Sguardi e voci dalla stiva (3)
… per quelli che non ci stanno e che resistono
La lettura della testimonianza di Luigi Consonni (“Alla ricerca del nostro filo rosso”, febbraio 2020) sul suo percorso di prete-operaio mi fornisce alcuni spunti per fare un “parallelismo di vita” da un altro angolo di osservazione e di pratica. Il mio è un breve racconto da parte di un comunista-operaio che si è trovato anch’egli di fronte ai “bivi” di cui parla Luigi. E la cosa mi intriga perché abbiamo tra l’altro lavorato nella stessa fabbrica, per cui credo di capire bene ciò che egli intende quando la narra.
Premetto che non ci voglio fare delle costruzioni teoriche, seppur gli spunti in questa direzione, volendo, non mancherebbero di certo. Cercherò di stare “terra-terra” come sta Luigi, perché le verità -anche complesse- partono in fondo dalla disamina spassionata di fenomeni tutto sommato semplici.
Provenendo da una famiglia comunista (padre e nonno materno), reduce da eventi di portata epocale come le due guerre mondiali, i due dopoguerra e la Resistenza (il nonno artigliere sull’Isonzo, il babbo partigiano nelle Brigate Garibaldi), “ideologicamente” ho succhiato quel latte. Asciutto ed essenziale il nonno e fermamente antimilitarista (mi cantava sempre “Gorizia tu sei maledetta”), più pirotecnico e curioso intellettualmente il babbo; il quale, pur votando PCI, ce l’aveva con Togliatti perché i fascisti, nel 1945, non erano stati definitivamente spazzati via. Non erano essi atei dichiarati, ma semplicemente vivevano facendo a meno della chiesa; ritenuta permanentemente complice dei poteri costituiti. Nelle lotte da loro sostenute (bracciante il nonno, operaio il babbo) non avevano mai avuto il “piacere”, mi dicevano, di vedere il clero dalla loro parte.
Tali “presupposti” vengono per me ad intersecarsi con l’ondata di lotte operaie e studentesche del 1968-’69. Non ci vuole molto prima che anche io decida di mettermi in gioco. E lo faccio, in maniera abbastanza naturale, criticando da “sinistra” le formazioni “storiche” del movimento operaio. Allora per molti giovani – che esprimevano un imprevisto “radicalismo” – la strada era per certi versi delineata. Ed era ancora, la mia, una generazione che “osava” sfidare, con molta ingenuità e schematismo, le generazioni precedenti sul “che fare?”
I miei “Vangeli” sono da subito i classici del marxismo. Dal momento che essi per me spiegavano la realtà del capitalismo e la via per abbatterlo, la sfida consisteva allora nell’interpretarli e nel darne attuazione conseguente.
Le piazze piene, la conflittualità che attraversa ogni aspetto del vivere comune, i cambiamenti a portata di mano, un “radioso avvenire” che si prospetta… Eppoi: la comunanza di idee e di azione, i nuovi compagni che incontri quasi ogni giorno. Tutto, proprio tutto spinge all’attività politica. C’è una “liberazione”, prima di tutto interiore, che mette un senso di “compiutezza” a tutto ciò che fai. Ma per me non sono tanto l’URSS e la Cina, il Vietnam e Cuba le realtà che mi coinvolgono, quanto il protagonismo operaio e studentesco, la rottura dei vecchi “schemi”, la messa in discussione dello sfruttamento, dei rapporti ossificati e delle gerarchie istituzionali. Chiesa compresa.
In poche parole, c’era molto anarchismo in quel comunismo di cui mi sforzavo di apprendere i primi rudimenti. Quando poi la teoria diventerà azione (l’occupazione della scuola, gli scontri con la polizia, le denunce, gli arresti, i picchetti operai, l’attività organizzata) la “formazione socio-politica” di cui parla Luigi sarà acquisita sul campo.
A differenza di molti sessantottini, che passano dalle sacrestie alle piazze infuocate “regolando” così il loro rapporto con Dio, la preclusione ideologica (“la religione è l’oppio dei popoli”, K. Marx) mi ha impedito un minimo approccio serio con le questioni di fede, limitandomi a liquidare la cosa come “anacronistica” o “nemica”. Pigrizia mentale, comodità, bisogno rassicurante di “certezze indiscutibili”.
Permanendo comunque dei residui di “educazione” cattolica da parte materna, in un primo tempo mi imbatto, la domenica mattina a S. Donato Milanese dove abito, in don Roberto: un prete sui trent’anni dalla folta chioma riccioluta, attivissimo, polemico, che predica pubblicamente sulla compatibiltà tra cristianesimo e marxismo. Egli, in sella ad un lambrettone scassato, percorrerà per anni ed anni le contrade limitrofe occupandosi dei reietti e degli esclusi, come lui stesso d’altronde doveva essere considerato dai suoi confratelli. Ma niente da fare, la mia vita politica è a Milano. Eppoi non ho voglia di mettere in discussione nulla di ciò che mi pare definitivamente acquisito… Gioca un fattore non secondario: per me il futuro è in quelle piazze, è lì che si decide. La conta dei voti mi sembra una sonora presa in giro. Chi non c’è sta dall’altra parte. La chiesa-istituzione mi sembra quella di Laodicèa dell’Apocalisse di Giovanni:
“Conosco le tue opere: tu non sei né freddo, né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.” (Ap 3,15-17).
