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1. La lettura di alcuni contributi all’incontro europeo dei preti operai sull’ultimo numero della Rivista ha suscitato in me alcune perplessità ed alcuni interrogativi, che tenterò di chiarire in quanto segue.
Per quanto ricordo, uno dei temi dell’incontro era pressappoco questo: “i preti operai di fronte al 1992”. E i contributi sviluppavano il tema sul come comportarsi di fronte ad una sfida che allargherà sia la scala dei problemi che la coscienza della interdipendenza dei popoli.

2. Di fronte a problemi come questi (il completamento del mercato unico, ma anche il debito dei paesi in via di sviluppo, o la liberalizzazione economica nei paesi dell’Est) è difficile trovare una posizione che sia al tempo stesso pienamente cosciente e propulsiva verso l’azione. Da un lato ci si misura infatti col rischio del pessimismo e del sentirsi schiacciati dalla incolmabile differenza di potere tra chi decide queste trasformazioni e chi le subisce. Dall’altro si rischia però di interpretare questi processi, ed in particolare quello della crescente internazionalizzazione, come trasformazioni epocali, che in qualche misura coinvolgono tutti, e di cui occorre acquisire coscienza il più possibile, quasi a non volerne perdere alcun singolo passaggio: chiamerei questa seconda tendenza idealismo, in quanto molto spesso si accompagna con l’assenza di una precisa analisi degli interessi in campo, ed è facile preda della propaganda televisiva (del tipo «il 1992 comporterà maggior libertà perché potremo andare all’estero senza carta d’identità!»).

3. Volendo pertanto suggerire un “percorso” di analisi sul problema, credo che occorra innanzitutto fissare tre aspetti:
a) cosa è sicuro – probabile – possibile che succeda con le trasformazioni che inizieranno a partire dal 1992.
b) quali interessi hanno i soggetti in campo, ovvero a chi conviene il completamento del mercato unico?
c) da che parte mi schiero io e quali interessi voglio tutelare.

Molto sinteticamente, questi tre aspetti sono trattati nei punti seguenti.

4. Che l’integrazione economica, ottenuta attraverso l’unificazione dei mercati, produca trasformazioni irreversibili della struttura produttiva e finanziaria è il primo dato da rilevare. Infatti le imprese hanno dovuto riorganizzarsi, perché è cambiata la scala di produzione: la FIAT non guarda più ad un mercato di 58 milioni di italiani, ma a quello più ampio di 300 milioni di cittadini europei. Questo ha comportato che le imprese in molti casi si sono fuse tra loro, per evitare che la concorrenza troppo spinta portasse al fallimento qualcuna di loro. Ma anche le banche si sono messe sulla strada della riorganizzazione, perché adesso si potrà liberamente investire in titoli italiani o stranieri (BOT, CCT, azioni), senza alcun tipo di controllo come in passato.
Anche i governi e le banche centrali si sono dovuti riorganizzare, perché controllare i capitali finanziari e i crediti in economie sempre più interdipendenti è molto più difficile, o spesso impossibile. Per questo essi spingono per l’adozione di un’unica moneta europea, con un’ unica banca centrale.
I sindacati e i partiti non si sono ancora preparati. L’esperienza del parlamento europeo è da questo punto di vista frustrante, perché invece che tradursi in una sperimentazione del governo congiunto dell’Europa, è divenuto una specie di salotto per la discussione dell’operato della Commissione Europea. C’è da aspettarsi che, finché il parlamento europeo non disporrà di poteri effettivi, difficilmente si creerà una cornice ideale entro cui anche i sindacati possano avere una loro organizzazione sovranazionale; per ora ne esistono alcuni ma con poteri solo formali (vedi vicenda della carta sociale europea).

