Sguardi dalla stiva


 

Storia di una cooperativa durata 16 anni 


Ostiano, provincia di Cremona, 4000 abitanti.
Siamo nel dicembre del 1986. Il giorno 27 arrivano a casa di tutti i 146 dipendenti del Calzaturificio “Belvedere” le lettere di licenziamento. Che fare? Sono seguite ore di frenetiche telefonate, di estenuanti assemblee per cercare insieme la strada da percorrere, valutando anche il pro e il contro di una lotta ad oltranza: occupare la fabbrica. In parecchi di noi c’era la ferma volontà di non mollare perché un altro posto di lavoro non sarebbe stato facile per nessuno trovarlo a breve tempo: ma come continuare a condurre avanti la lotta visto che • parecchi compagni e compagne, coperti dalla CIGS cominciavano a ritirarsi; • i titolari dell’azienda si erano subito defilati; • inoltre l’organizzazione sindacale territoriale di categoria, non vedendo una soluzione soddisfacente, si era subito dichiarata non disponibile ad una azione ad oltranza.

E allora? Per alcuni di noi, una ventina in tutto, la prospettiva di vivere a lungo assistiti, senza alcuna indicazione certa di una prossima occupazione, non attirava un granché. Tanti anni di lavoro, fianco a fianco, e le numerose lotte sindacali per la difesa di un posto di lavoro sicuro e dignitoso, avevano creato in noi la convinzione che per uscire da quella tragica situazione dovevamo a tutti i costi resistere insieme, cercando unitariamente una soluzione che potesse contemporaneamente sia salvaguardare il nostro posto di lavoro sia evitare l’annullamento di una realtà produttiva ad Ostiano, un paese già fortemente carente di opportunità occupazionali.

 

Nasce la Cooperativa “Calzaturificio Castello”

Nacque così l’idea di costituirci in cooperativa, prelevando un reparto produttivo della ditta fallita, pagando l’affitto d’azienda al tribunale, per continuare la stessa attività lavorativa di produzione di calzature, visto che quel lavoro eravamo tutti capaci di farlo.
Ci siamo così messi attorno ad un tavolo per valutare l’insieme delle nostre potenzialità: e siccome tra di noi esistevano tutte le figure professionali necessarie per coprire una linea produttiva, e considerato anche che c’era già stata fatta una sicura offerta di lavoro da parte di una commerciale calzaturiera, ci siamo buttati fiduciosi in questa avventura.
Assistiti dai funzionari della Associazione Legacoop ci siamo dati uno Statuto costitutivo che abbiamo sottoscritto davanti al notaio, allegando anche un Regolamento interno che normasse per ogni socio un posto di lavoro rispettoso delle sue esigenze personali, ma che salvaguardasse nel contempo la redditività aziendale.
Eravamo coscienti che il compito, soprattutto all’inizio, di far camminare bene una struttura produttiva nella quale alcuni di noi avrebbero coperto per la prima volta funzioni dirigenziali, non sarebbe stato facile: comunque eravamo tutti sufficientemente convinti che ne valeva la pena. Volevamo:
• costruirci un nuovo posto di lavoro e un nostro ambiente di lavoro;
• riappropriarci del posto che ci era stato tolto, rientrando nell’ambiente di lavoro da cui eravamo stati espulsi;
• mantenere in vita una realtà produttiva, anche di dimensioni piccole, ma che un domani avrebbe potuto essere una opportunità per altre persone;
• tentare di costruire insieme un modo nuovo di stare sul lavoro.
E così abbiamo cominciato!

Col vento in poppa

Nei primi anni si è vista crescere notevolmente la nostra capacità produttiva e gestionale, reggendo bene sul mercato della calzatura, un mercato in cui, come in altri, la concorrenza non perdona ingenuità o pressapochismi.
Si è raddoppiato l’organico aziendale su due linee produttive, raggiungendo il numero di 48 unità lavorative, tra soci e dipendenti. Per alcune stagioni abbiamo prodotto anche una certa quantità di calzature con marchio nostro.
Si è partecipato, vincendo, all’asta fallimentare degli immobili dell’ex calzaturificio Belvedere, avvalendoci del diritto di prelazione.
Non è stato facile raggiungere unitariamente alcune decisioni in merito ad investimenti patrimoniali perché il nostro Statuto recita che la Castello è una cooperativa “non a fine di lucro”; quindi tutti i soci sapevano che non sarebbero mai diventati ‘padroni’ del patrimonio costituito (immobile e attrezzature), ma che sarebbe servito solo a dare stabilità all’azienda e assicurare meglio un posto di lavoro a noi e agli altri che sarebbero entrati in cooperativa. Era una scelta quasi di ‘gratuità’! Infatti nei sedici anni di vita della cooperativa Castello quasi 200 persone, tra soci e dipendenti, vi hanno trovato un lavoro: ognuno ha sempre ricevuto il suo salario contrattuale, a tutti sono stati versati i contributi; in parecchi hanno maturato la pensione e hanno lasciato la cooperativa ricevendo il TFR, e ai soci pensionati è stata restituita la quota di capitale sociale rivalutata a norma di statuto.
 

Costretti a chiudere

A partire dal 1998, allertati dai continui richiami della crisi settoriale, ma sempre sostenuti dalla volontà e speranza di riuscire a difendere i posti di lavoro a noi in carico, ci siamo ulteriormente attivati per trovare sbocchi migliorativi.
Abbiamo così dato all’azienda una nuova organizzazione interna per rendere la struttura produttiva capace di offrire ai clienti servizi idonei alle nuove esigenze del mercato della calzatura, consolidando anche il patrimonio immobiliare e tecnologico delle attrezzature.
Ma la continua e dissennata, e per nulla controllata, politica di decentramento produttivo verso aree lavorative molto appetibili per l’economicità della manodopera, ci ha praticamente costretto a chiudere.
Il produrre scarpe in Italia costa troppo; la nostra manodopera calzaturiera è troppo cara: un salario medio di 850 euro mensili non è più compatibile con la concorrenza del mercato globale. E così i grandi imprenditori italiani, con molta ‘libertà’, senza particolari vincoli fiscali, esportano la produzione all’estero (paesi dell’est o del terzo mondo) dove la manodopera è a buon mercato e non richiede ‘particolari’ tutele salariali e contributive: in Slovacchia un lavoratore calzaturiero costa circa 300 mila vecchie lire al mese, per 12 mensilità e senza ferie e tredicesima. E allora chi glielo fa fare di rimanere in Italia a produrre?
Le condizioni di lavoro (sicurezza – tutela della salute – garanzie sociali) in quei paesi possono essere facilmente asservite al capitale: ciò che conta è il profitto. Produrre a costi sempre inferiori sfruttando anche situazioni di estrema povertà e bisogno, è la legge del mercato per raggiungere margini di utili sempre più alti.
La legge del nuovo mercato globale ci ha costretti, il 28 ottobre 2002, a chiudere la cooperativa, ma non ci sentiamo dei falliti. Nell’ultima assemblea ci siamo dati un voto: “profitto buono”, perché non sempre chi perde ha anche torto.
Abbiamo sciolto la cooperativa, ma non ci siamo lasciati: in molti, infatti, siamo ancora convinti che ne è valsa la pena.

 

Gianni Alessandria


 

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