Antologia di scritti di Don Cesare Sommariva
Un uomo d’argilla io sono
Fax n. 36, conclusione e introduzione. Leivi, 12 luglio 1994
[da: Dalla fondazione della città alla formazione dei costruttori, terza raccolta dei fax da San Roque, San Salvador, El Salvador, Centro America, 1993-1994, pagg. 1-4]
Hombre de barro soy– Dalla fondazione della città alla formazione dei costruttori: una storia che si sta costruendo.
C’è un canto salvadoregno che termina dicendo: “Hombre de barro soy”, “uomo di argilla io sono”. E in verità l’essere umano sembra composto di argilla, che può prendere forme diversissime. Infinite forme a seconda di come viene formato e si forma. Dall’essere umano uno si può aspettare di tutto, dalle cose più alte alle cose più basse. I campi di sterminio insegnano. Si tratta di decidere cosa vuol dire alto e basso.
Per me, alto significa il graduale cammino dalla dipendenza all’autonomia, consistente soprattutto nella capacità di ricerca della verità che rende liberi.
Per me, basso significa il graduale cammino verso la dipendenza, l’ubbidienza, la sudditanza.
Il primo cammino lo si percorre scoperchiando e affrontando i problemi.
Il secondo cammino lo si percorre evitando i problemi e cercando di affrontarli in maniera non vera. Il simbolo è il berlusconiano “non vedo, non odo; non parlo, non rompo”. In salvadoregno si dice: “no quiero tener problemas”.
In pratica i due cammini sono riassunti nella frase: chi vuol salvare la propria vita la perderà, chi la perde per causa della verità la ritrova.
In questo senso, quest’anno mi sono buttato nel dovere della formazione. Si trattava di non lasciare la formazione del “barro umano” solo agli altri.
Il “formare” è un’azione complessa. La Bibbia usa il verbo plasmare, che è l’azione del vasaio sulla creta che ruota per dare forma al vaso.
È un’azione individuale, non di massa. Uno per uno. Non in serie.
Terminai i fax dello scorso anno con le parole: dalla fondazione alla costruzione. Quest’anno mi sono reso conto che le parole erano errate. Ed ho cambiato in Dalla fondazione della città alla formazione dei costruttori. Questa è la frase che sintetizza il lavoro centrale dell’anno 1994.
Tre brevi cose, tra le mille, vorrei esprimervi: l’individuo; il nucleo; lo strumento più importante.
1. L’individuo
Esageratamente – mi rendo conto – io penso che non sono le organizzazioni che fanno la storia.
Io penso che la storia sia costruita da alcuni singoli che reagiscono alle oppressioni e alle situazioni senza paura di perdere la vita. Apparentemente questi sembrano sempre degli sconfitti, ma in realtà la storia dei singoli gruppi e comunità dipende da alcuni pochi che reagiscono in modo differente da coloro che si limitano a voler sopravvivere.
So che questa è una visione parziale. È solo un polo della situazione. Però è su questo polo che in tutta la vita io ho lavorato. La formazione puntava perciò a formare persone adulte, mature, responsabili, spirituali.
Non spiego ora questi termini che hanno significati diversi.
2. Il nucleo
Io non credo che tutti gli umani siano uguali. Perché la nostra caratteristica essenziale è proprio di essere individuali e diversi. Ma l’individualità e la diversità non sono dovute soltanto alle qualità che ci capita di avere alla nascita. Dipendono altrettanto dalla misura nella quale abbiamo potuto liberamente svilupparci.
Vi è un nucleo essenziale del nostro essere, che godendo di questa libertà sorge e si sviluppa (quasi come il nascere) e che ci libera e ci separa da influenze interne ed esterne, e in seguito determina la nostra condotta e il nostro sviluppo morale. Io penso che, nel senso più profondo, la nostra personalità esiste e sia valida quando, a qualunque età, cominciamo a essere padroni e progressivamente responsabili delle nostre azioni.
La moralità sociale dipende dalla capacità di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta fondamentale fra il giusto e l’ingiusto.
Questa capacità deriva da questo famoso nucleo, che è l’essenza della persona umana. Questa essenza, tuttavia, non può sorgere né esistere in un vuoto. È profondamente vulnerabile e profondamente dipendente dalle relazioni. E questo è la prova della nostra interdipendenza e della nostra responsabilità reciproca.
In questo senso parlavo del dovere della formazione ed in questo senso avevo scritto il Bereshit.
3. Lo strumento più importante
Nella formazione, gli strumenti sono innumerevoli. Alla San Roque sono stati gli spazi fisici, un progetto e un programma d’azione, un metodo preciso e alcune tecniche, un modello di coordinamento non circolare né piramidale, bensì dialettico (le due cause).
Queste cose esigono una disciplina dei sentimenti e un ordine della mente, per cui occorrevano strumenti adeguati.
Per la disciplina dei sentimenti erano necessari tutti gli strumenti del combattimento spirituale.
Per l’ordine della mente erano necessari altri strumenti per cui ho fatto l’università popolare.
