“Dicevano che era un prete” / Atti del convegno (6)
È questa un’ottima occasione per chiedere scusa a Carlo. L’ho chiesto personalmente quando è morto, in coscienza. Adesso voglio farlo pubblicamente perché con lui ho avuto un’amicizia molto stretta, di grande intensità e valore dagli anni Sessanta, quando l’ho conosciuto alla Fim, fino a quando mi sono trasferito da Torino per andare a Roma, nel 1989. Da allora non l’ho più frequentato. Soltanto poco tempo prima che don Carlo morisse, ho trovato il coraggio di andarlo a trovare. Era una sera, un giovedì, lui mi insegnò a fare il risotto bollito con dentro il formaggio o quello che trovava nel frigorifero. Gli chiedo scusa perché non sono stato capace di continuare la nostra amicizia.
Gli anni Sessanta sono stati anni formidabili per la Fim Cisl. I migliori anni, si può dire. Era la Fim di Franco Gheddo, Alberto Tridente, Bruno Geromin, Cesare Delpiano, Bruno Manghi e di dirigenti formidabili come Renato Davico, che traghettò il passaggio dalla nuova Fim alla vecchia Fim. Erano persone e dirigenti di una “statura” incomparabile, che oggi consideriamo dei “giganti” del sindacato. Noi eravamo dei semplici operatori, ma tutti avevamo in comune la provenienza dal mondo cattolico: avevamo una tensione ideale fortissima. Una delle differenze rispetto alle altre organizzazioni sindacali era il fatto che eravamo tutti istruiti, cioè avevamo generalmente un diploma di scuola media superiore. Eravamo molto uniti e le nostre discussioni erano davvero molto vivaci.
Credo sia stato Franco Gheddo a farmi conoscere Carlevaris all’interno della Fim. Carlo era uno dei tanti che all’interno delle organizzazioni sindacali partecipava alle discussioni, non con grande evidenza, ma con degli apporti considerati, a quell’epoca, “normali” da chi come noi discuteva sempre molto. Avevamo l’intenzione di essere comunque “uniti” e rivolti al “mondo” esterno.
La Fim dopo il 1969-1970 esplose come organizzazione: da una piccola organizzazione di circa settemila iscritti è passata ad avere venticinquemila iscritti, con la presenza di impiegati e operai, e sempre più operai meridionali. La storia della Fim prese in quel momento una piega totalmente diversa da quella degli anni precedenti. Prima era un gruppo coeso, unito, con un grande dibattito interno e un grande spirito rivolto verso l’esterno, con una sfida continua verso tutti: il padronato, il governo, la Fiom. Noi ci sentivamo più bravi della Fiom, più “intelligenti” dal punto di vista del ragionamento: andavamo davanti alle fabbriche e discutevamo, perché non si poteva entrare dentro.
Per quanto riguarda la Fim, fu rilevante il contributo che Carlo diede negli anni Sessanta per costruire relazioni con persone che cercavamo di operare nelle commissioni interne delle diverse aziende. E dove andavamo a cercare questi lavoratori che non potevamo conoscere direttamente in fabbrica? Li andavamo a cercare nelle parrocchie: ci davamo appuntamento nei bar, ma entravamo in contatto attraverso le parrocchie e il mondo cattolico. Carlo ci mandò in questi ambienti a conoscere delle persone, creando quindi una rete di relazioni estremamente importante. Emerse proprio da questi incontri una serie di quadri sindacali che costituirono l’ossatura per rafforzare la Fim degli anni Sessanta e realizzare quindi il grande balzo in avanti del 1968, 1969 e 1970.
Nel 1970, la Fim era diventata grande, un progetto che stava insieme a quello della Fiom e della Uilm. Il grande progetto della Federazione lavoratori metalmeccanici durò due anni, dal 1970 al 1972. La Flm diventò il paradigma, il punto di riferimento, l’obiettivo che si voleva realizzare per dare unità a tutti i lavoratori, partendo dai metalmeccanici. Si volevano superare le tradizioni di Cisl, Cgil e Uil, per creare un nuovo modello sindacale, costruito dal basso, con delegati di gruppo omogenei, eletti direttamente dai lavoratori con il sistema maggioritario: ogni gruppo eleggeva un delegato, a maggioranza, senza chiedere a quale sindacato apparteneva. Un certo potere sindacale penetrò nelle fabbriche, ma contemporaneamente si creò un grande crogiolo di dibattito. La Fim si sciolse e così avrebbero dovuto fare la Fiom e la Uilm per costituire la Flm che nasceva dai delegati. Doveva essere un’organizzazione che avrebbe dovuto partire dai delegati per poi salire fino ai vertici dell’organizzazione sindacale: un modello nuovo di sindacato.