Terminati gli studi e svolto il servizio militare (dove vivo l’insubordinazione del Proletari in Divisa), fatta esperienza di lavoro in qualche fabbrichetta, mi si prospetta un posto all’Università, di ruolo. Detto e fatto, essendo mia madre dipendente statale. Si aprono le praterie ad ogni desiderata, a partire da quella di farsi trasferire nella mia bella Toscana e qui trascorrere i miei anni, con l’annessa famiglia che nel frattempo si era formata. Oh, nessuno mi avrebbe chiesto il conto delle mie “intemperanze” giovanili. Bastava “adeguarsi”, anche “criticamente”, e soprattutto non rompere i cosiddetti…
Ed è qui che, riprendendo il racconto di Luigi, mi trovo anche io di fronte al “primo grosso bivio”. Anzi: a due bivi in uno. L’università mi va “stretta”. Non sopporto quel clima servile che fa a pugni con le mie scelte. Esse si incardinano attorno a due punti fermi: la funzione “salvifica” della classe operaia come soggetto che “liberando sé stessa libera tutta l’umanità” (Marx); e la funzione catartica della sua “testa pensante”, il Partito.
Decido dunque di mollare il posticino statale e di andare in una grossa fabbrica, dove vi è ancora il “cuore pulsante” della lotta. Ed è Breda Fucine di Sesto S. Giovanni. Allo stesso tempo, pur lavorando politicamente per il Partito, decido di farlo dal versante degli sfruttati, non da quello dei “rivoluzionari di professione” (Lenin). Questo mi ha dato, riprendendo la narrazione di Luigi, la mia “autonomia e libertà interiore”. Da quando ho toccato con mano l’incongruenza tra ciò che si vuole essere e ciò che si è, ho ritenuto che l’”uscita di sicurezza” stesse nel posizionare il proprio baricentro nei “bassifondi” (altra opzione di Luigi, e credo di tutti voi PO).
Alla Breda conosco direttamente cos’è una “comunità operaia”. Ed ho una stupenda conferma di non aver tutto sommato preso lucciole per lanterne. Nel frattempo posso riposizionare criticamente certi assiomi politici che non avevano futuro. Ad esempio: non era affatto vero che gli operai stessero lì ad aspettare che qualcuno gli portasse “la linea”. I momenti di scoraggiamento (“chi me l’ha fatto fare?”) come quelli che richiama Luigi sono stati numerosi. Ma la risposta è sempre venuta dal “fare”. Fare qualcosa per non soggiacere alla logica del profitto e dello sfruttamento. E ciò dentro il mutamento, dentro i mutamenti economici, politici, dei rapporti tra le classi e le nazioni sia a livello locale che globale.
Dalla politica avevo acquisito la facoltà di discernere tra spontaneità e coscienza, tra gli alti e i bassi della lotta, tra uno sciopero e una rivoluzione, tra chi ti è veramente amico e chi invece fa l’amico per meglio fregarti. Col dilettantismo non si va da nessuna parte. Così come non si va da nessuna parte con la protervia e l’autoreferenzialità.
“Condivisione della condizione”, “semplicità dei rapporti interpersonali”, “semplicità del linguaggio” (Luigi)… Parti preziose di un tutto, alle quali vorrei aggiungere la conquista della fiducia dei tuoi compagni di lavoro. Non provenendo essa da apriorismi ideologici, è per certi versi ancora più gradita. E la fiducia si dà in primo luogo alla persona, solo in seguito anche ai programmi politici. Per questo motivo ho imparato a capire, a mie spese, che se proponi un profilo “alto” di società devi tu per primo essere una persona “alta”: non meschina, o prepotente, o furbastra.
Una bella sfida. Come quella dei “compagni”. Già: “dividere il pane secondo giustizia”. Il pane, non il veleno. Non l’indifferenza. Non la “posura”. Non l’ipocrisia. Anche l’ambiente operaio non era scevro da simili contraddizioni. Inutile nasconderselo. Ma ricordo che aveva in sé degli anticorpi in grado di limitare i danni. E riscattava con la sua dignità sociale i bacilli borghesi che comunque si allignavano nel suo corpo.
Numerosi sono gli episodi che potrei raccontare. Non eri visto come un “concorrente”, ma come un compagno di fatica e di sventura, al quale porgere, magari rudemente, la mano. Certo, ora è altra musica. Ho constatato, anche qui a mie spese, cosa significa un ciclo che “monta” e poi inesorabilmente decade.
Però ci andrei piano da dedurne che il discorso di classe oggi sia tramontato. Nuove emergenze sono salite in primo piano: quella ambientale, quella di genere, quella delle migrazioni. Ma sono tutte comunque riconducibili ad una diffusione mai vista del mercato capitalistico; il quale sviluppandosi fa emergere allo stesso tempo, col suo dominio su ogni aspetto della vita, le sue intrinseche contraddizioni legate al massimo profitto. E “l’emergenza sociale” non si è affatto affievolita. Al contrario, si è rafforzata. Mai tante disuguaglianze. Mai tanti squilibri. Mai tanta violenza diffusa e multiforme. Mai tanta distruzione degli elementi basilari della vita.