In questa università popolare qual è stato lo strumento principale?
Per quello che ho osservato, gli strumenti sono stati quattro, di cui il principale è stato diverso a seconda delle persone.
Il primo strumento è stato il porli davanti alla decisione fra due contrari:
ossia, le cose le conosciamo perché le leggiamo sul giornale o sui libri o le ascoltiamo da uno che ha studiato; oppure le conosciamo perché ci siamo messi in moto per cambiarle, per cui siamo nelle condizioni di farci noi una opinione diretta attraverso una riflessione (ipotetica) su ciò che stiamo facendo?
Ossia, l’io come soggetto della conoscenza.
Il secondo strumento è stata la prima materia dell’università popolare: l’epistemologia, ossia la teoria della conoscenza. Il punto principale di questo, quello che è stato maggiormente utile nella lotta contro le tenebre, è stato il come dare il nome alle cose. Ossia, la “parola” come nome che do alle cose, ai gruppi omogenei, che faccio in base al nesso causale unificatore passato e futuro. Il primo inganno è dare il nome errato alle cose. È stato facile l’esempio, perché lì i nomi sono terribili. Le bocciature, per esempio, le chiamano diserzione scolastica.
Dare la parola, in questo significato profondo che è il nomare, dare il nome…
Il terzo strumento è stato lo schema “circolare’ (cfr. Martinotti). Questo è stato accolto ed usato con particolare curiosità, interesse, entusiasmo.
Lo schema circolare, con in mezzo la frase centrale e ai quattro punti cardinali gli aspetti principali. Questo ha migliorato molto la comunicazione, nel senso che, ad ogni comunicazione di un gruppo o di una persona, io facevo costruire agli altri lo schema circolare di ciò che avevano ascoltato e lo facevo confrontare con lo schema circolare che il comunicante aveva costruito.
Il quarto strumento è stato una struttura di ferro colorata, una specie di cavalletto, grande come una TV, in cui appendere 15 cartellette a sospensione per fare il loro archivio.
Conclusione
Questa fondazione della città più formazione dei costruttori sta dando a tutto il complesso il senso che si sta costruendo una storia. Ed è questo il senso che tutti stanno percependo di questa vicenda: che si sta costruendo una storia nuova.
Il prossimo anno potremo verificarlo.
Fino al midollo delle ossa
Fax n. 31, introduzione e conclusione. Miami, 5 giugno 1995
[da: Hasta la medula de los huesos (fino al midollo delle ossa), quarta raccolta dei fax da San Roque, San Salvador, El Salvador, Centro America, 1994-1995, pag. 5-8]
Non so davvero che “nome” dare, che titolo porre alla fine ed all’inizio dei fax 1994-1995.
Quest’anno la vicenda è esplosa, ad un certo punto mi è sembrato vedere il fungo dell’atomica.
Ieri abbiamo fatto la riunione numero 46 del consiglio parrocchiale di pastorale. È il momento di incontro di tutti e cinque gli equipo di settore, con i coordinatori di tutti i gruppi di settore, che si fa alla prima domenica del mese.
Era anche il momento della despedída, cioè del distacco. La bienvenida e la despedida sono due “rituali sociali” salvadoregni che incanalano i sentimenti nei due momenti in cui uno arriva o parte.
Era un momento atteso e preparato. Non dar spazio ai sentimenti, che ci avrebbero travolti, ma sublimarli in un atto di “intelligenza” collettiva per renderci conto dei cammino di questi 5 anni. Ognuno dei cinque settori aveva preparato la sintesi della sua storia, in una pagina divisa in cinque anni, con un titolo per ogni anno. Alla fine la sintesi fatta da me, con il titolo: “Dall’altra parte del fiume Giordano”, “Mas allà del Rio Jordan”.
Mano a mano che procedeva la lettura, con un canto appropriato per ogni settore, ci si dava conto dell’immensità di ciò che era accaduto.
Dopo i primi anni della fondazione della città nella città, con leggi proprie, dopo la preparazione dei costruttori attraverso
• l’adesione a valori e ideali comuni,
• l’accettazione di camminare per cammini sconosciuti,
• la scelta di azioni molto concrete e riflettute,
• il parlare un linguaggio comune,
• con una stessa metodologia ed epistemologia,
• il celebrare ideali, cammino, azioni, con riti significativi,
• il darci un ritmo relazionale con molta prospettiva,
ad un certo punto è avvenuta la rottura dell’isolamento.
Con il sorgere delle 43 comunità territoriali si è rotto l’isolamento orizzontale. Migliaia di persone hanno incominciato a parlarsi seriamente. Dall’“appartamento” al cammino, da massa a popolo che incomincia ad essere produttore di idee e di destino.
È stata una esplosione, come il fungo atomico. Che non era la rottura dell’isolamento dovuta ad una necessità materiale, come quando c’era stato il terremoto, quando la disgrazia unisce. Era qualcosa di diverso e che io non avevo mai visto e nessuno aveva visto.