Nel 1972, la Fiom comunicò che non era in grado di sciogliersi perché la Cgil non glielo consentiva. La Flm entrò comunque in una fase di grande forza organizzativa, ma anche di grande tensione interna, perché i progetti che convivevano non avevano una prospettiva certa. Il sindacato “nuovo” (la Flm) non riusciva ad andare avanti, mentre il sindacato “vecchio” non esisteva più. Sollecitavamo una realtà nuova che però non nacque. Vi furono quindi grandi discussioni interne, molto vivaci. Fu un periodo molto interessante dal punto di vista del dibattito sindacale, delle prospettive, delle relazioni internazionali: il sindacato si proiettava sul mondo. Noi da Torino parlavamo con tutta Europa, con tutto il mondo: con la Spagna, con i paesi dell’Europa dell’est. La prima delegazione che andò in Germania dell’Est partì da Torino. Il muro di Berlino è stato costruito nel 1961 e noi nel 1966 andammo a visitare la Germania dell’est; tornammo in Italia facendo una relazione con tutte le critiche che ci sembrava di dover fare a quel sistema.
Questa capacità di discutere, emersa negli anni Sessanta, proseguì negli anni successivi e attraversò il periodo del terrorismo (che a Torino non è stato per nulla leggero). I terroristi erano anche dentro il mondo dei lavoratori, dentro il mondo operaio. Agivano anche attraverso i delegati eletti direttamente dai lavoratori, e quindi non nominati dal sindacato. Alcuni usavano le ore di permesso sindacale per uscire e entrare senza dover comunicare a nessuno dove andavano, cosa facevano. E quindi era uno strumento adatto per fare attività clandestina. In quel contesto, il dibattito interno del sindacato era vivissimo, anche nei gruppi dirigenti e nella cosiddetta base sindacale e tra i delegati. E Carlo Carlevaris era dentro questo dibattito.
Nella sua azienda, la Berto-Lamet, risultò evidente una delle caratteristiche di Carlo Carlevaris che ha segnato tutto l’arco della sua vita: Carlevaris è stato prima di tutto prete, prima di tutto e soprattutto prete. Era un uomo che voleva annunciare il Vangelo, rendendosi credibile e diventando come gli altri. Con le sue scelte è come se avesse detto:
«Faccio l’operaio perché voglio testimoniare che sono come voi e vi annuncio il Vangelo. Sono come voi e non salgo sul pulpito per dirvi a parole che cosa dovete fare. Scendo in fabbrica, mi sporco le mani e testimonio come, lavorando come voi, essendo tra voi, posso dire – senza timore di essere smentito – che c’è un Dio, c’è Gesù».
Il suo annuncio cristiano si esprimeva attraverso la coerenza dei suoi comportamenti. Esprimeva la coerenza della testimonianza:
«Ti parlo perché posso parlare alla pari con te che sei – come me – operaio».
In più, Carlevaris era anche un sindacalista. Aveva l’idea chiara di quali fossero gli obiettivi, i metodi, i modi, le politiche per migliorare la condizione collettiva. Univa continuamente la testimonianza individuale
«Io sono uguale a voi perché faccio quello che fate voi; ciascuno di voi è come me e io sono come ciascuno di voi»
e l’azione sindacale, perché aveva gli strumenti culturali adeguati per ragionare sul mondo e agire per cambiare la situazione di tutti i lavoratori.
