Ricordiamo Carlo Carlevaris,
Pippo Anastasi e Giovanni Carpené
Ulivi, melograni e corbezzoli sono le piante di un piccolo bosco che popola il pendio che sta accanto all’eremo, a pochi Km da Bergamo, dove Mario ci ospita in appuntamenti regolari. Siamo ormai un piccolo “resto” dei preti operai. Spesso, ora molto spesso, piantiamo nuovi alberi. Ogni albero nuovo è un nostro compagno di viaggio che è volato via. Ciascuno con il proprio nome. Nel settembre scorso siamo scesi lungo il pendio e abbiamo piantato due melograni: si chiamano Carlo Carlevaris e Pippo Anastasi. Il prossimo si chiamerà Giovanni Carpené. Passano gli anni e le piante crescono fino a dare frutti. Oltre che per i preti operai, c’è posto anche per qualche nostro amico particolare. E il caso di Giuseppe Barbaglio, il blblista. Sono parecchi anni che se n’è andato. Un ulivo porta il suo nome. Ormai è grande e quest’anno è carico di olive. Davvero una meraviglia. Mentre eravamo insieme a questa compagnia, Mario ci ha raccontato una cosa curiosa: l’ulivo di Gino Piccio nella prima annata fruttifera ha prodotto 93 olive, gli stessi anni che lui aveva quando ha lasciato questo mondo.
Ogni volta che qualcuno dei nostri compagni di viaggio raggiunge il traguardo della vita storica, emerge la sua unicità, l’originalità della sua esistenza. Viene alla luce la scia lasciata nel cammino, i tanti incontri, la semina e le fioriture che negli anni sono sbocciate. Soprattutto si alza un po’ il velo di una storia d’amore che, sia pure con tutti i limiti, affonda le sue radici in quell’amore primordiale che ci accoglie quando si chiudono i nostri giorni nella notte. Ciascuno è molto di più di quello che è riuscito ad essere, a manifestare e a comunicare nelle opere e nei giorni. Ci si accorge di questo quando il suo posto accanto a noi rimane vuoto. L’assenza ci evoca una unicità, una irripetibilità, che in qualche modo viene intuita nel suo insieme: una storia adempiuta. E non ce n’è una uguale all’altra. Nella vita storica si è un po’ costretti a vivere nella parzialità, che spesso tendiamo a maggiorare, entrando in collisione. Forse fa parte del mestiere di vivere. Ci si conosce, ma è molto più quello che si ignora dell’altro, anche se si cammina nella stessa direzione.
Davvero. E’ una emozione grande vedere quegli alberi, uno accanto all’altro. Essere lì con loro. Ciascuno col suo nome che evoca il mistero e la bellezza di singole esistenze che abbiamo incrociato e con le quali si è gioito e sofferto. Simili, eppure diversi. Quel piccolo bosco ce li presenta insieme. E se ascoltiamo il suo silenzio, ci parla. Per associazione mi viene in mente quel testo del primo libro dei Re dove si narra del profeta Elia che dopo la traversata del deserto sale sul monte Oreb e nel sussurro di una brezza leggera percepisce la voce di silenzio del Signore.
Le foglie di quegli alberi si muovono, sensibili allo spirare della brezza. Se ci fermiamo nel silenzio, e ci poniamo in ascolto del loro stormire insieme, sorge in noi la percezione di una coralità che infrange la solitudine che la morte impone sul nostro versante, per alludere ad una diversa dimensione dove quello che a noi appare frammentato si ricompone in una armonia che per un attimo si lascia intuire. E loro, quei volti simbolicamente richiamati da quella comunità di alberi vivi, ci annunciano lo shalom dicendoci: abbiamo portato a termine la nostra corsa. E’ un flusso di speranza che ci arriva da altrove e che ci accompagna. Mi sembra che Bonhoeffer abbia ben raccontato questo vissuto in una delle sue ultime parole affiorate dalla tenebra del carcere della Gestapo: la sua poesia “Potenze benigne” di cui riporto le ultime due strofe:
Quando il silenzio profondo scende intorno a noi
facci udire quel suono pieno
del mondo, che invisibile
s’estende intorno a noi
l’alto canto di lode di tutti i tuoi figli.
Da potenze benigne prodigiosamente protetti,
attendiamo consolati quello che accadrà.
Dio ci è a fianco alla sera e al mattino,
e senza fallo, in ogni giorno che verrà.