L’ultimo fenomeno di questa rottura di isolamento era avvenuta nella mattina dello stesso giorno: la rottura dell’isolamento verticale, generazionale. L’inaugurazione della non ancora terminata casa di formazione giovanile “Cana”.
Circa 150 giovani circondati da una folla innumerevole di adulti. L’invito dato era: gli adulti non devono lasciare i giovani in mano alla distruzione. È tempo che gli adulti inizino una nuova relazione con i giovani per non lasciarseli portar via. Il messaggio era stato capito, accettato, trasmesso.
Quando gli adulti del popolo aprono gli occhi, rompono la paralisi, sciolgono la lingua in cose serie, progettate, programmate in un cammino, allora rompono tutti gli argini. Le televisioni si spengono nelle case e inizia una nuova vita.
Da massa impoverita, oppressa, confusa, dimenticata (queste sono le 4 parole usate, che non sono aggettivi ma participi passivi) a popolo che si alza e cammina. È la visione di Ezechiele della valle delle ossa morte che cominciano a muoversi, unirsi, ricoprirsi di carne e pelle, e rivivono per un nuovo spirito.
Un fenomeno grandioso che ammutolisce chi lo vede, perché non vi sono parole nel linguaggio corrente che possano esprimere. È un poco come quando in una manifestazione vedi i vari spezzoni del corteo, che vengono da parti diverse, che si accorpano. Ti manca il fiato e il canto comune esce a voce alta. Qui però non era una manifestazione che finisce, ma un fenomeno territoriale che cresce ogni giorno.
Mi son rifatto nella mente per l’ennesima volta la lista degli ingredienti che avevo messo in questo cammino e che più volte ho descritto nel fax di quest’anno e degli anni passati.
Avevo inventato anche il termine catalizzatore ed altri termini che avevo preso da un discorso di Martin Luther King: la città nuova deve avere le tre dimensioni uguali: larghezza, lunghezza, altezza. Che la Montefoschi chiama tripolarità, che in altre parole noi avevamo chiamato con le tre parole, maturo, responsabile, spirituale.
Pensavo di mettere uno di questi titoli: la crescita di un popolo, le tre dimensioni degli umani della nuova città, o cose del genere. Alla fine però della despedida, così repressiva dei sentimenti, molte persone si sono avvicinate dandomi delle lettere in cui faticosamente avevano scritto ciò che avevano vissuto in questi anni. Tutte lettere da far accapponare la pelle, con i brividi che scendono lungo la spina dorsale e l’acqua salata che inonda gli occhi.
Mi colpisce soprattutto una, datami da una delle donne più oppresse e tormentate da un succedersi di disgrazie, sempre “uccisa” e sempre risorgente. Una venditrice di “prodotti”… Non è traducibile e ve la fotocopio a parte per chi la desidera. È la lettera che mi ha dato la chiave per entrare nel “segreto” di questa esplosione. Ha due disegni ed usa parole semplici che risuonano. Per noi il linguaggio è inusato, cancellato dal linguaggio comune. La “città a una dimensione” non permette linguaggi significanti. Ne traduco alcuni brani fotocopiando i due disegni in piccolo:
Oggi, che tu te ne vai, ricordo che in una riunione del 1990 tu ti sei messo in ginocchio sul pavimento e vi hai disegnato questo:
Ora capisco perché, dopo tutto il resto, era così necessaria la profondità. Il luogo dove adorare Dio, che noi cercavamo di costruire in Marta 1 e Marta 2 ho capito che è dentro di me, come una fonte di acqua viva, dalla quale trarre energia, nonostante la mia miseria e fregatura.
L’altro disegno che ricorda il bere al proprio pozzo:
Tu te ne vai, ma ci lasci lo spirito di vita rimosso e desempolvado, perché in ogni incontro che abbiamo fatto i nostri cuori ardevano ed io ne sono stata scossa hasta la medula de los huesos, fino al midollo delle ossa.
Sì, è questo il titolo che voglio dare a questa raccolta di fax, in cui ho balbettato, con un linguaggio che ho cercato di tradurre per voi, quello che ho visto e vissuto.
Ricordo Gramsci che scriveva: “le masse popolari sono quelle che più difficilmente mutano le concezioni del mondo. In ogni caso non le mutano mai accettandole nella forma pura, ma e sempre come combinazione più o meno fatta di vari pezzi e bizzarra. E la forma razionale, logicamente coerente, è ben lontana dall’essere decisiva”.
Che fa muovere la persona non è una concezione coerente del mondo, ma altri motivi non ancora bene conosciuti e nominati. Quando si mettono in movimento gruppi di popolo, la ragione certo diventa uno strumento indispensabile e l’intellettuale deve porsi al servizio per… eccetera.
Però la chiave del vero “muoversi, unirsi, rivivere” è dentro il midollo delle ossa. “Me sacudió hasta la medula de los huesos”. Il verbo “sacudir” è quello che i salvadoregni usano per esprimere il movimento che il terremoto imprime alla terra e alle case.
“Adesso so che niente e nessuno, nada ni nadie, puede matarme”.