Carlevaris era anche un dirigente sindacale alla Bertolamet, ma lo era anche fuori della fabbrica, dove si continuava con grande passione a discutere e a litigare tra di noi sulle prospettive: tornare alle organizzazioni Cgil, Cisl e Uil e realizzare l’unità attraverso il rafforzamento delle confederazioni oppure resistere e puntare direttamente a costruire la Flm come l’avevamo pensata all’inizio? Questo dibattito divise la Fim per tutti gli anni Settanta e una parte degli anni Ottanta, con il confronto tra due grandi idee, due grandi modelli organizzativi (che non erano uno migliore dell’altro). E Carlevaris si schierò. Eravamo in quel momento sulle stesse posizioni. Nel dibattito interno, don Carlo non temeva di prendere posizione, perché sapeva che era una discussione dentro la quale ci giocavamo il potere del sindacato. Il sindacato aveva in mano il potere di decidere: avrebbe potuto denunciare le ingiustizie e contemporaneamente proporre anche i rimedi per risolvere quelle ingiustizie, attraverso delle scelte. Carlevaris stava dentro questo dibattito e cercava di equilibrare le proposte, valutando come e quanto si potesse andare avanti.
Tra il 1971 e il 1975, Carlevaris mi aiutò in un momento particolarmente delicato. Pur essendoci nella Fim un operatore nazionale Fiat e un segretario nazionale Fiat, ero responsabile delle questioni per Torino; di fatto, avevo un ruolo di coordinamento sindacale anche nazionale con gli altri stabilimenti. In un momento molto critico, don Carlo mi mise in contatto con il capo del personale della Fiat, l’ingegner Aldo De Pieri, una persona che lui conosceva perché forse faceva parte dell’Equipe Notre Dame. Carlevaris me lo presentò e questo contatto contribuì, oltre ai tavoli ufficiali, a creare occasioni costanti di incontro informale (alcune in via Belfiore, a casa di don Carlo) per trovare punti di contatto e chiudere le trattative. De Pieri mi fece incontrare Umberto Agnelli, nel tentativo di trovare strade che potessero mettere insieme le rivendicazioni sindacali sulla Fiat con le posizioni della proprietà.
Sono i momenti in cui sostanzialmente sono stati fatti tre grandi passi avanti sul versante dei rapporti con la Fiat, grazie a Carlo. Un primo passo fu la collocazione dei dipendenti negli stabilimenti sulla base della zona di residenza a Torino: si trattò della possibilità di una mobilità enorme per avvicinare la gente agli stabilimenti più vicini a casa. Questa in verità era la dichiarazione “nobile”, in quanto la ragione reale era la necessità di risolvere il problema della sovrapproduzione di auto a Mirafiori. In questo modo, si ridusse il personale nel settore auto, senza mettere i lavoratori in cassa integrazione o licenziarli; si studiò questo modo per dirottare gli impiegati e gli operai verso gli stabilimenti della Fiat non destinati alla produzione di auto.
Erano poi gli anni in cui furono avviati gli stabilimenti a Brasilia, a Belo Horizonte. Sempre a casa di Carlo, si discusse come fosse possibile andare in un territorio con una situazione politica terrificante e avere un’azienda che, pur non negando la realtà della dittatura militare, avesse all’interno quel tanto di libertà per garantire ai lavoratori di non subire lo stesso trattamento riservato agli operai di altre fabbriche brasiliane.
In quel periodo nacquero anche le prime proposte di sviluppo della Fiat nell’Italia meridionale, guidate dall’idea di non portare più i lavoratori a Torino, ma di costruire gli stabilimenti dove vi era offerta di manodopera.
E tutto questo fu possibile in qualche modo perché Carlo faceva silenziosamente il tramite di relazioni che gli permettevano di giocare questo ruolo molto positivamente. La vocazione di Carlo, quindi, è stata fare il prete e annunciare il Vangelo. Dio gli aveva dato però anche la capacità di essere umile per mettersi al livello degli altri e intelligente per guidare altre persone. La guida è l’assunzione di responsabilità, è saper decidere in ogni momento cosa è meglio fare in una certa situazione, anche con il rischio di sbagliare.
La figura di Carlo va associata a quella dei nostri grandi padri sindacali perché ha avuto un ruolo non di immagine, ma di “retroterra”, in grado di coltivare scelte e soluzioni ai problemi dei lavoratori che lui ha davvero amato tanto.
Franco Aloia