Ci scrivono (3)
Caro don Roberto,
ho letto con vivo interesse il tuo libro “Figlio del Concilio – Una vita con i preti operai”.
Adesso so tutto (o quasi) sul movimento dei preti operai, “preti di periferia… ibrido impossibile tra tonaca sacerdotale e tuta da lavoro”, le loro motivazioni e i rapporti – non sempre distesi – con le gerarchie ecclesiastiche.
Credo che, al di là della religione in cui ci si riconosce o della fede individuale, non si possa che apprezzare il coraggio della scelta di condividere le condizioni di vita dei lavoratori, le loro sofferenze e preoccupazioni, compresa la partecipazione ai conflitti nel rispetto delle regole democratiche.
È indubbio che si tratta di un modo di concepire il ministero che disturba determinati interessi e per certi versi, va detto, anche la Chiesa-istituzione. A me sembra un modo di interpretare autenticamente la parola di Cristo di essere vicino agli ultimi.
Preti scomodi dunque come il priore di Barbiana, don Lorenzo Milani, il cui straordinario insegnamento – sintetizzabile nelle parole cultura, dignità, libertà – sfociò nella denuncia di Lettera a una professoressa.
Anche nelle tue pagine, come è messo in evidenza nell’introduzione, si percepisce inclusione, filo conduttore che trova diretto riferimento nello spirito del concilio Vaticano II. Direi quindi che il libro è, anche, un’occasione per riflettere sulla misura in cui il Concilio abbia effettivamente inciso sul cambiamento della Chiesa, anche in prospettiva futura.
Lo stare dalla parte della gente, la periferia, non è altro in sostanza che rivendicare la centralità della persona umana nella dimensione principale in cui la stessa si realizza, il lavoro, Rifiuto al tempo stesso del degrado delle relazioni umane e del profitto quale unica ragione esistenziale.
Valori democratici scolpiti nella nostra Costituzione, oggi peraltro messi pericolosamente in discussione. Mi ha colpito molto a tal proposito la lettera che don Cesare Sommariva e gli altri lavoratori indirizzano alla direzione aziendale dopo aver ricevuto la comunicazione del licenziamento. Parole di grande forza morale e dignità, da sole ben difficilmente in grado di modificare certe decisioni, ma che almeno dovrebbero indurre a una seria riflessione la pubblica opinione e i rappresentanti delle istituzioni. Vera invece, e purtroppo amara, è la tua constatazione: al giorno d’oggi ci siamo abituati (vorrei dire “ci hanno abituato”) ad accettare la perdita del lavoro e la precarizzazione non come eventi patologici, ma come fatti ordinari. La televisione e gli altri mezzi di informazione, compresi quelli pubblici, ripetono di continuo in modo aperto o strisciante che non solo ciò è inevitabile e normale ma che è, addirittura, “giusto” in quanto risponde alle regole del mercato e dell’economia globale. Ancor più preoccupante e sconcertante, aggiungo, è quando anche lo Stato fa propria questa mentalità con la propria legislazione. Emblematico di questo clima può considerarsi lo slogan “Il posto fisso non c’è più”, uno dei tanti tweet, con il quale si liquida sbrigativamente la questione, indignandosi (!) con chi non si adegua, dissente o vorrebbe anche solo contraddire (“There is no alternative”…). E’ questo il terreno dove si sviluppa il pensiero unico, sorta di mostruoso ingranaggio che tutto inghiotte alimentandosi con le sue palesi contraddizioni. Condivido l’opinione di chi mette in guardia contro il pericolo di una nuova, subdola, forma di totalitarismo.
Su questi temi la Chiesa cattolica dovrebbe assumere una posizione netta e decisa.
Ho apprezzato la semplicità con cui hai raccontato la tua storia personale, soffermandoti comunque sulla riflessione interiore e sul percorso spirituale che ha orientato le scelte più importanti.
Interessante, in particolare, la descrizione dell’esperienza presso l’ospedale psichiatrico, istituzione totale che anziché curare portava all’annientamento delle persone. Anche a distanza di molti anni resta il segno indelebile del contatto con la sofferenza e la malattia mentale, di fronte alle quali diventano ancor più pressanti gli interrogativi sul senso della vita. La questione psichiatrica, sulla quale in Italia si dibatte da anni, è peraltro ancora di attualità essendo in chiusura gli ospedali psichiatrici giudiziari. A mio parere il rischio maggiore è quello di riforme che attuino, dietro la scusa di correggere una soluzione sbagliata di un problema vero e drammatico, tagli indiscriminati ai bilanci pubblici a scapito degli ammalati e delle loro famiglie.
Di rilievo mi sembrano anche la rivendicazione di autonomia di giudizio, il coraggio di andare “contro vento”, l’interesse per lo studio e l’approfondimento dottrinale.
Molto toccante il paragrafo “Le mie notti con papà”.
Bonhoeffer – che non conoscevo – merita certamente di essere letto e ricordato per la statura morale e la fede che gli permisero di opporsi all’atroce follia del nazismo, fino al sacrificio supremo.
Insomma, è stata una lettura piacevole di un libro ben scritto e ricco di contenuti e di stimoli (dal mio punto di vista, soprattutto lo studio della teologia e la lettura delle Scritture).
Grazie, spero che avremo altre occasioni di incontrarci e parlare insieme. Un caro saluto.
Federico Tellini