5. In questo quadro solo abbozzato, che cosa è possibile attendersi come riflesso nella vita di chi non conta niente nel prendere queste decisioni? Tenterò alcune ipotesi, da verificarsi nel prossimo decennio.
a – La crescita della dimensione delle imprese non si ritiene che possa produrre significativi aumenti di occupazione, se non nel settore finanziario, e concentrati nelle città che sono già oggi centri finanziari (Londra, Francoforte, Milano). In compenso molti reputano che gli effetti “benefici” dovrebbero consistere in un maggior numero di merci a prezzi più bassi. Quindi più consumismo o più disoccupazione.
b – La crescita della dimensione delle imprese si traduce in maggior gerarchia e in minor possibilità di controllo dal basso. Su questo le imprese si stanno dimostrando molto rigide, come dimostra l’impermeabilità / ostilità delle organizzazioni imprenditoriali ad ogni tentativo sindacale passato di far approvare al parlamento europeo una legge sulla regolamentazione delle imprese multinazionali.
c – L’apertura dei mercati finanziari si traduce nella possibilità degli investitori di spostare i loro capitali nei luoghi in cui il rendimento è più alto, o perché sono più produttivi tecnologicamente (è il caso degli investimenti nei settori tecnologicamente avanzati in Germania) o perché in quei luoghi il lavoro costa meno (è il caso della Grecia o della Spagna). Per questo anche all’interno dei singoli paesi ci si attende un ampliamento dei divari economici tra regioni ricche e regioni povere.
d – L’apertura dei mercati finanziari produce anche l’impossibilità per ogni singolo paese di attuare le politiche che ritiene più opportune. Questo si traduce nel fatto che se la Germania o la Gran Bretagna continuano nella scelta di tagliare le spese pubbliche per pareggiare il bilancio statale, anche a costo di maggior disoccupazione, anche gli altri paesi, meno preoccupati della spesa in deficit, dovranno comunque adeguarsi agli stessi criteri. E siccome la Germania in particolare non sembra intenzionata a recedere da questa linea, è probabile attendersi minor spesa pubblica o più tasse in un futuro non lontano, specialmente in Italia.
e – Nel lungo periodo (20-30 anni) l’integrazione economica richiederà un governo sovranazionale per dirigere l’economia. È possibile che venga adottata una soluzione federale analoga a quella degli Stati Uniti, dove a livello nazionale si decidono questioni a carattere locale (scuole, ospedali) e a livello sovranazionale si affrontano le grandi questioni strategiche (commercio estero, difesa, regolazione dei mercati). Questo significa che le organizzazioni locali (come partiti e sindacati) avranno meno peso e la politica tenderà a ritornare in molti casi una questione di campanile.
f – Si parla da almeno un anno di una Carta dei Diritti dei cittadini europei. Approvarla in tutti gli Stati richiederà un minimo di 3-4 anni per divenire operativa. Ma essa segnala l’importanza di un’altra possibile conseguenza in un futuro non lontano: la deradicalizzazione dei singoli, cioè la progressiva perdita del senso di appartenenza alla comunità locale e nazionale. La diversità della lingua è da questo punto di vista un ostacolo molto grosso. Ma nella misura in cui l’esperienza degli Stati Uniti costituisce di nuovo un precedente, la formazione della federazione degli Stati sarà seguita da profondi movimenti migratòri, dalle aree povere verso le aree ricche. In fondo stiamo già osservando questo fenomeno nell’area mediterranea, una volta che i legami economici tra paesi si sviluppano sufficientemente. E dove vanno queste migrazioni? Come tutta l’esperienza dei paesi sottosviluppati insegna, tendono a prodursi grandi concentrazioni urbane, dove periferia è sinonimo di basso reddito, assenza di identità, emarginazione.

6. Volendo analizzare quindi dal punto di vista degli interessi il passaggio al mercato unico, possiamo dire che il settore finanziario è quello destinato a trarre i maggiori benefici da questa trasformazione. Le imprese industriali possono allargare la scala di produzione al punto da poter reggere la concorrenza aggressiva esercitata dalle imprese giapponesi e statunitensi. Detto in altro modo, le imprese europee con il 1992 cercano di evitare di soccombere all’imperialismo commerciale giapponese, che ha già sottomesso il mercato statunitense.
Per la libertà della politica e l’esercizio della sovranità popolare sembra piuttosto di intravedere dei rischi piuttosto che dei benefici. I maggiori vincoli che discenderebbero sul bilancio statale, accompagnati dalla fede dilagante nella efficacia allocativa del mercato, ci fanno intravedere il rischio di una generalizzazione dell’esperienza inglese, dove il welfare state è stato smontato pezzo a pezzo.

7. Che dire poi degli interessi della classe operaia? Vista dal basso, l’integrazione europea non comporta grandi benefici. Non che il permanere della divisione nazionale che esiste oggi offra prospettive migliori! Il sentirsi cittadini di uno stato più ampio offre la possibilità di allargare il senso della solidarietà, con un numero sempre più ampio di persone nella stessa condizione, nel quadro però di una situazione in cui contare (politicamente ed economicamente) è sempre più difficile. Per contro, e forse per assurdo, questo rilancia l’importanza del lavoro di base locale.

8. Questi elementi possono aiutare a collocare in una prospettiva più corretta (storico – economica) l’integrazione dei mercati. Resta però aperta la domanda del titolo: che fare? Mi scriveva al riguardo un prete operaio:

«Questi fenomeni che ora vedo sono fenomeni già decisi, da altri, anni fa, di cui ormai non posso far altro che prendere atto. Il macro di oggi non è altro che il frutto di un micro di tanti anni fa… Il problema micro – macro non lo affronto in sé oggi. Ma è un problema di respiro storico. Il micro di oggi è il dialettico al macro di oggi ed è il seme possibile di un macro di domani. L’importante è che sia dialettico veramente, nuovo veramente nelle logiche, nell’immaginario, nell’etica, nella scienza».

9. Difficile non essere d’accordo con questa prospettiva. Il problema diventa quindi cosa, oggi, intravedo come generatrice di contraddizione e portatrice di alternativa domani. Quello che talvolta chiamiamo il soggetto storico del cambiamento. E più ancora che quello, il terreno storico del cambiamento: dove e come può essere sconfitta la mercificazione universale, di cui il 1992 è un’ulteriore pietra miliare?

10. A me sembra di poter intravedere che, nonostante la tendenziale cancellazione delle identità nazionali, nonostante la maggior mobilità territoriale alla ricerca del lavoro, nonostante il senso di inutilità che viene dall’essere comandati da persone e istituzioni sempre più irraggiungibili, gli individui continueranno ad essere formati e socializzati in comunità locali. La sfida che si apre è quella per cui queste realtà restino ambienti in cui sia ancora possibile trovare una dimensione umana dei rapporti. Così come il parlamento europeo diverrà sempre più lontano dalle voci che arrivano dalla periferia, così anche la periferia sarà sempre più lontana dai messaggi che arrivano dal centro: e questo aprirà molti spazi per l’autoorganizzazione.

 

Daniele Checchi


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