Sarebbe allora perlomeno curioso che in un’epoca di massimo sviluppo di quello che una volta si chiamava “proletariato” (+274 milioni di salariati nel mondo dal 2008 al 2018 per un totale di 1,7 miliardi di persone; dati ILO, l’Agenzia per il Lavoro dell’ONU) proprio io – che ho speso la mia vita in questa direzione – mi mettessi ora a teorizzare la “scomparsa della classe operaia”!
Non a caso le rivolte che animano il periodo che stiamo vivendo (Algeria, Sudan, Cile, Ecuador, Haiti, Libano, Iraq, Iran, Hong Kong, Francia…), con tutte le “specificità” del caso, vedono però come dato comune l’irrompere sulla scena di masse di nuovi salariati, giovani, donne, disoccupati, senza casa, senza futuro, che reagiscono alla miseria crescente del capitale “globalizzato”. E lo fanno a costi elevatissimi (centinaia di morti, migliaia di feriti, arresti, torture).
Mancano certamente per ora dei “punti di riferimento” precisi, ma il trentennio liberista e guerrafondaio è preso a sonori schiaffoni; e le sirene “sovraniste” servono solo ad illudere che con la vecchia melma nazionalista gli sfruttati possano stare meglio. L’Italia, senile e stagnante, patisce le conseguenze di un quarantennio di ristrutturazione sociale e di obnubilamento politico; ma non sarebbe la prima volta che, alla fine, un grande “moto esterno” riesca a risvegliare facoltà ed energie “ad altre faccende affaccendate”. Non mancano certo le contraddizioni: a partire dal potenziale esplosivo delle migrazioni. Tutta manna dal cielo, che passa attraverso la terra ed il mare.
Scrive Luigi che noi siamo quelli “cresciuti negli anni della speranza”. Per questo motivo magari, mi sento di aggiungere, NON RIUSCIAMO A DIVENTARE SCETTICI. Certo, oggi di interlocutori della “rivoluzione sociale” è difficile trovarne. Diversi canoni di riferimento vanno riformulati: superando le mitologie, scavando in profondità ed affidandosi alla scuola della vita. Senza con questo rinnegare i fondamenti.
Luigi è andato in pensione “regolarmente”. A me, mio malgrado, è stata data la “facoltà” di fare come Ulisse: intravedere Itaca per poi essere ricacciato indietro dalla tempesta, “comandato” ad esplorare nuove isole quando i riflessi non sono più quelli di prima; e a volte ti viene il fiatone.
Così dalla grande fabbrica torni come precario in una piccola; poi – sempre come precario – di nuovo in una grande, per essere alfine messo alla porta come “indesiderato”. Finita? Nossignori. Non è mai finita. Carico-scarico-trasporto di pneumatici, tagliaerba, taglialegna. Con in mezzo un piccolo mondo di emarginati, giornalieri, migranti, rom, disoccupati, compagni di lotta, in un’ambiente che di lotte sociali e umane non vuole saperne.
Ho letto, tempo fa, due cose molto belle, tratte dalla sapienza ebraica. Cose che amo ripetermi mentalmente quando mi interrogo sui perché di ciò che sto vivendo. La prima dice (cito a memoria) che nulla di ciò che ti accade è dovuta al caso. La interpreto nel senso dell’onda lunga della vita, non nel senso che il caso non esista.
La seconda dice che ogni nome contempla l’essere della persona. Ecco, questo richiamo alla responsabilità personale mi sembra uno dei tratti più belli che emergono dal racconto di Luigi, che ho cercato di commentare…parlando di me stesso. Responsabilità che è un processo di maturazione fondante, in grado di dare energia positiva anche ad ogni progettualità politica e sociale. In fondo è un’opera di bilanciamento coerente tra il dire ed il fare, tra il sapere e l’essere:
Chi ha una sapienza superiore alle sue opere, a che cosa è simile? A un albero con molti rami ma poche radici. Appena viene il vento lo sradica e lo capovolge, come è detto: “sarà come un tamerisco nella steppa che non vede venire il bel tempo. Dimorerà in luoghi riarsi, nel deserto, una terra di salsedine in cui non abita nessuno”. Ma chi ha opere superiori alla sua sapienza a chi è simile? A un albero con pochi rami ma molte radici. Anche se venissero tutti i venti del mondo a soffiargli contro, non lo smuoverebbero da dove sta, come è detto: “sarà come un albero piantato lungo l’acqua che fino al torrente stende le sue radici, non si accorgerà quando viene la calura, ma le sue foglie rimarranno sempre Verdi. Nella stagione secca non si dovrà inquietare, perché non cesserà di fare frutto” (“Pirqè avot”, cap.III, n.17).
Forse, la “lunga traversata” ci è stata concessa come un’opportunità per essere pienamente degni di ciò che in gioventù abbiamo proclamato, e su cui abbiamo impegnato la vita.