Editoriale


 

Penso che possiamo leggere la storia di noi preti operai, nella complessità di situazioni di vita che si sono andate susseguendo attraverso mutazioni molteplici dall’esterno e dall’interno del nostro vissuto, ricomprendendola attraverso chiavi di lettura e di senso. Non so se è una esperienza che vi è consueta. Io ricordo, a questo proposito, quanto mi è stato raccontato essere accaduto nell’ambito di uno dei convegni europei dei pretioperai. Un diacono tedesco raccontava di essere stato chiamato ad un corso di una università tedesca per parlare dei preti operai agli studenti. Si pose l’interrogativo riguardo a cosa poteva raccontare a quei giovani di un contesto di lavoro così diverso da quello attuale in cui si lavora in condizioni quasi da camice bianco. Di luoghi sporchi, di fatiche immani contando sulla forza delle braccia, la capacità di sopportare la stanchezza a oltranza, l’usura di condizioni disumane… E’ allora che gli venne in mente di usare una chiave di lettura di quel mondo pressocché impossibile da rappresentare agli occhi delle generazioni più giovani. I preti operai – cominciò a raccontare – fanno parte di quella genìa umana, che speriamo esista sempre nelle diverse epoche, di gente “curiosa”. Non nel senso pettegolo del termine, ma poco inclini a lasciar correre quello che lì per lì non capiscono, e, volendo scoprire quello che, in prima battuta, sembra troppo ovvio per essere vero, preferiscono controllare di persona. Negli anni ’50 (e non solo) nei seminari si insegnava il primato dello spirituale a spese di un materiale apparentato sempre con ciò che è pesante, ingombrante, deviante. E’ così che molti preti operai sono entrati in una storia per poterla riscattare. Mentre poi vivendola dall’interno hanno capito che il riscatto non era nella direzione dell’esaltazione di uno spirituale disincarnato, ma nella lotta di una materia vivificata dallo spirito incarnato. E dove si aspettavano di trovare contraddizione e oscurità, hanno trovato luce e viva energia umana.

Io non so ora dove ci può portare la tematica che stiamo affrontando, ma – guarda caso – non so cosa portò don Sirio, nello scrivere “Una zolla di terra” dopo i lunghi tre anni di immersione nella manovalanza di un cantiere navale degli anni ’50, a porre all’inizio del piccolo volume la citazione di un uomo (guarda caso un indiano anche lui, come l’autore del libro che sta alla base della tematica di questo nostro incontro) che recita testuale “chi lavora e soffre su una zolla di terra, lavora e soffre su tutta la terra”.
Anche noi siamo stati immersi in una storia in cui “l’universale” era la classe operaia. Poi questo nostro incontrarci ha conosciuto uno spostamento dalle testimonianze del lavoro a racconti che non attingevano più unicamente al lavoro operaio, ma raccontavano esperienze diverse sempre comunque collegate alla vita della gente comune, quella che non ha santi in paradiso e si deve affidare alle proprie mani, al cuore, alla compassione degli altri.
A questo punto possiamo pensare, quindi, di cercare una chiave che possa ricollegare le condizioni di vita di questo imbrunire della nostra vita con quelle della vita passata, attraverso una re-interpretazione di tutto l’arco della nostra esistenza quali preti operai. Non è vero che quello che è stato è stato e basta. Come l’albero cresce e le radici nutrono la stessa vita che allarga i suoi rami, così anche noi. Non credo che ne abbiamo perso la consapevolezza, ma occorre rinnovarla per poter affermare con la chiarezza possibile che la nostra storia è passata di qui e si volge con nuove motivazioni verso il proprio essere cambiamento.
Mi pare di poter affermare che, sia pure con infiniti contorcimenti quali quelli di un fiume che si fa strada nella pianura cercando uno sbocco in forza delle energie accumulate fin dalla sorgente, la nostra storia collettiva di pretioperai si sia diretta verso una modalità inclusiva di racconti e sensibilità differenti. L’incontrarci a Bergamo, in piccolo e solidale numero, ogni anno apre strade che ci riportano senza nostalgie nelle acque del grande fiume della vita. Senza sottrarci all’impeto delle correnti che avvertono dell’avvicinarsi di rapide prossime alle grandi cascate che tutto rimescolano per affrontare nuovi corsi e nuovi cammini.
Così il tema dell’incontro questo anno e il toccare con mano quanto si sta preparando a livello planetario in un precipitare di avvenimenti che rende problematica la sopravvivenza dell’attuale modello di vita sulla Terra. E la stessa sopravvivenza del nostro pianeta.
Come possiamo dare continuità a ciò che si è aperto davanti a noi? Su cosa possiamo incontrarci l’anno prossimo?
Il racconto della creazione all’inizio del libro della Genesi ci consegna una sintesi in sei giorni di un periodo di tempo i cui numeri affondano in una incubazione preistorica che a dire imponente è sempre dir poco. Ma è in quell’incubazione cui dovremmo volgere l’attenzione e ritornare per imboccare una strada più giusta per una relazione di vita con il creato e tra le creature.
Scrive Matthew Fox (domenicano, teologo, fatto fuori dalla teologia dominante, ma fonte di sempre nuove benedizioni):
“Una nuova storia cosmica della creazione è importante perché, storicamente, le tribù umane sono state tenute insieme dalle loro cosmogonie. Oggi, con gli scienziati di tutto il mondo che sono d’accordo perlomeno sui fatti fondamentali della nuova storia della creazione, abbiamo la potenzialità di sviluppare un nuovo senso di unità globale, di fare esperienza della razza umana come una sola tribù legata insieme da un’unica, straordinaria storia della creazione”1.
“Oggi la scienza ci fornisce una nuova storia cosmica riguardo alle nostre origini. E’ una storia sacra che ci riempie di meraviglia quando la ascoltiamo. Nelle righe che seguono cercherò di raccontarla a modo mio. E’ una storia di doni, perché tutti noi proveniamo da una discendenza di doni cosmici:

All’inizio c’era il dono.
E il dono era con Dio, e il dono era Dio.
E il dono venne a porre la sua tenda in mezzo a noi,
dapprima nella forma della palla di fuoco primordiale,
che bruciò senza sosta per 750.000 anni
e nel suo immenso forno cosmico forgiò adroni e leptoni.
Questi doni riuscirono a stabilizzarsi abbastanza
per dare alla luce le prime creature atomiche:
l’idrogeno e l’elio.

Un miliardo di anni di rimescolamenti e ribollimenti,
e i doni dell’idrogeno e dell’elio
diedero alla luce le galassie – e queste galassie vive,
rotanti, vorticanti, crearono triliardi di stelle,
luci celesti e fornaci cosmiche,
che a loro volta crearono altri doni
esplodendo violentemente, enormi supernove,
brucianti di luce e più radiose di miliardi di stelle.

Un dono dopo l’altro, un dono che crea un altro dono,
doni che esplodono, doni che implodono,
doni di luce, doni di oscurità.
Doni cosmici e doni sub-atomici.
Tutto che gira e ruota in un vortice,
nasce e muore,
nell’ambito di un vasto piano segreto,
che era esso stesso un dono.

Una di queste supernove esplose a modo suo
e produsse nell’universo un dono unico
che più tardi, nel tempo, altre creature
avrebbero chiamato “Terra”,
la loro casa.

Anche la biosfera fu un dono,
che avviluppava la Terra di bellezza e dignità
fornendole il giusto livello di protezione
dalle radiazioni del sole
e dal freddo cosmico. E dalla notte eterna.

Questo pianeta speciale venne così incastonato
come un gioiello
nel suo posto preciso, un posto squisito,
alla distanza di 100 milioni di miglia
dalla sua stella madre, il sole.

Sorsero altri doni, mai visti prima nell’universo:
rocce, oceani, continenti,
creature multicellulari che si muovevano di forza propria.
Nasceva la vita!
I doni che prima avevano preso la forma
della palla di fuoco,
dell’elio, delle galassie e delle stelle, delle rocce e dell’acqua,
ora prendevano la forma della vita!
La vita era un nuovo dono dell’universo.

Fiori di ogni colore e profumo, alberi che stavano diritti.
Foreste che offrivano la possibilità di prosperare
a tutti i tipi di esseri.
Esseri che strisciano e che si arrampicano.
Esseri che volano, che saltano e che nuotano.
Esseri che corrono su quattro zampe.
E, alla fine, esseri che stanno in piedi su due zampe sole,
e che camminano. E che hanno pollici opponibili per creare
ancora di più, mettendo al mondo ancora altri doni.

L’essere umano stesso divenne un dono,
ma anche una minaccia,
perché il suo potere creativo era unico
sia nel suo potenziale distruttivo
come nel suo potenziale di guarigione.

Come avrebbero usato gli umani questi doni?
Che direzione avrebbero preso?
La Terra attendeva una risposta, e sta ancora aspettando.
Sta tremando.
Vennero diversi maestri e maestre, incarnazioni del divino,
che sorsero dalla Terra: Iside e Esiodo, Buddha e Lao Tzu,
Mosè e Isaia,
Sara e Ester, Gesù e Paolo, Maria e Ildegarda,
il capo Seattle e Buffalo Woman.
Vennero per insegnare le strade umane della compassione.

Ma la Terra continuò ad attendere
per vedere se l’umanità era un dono o una maledizione.
E tremava.
Vi è mai successo di donare qualcosa e poi pentirvene?

La Terra si meraviglia e aspetta,
perché il dono è stato fatto carne
e si trova in mezzo a noi, dappertutto,
ma noi perlopiù non ce ne accorgiamo.
Lo trattiamo non come un dono,
ma come un oggetto.
Un oggetto da usare, abusare, schiacciare sotto i piedi
crocifiggere addirittura.

Ma a coloro che lo ricevono come un dono,
è promessa ogni cosa.
Saranno chiamati figli e figlie del dono,
saranno figli e figlie della grazia.
Per tutte le generazioni”2.

 LUIGI SONNENFELD


1 Matthew Fox, La spiritualità del creato, Gabrielli Editori, p. 51
2 Ivi 17ss.

Share This