del cartone ma il tutto rimane più fragile e si può sfondare facilmente. Provare per credere con un pugno nelle porte. Nulla viene sprecato, anche perché il problema della deforestazione è molto serio, con tutte le implicanze connesse. E sto molto attento al tipo di legno da scegliere, preferisco quelli nostrani, europei e nordamericani per il semplice motivo che ci sono leggi che vincolano chi taglia a ripiantare alberi: un albero viene tagliato, un altro viene rimpiazzato al suo posto. Per i cosiddetti legni pregiati le multinazionali hanno disboscato regioni e stati interi soggetti ora alla desertificazione e all’abbandono da parte delle popolazioni native e quindi costretti alla fuga verso le periferie delle grosse città. Vedere un tronco di mogano è impressionante per la sua circonferenza. Quanti anni per divenire tale? E chi si prende la briga di ripiantare in quelle regioni? E dopo quanto tempo si potranno avere alberi simili? Vediamo anche oggi in certe regioni d’Italia delle montagne brulle dove non cresce più nulla, soprattutto in Abruzzo e Sud. Nei secoli scorsi i re di Napoli per costruire navi da guerra o ferrovie disboscavano indiscriminatamente. La stessa cosa successe in Spagna: i re per mantenere cavalli per l’esercito avevano bisogno di pascoli. Disboscavano tutto e impoverivano così il terreno rendendolo arido. Le piante se vogliono crescere hanno bisogno di essere innaffiate continuamente. E chi lo fa? Sono domande importanti che implicano anche “obiezioni di coscienza”.
E allora è meglio per noi utilizzare il rovere, il castagno, l’olivo, frassino e il pino, l’olmo, l’acero e il ciliegio, il pioppo e il noce (attenzione esso impiega molti anni a crescere e costa molto) che sono bellissimi ed hanno delle venature meravigliose, utilizzando il meno possibile legni esotici. Vale anche la pena avere un mobile solido che può durare a lungo. Le discariche sono piene di mobili direi “deficienti”. Per fortuna nascono cooperative di recupero di quelli riutilizzabili da altre persone che non possono permettersi il lusso di arredarsi casa ex novo. Oggi molti vanno alla ricerca di mobili dei nonni che negli anni ‘60 si vendevano facilmente al solito “dritto”: si dava un tavolo vecchio, per avere in contraccambio quattro sedie ed un tavolo di formica nuovi. Quanti comodini ho restaurato con grande piacere, buttati sul solaio o nelle cantine! Ne sono usciti uno splendore e stanno benissimo insieme al moderno. Che cosa trasmetteremo a chi verrà dopo di noi? Troveranno i nipoti e pronipoti i mobili del nonno e della nonna da ricollocare insieme ai loro, come l’unione delle generazioni ? Su qualche vecchio mobile trovo delle scritte, nei cassetti o dietro gli sportelli: faccio in modo di lasciarle e metterle bene in vista perché sono storia.
Come ben vedete in questi ultimi anni cerco di “sopravvivere” con qualche piccolo lavoretto, in un’economia di sussistenza, come facevano i nostri vecchi, con quel tanto che mi basta per arrivare alla fine del mese e poté pagare i contributi per la pensione. Il resto non mi interessa, esigenze e grilli per la testa se ne stanno andando. Molta gente nel mondo è nella mia stessa situazione, che ho dovuto accettare per i limiti di cui sopra. Si parla spesso di essenzialità, ora posso viverla e sinceramente mi piace. Mi sento in un certo senso ancora fortunato perché quando non sto bene posso non lavorare per qualche giorno, mentre altri sono costretti anche con sofferenza, avendo moglie e figli e il mutuo da pagare, col rischio anche di perdere il posto. Quanti giovani fanno tre o quattro lavori per poter racimolare qualcosa? Sono anche contento di resistere perché si potrebbe vivere in altri modi, o attingere da altre fonti che chi sta “dentro il tempio” ogni tanto cerca di offrirti. Ma a questo proposito il no l’ho già detto nel 1972.
Termino con questo aneddoto di Hakim Jami (1414-1492):

In presenza di Nushirvan il Giusto i saggi discutevano
su quale fosse l’onda più pesante in questo oceano di dolore.
Uno di essi diceva la malattia e la sofferenza.
Un altro la vecchiaia e la povertà.
Un terzo l’approssimarsi della morte quando non si ha un lavoro.
Alla fine si accordarono su quest’ultimo punto”.

Mario Signorelli


 

FLASH SMS

Un’operaia trentenne precaria scrive un SMS:

“Sto lavorando in fabbrica. Catena di montaggio.
Le mie colleghe ed io non abbiamo avuto il tempo di parlarci.
A fine giornata abbiamo le mani e le braccia tagliuzzate dai cartoni (i guanti rallentano la catena).
Mi stupisce e mi fa arrabbiare osservare come non ci sia solidarietà e come la stragrande maggioranza delle donne sottopagate con cui lavoro dica di essere grata a chi pretende da noi ritmi inumani…
E chi si arrabbia, lo fa con la vita invece di farlo con i titolari (che per spostarsi da una sede all’altra usano l’elicottero)”.

Risposta di Luigi di Milano, sempre via SMS:

“Coraggio! Immergiti nella pesante condizione di vita degli operai…
Vinci la tentazione di disprezzarli per le loro miserie.
E lasciati piuttosto appassionare dal sogno di poterne uscire in avanti insieme a loro, o prima o poi”.

Tre giorni dopo l’operaia è stata licenziata.


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