Sguardi e voci dalla stiva
Pedagogia con i giovani
“Presidente, monotono è aspettare che arrivi una telefonata dopo aver sostenuto 25 colloqui in un anno”. E’ una reazione, tra le tante, che viene dalla larga platea di giovani in cerca di occupazione alla dichiarazione ‘pedagogica’ loro diretta dal senatore Monti: “Si abituino all’idea di non avere più il posto fisso a vita. E poi, diciamolo, che monotonia. E’ bello cambiare e accettare le sfide”. Distanza siderale tra mondi lontani! E’ come se a un gruppo di persone denutrite, e senza cibo, si facesse una lezione sui rischi del colesterolo alto. E’ anche vero che, estratta dal suo contesto, la frase viene assolutizzata, ma come la può prendere chi nella sua vita non ha mai conosciuto un lavoro sicuro o quelli che ormai hanno smesso di cercarlo?
Sembrava un errore pedagogico subito rientrato e invece ecco nuove uscite di esponenti del governo, ad esempio quella della ministra degli interni Cancellieri: “gli italiani sono fermi mentalmente al posto fisso, magari nella stessa città, accanto a mamma e papà”. E’ strano che azzardi tali giudizi universali quando lì vicino a lei, un’indagine recente elaborata dall’Isfol con il dipartimento demografico della Sapienza di Roma ha diramato i seguenti risultati: “il 72 per cento dei giovani tra i 20 e 34 anni è disponibile a spostarsi pur di trovare lavoro. Il 17 per cento mette in conto di vivere in un altro paese europeo, quasi il 10 per cento è disposto anche a cambiar continente”. Altre ricerche confermano la tendenza. Dai dati dello Svimetz, dell’Istat e di Almalaurea risulta che “le resistenze a cambiare città o regione sono basse, specialmente in presenza di un titolo di studio elevato. E il cambio di mentalità è generalizzato, riguarda sia il Nord che il Sud, sia i maschi che le femmine”. In conclusione: “gli italiani, i giovani soprattutto, vanno a cercare il lavoro dove c’è. Il guaio è che non lo trovano”. Ogni anno 60 mila laureati si spostano dal sud al nord in cerca di un posto. (Luisa Grion in La Repubblica 7 febbraio). Allora Ministra: ritorniamo ancora ai vecchi trucchi? Il primo dovere di chi governa è non raccontare storie ai cittadini, tanto meno colpevolizzarli in maniera gratuita.
Giustamente Barbara Spinelli scrive: “Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l’esistente…Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. E’ il dopo che interessa, e il dopo resta nell’ombra. E’ il che fare, e del che fare poco sappiamo”. Chi governa non può ignorare che senza un lavoro o con un lavoro precario, tutta la vita diventa precaria.
Tutti gli italiani a scuola
Nella trasmissione di lunedì 26 marzo de l’Infedele condotto da Gad Lerner, ha trovato conferma l’insistito comportamento didascalico di Monti a proposito dello svuotamento dell’art. 18 che oltre che rassicurare “gli investitori” avrebbe una funzione didattica nei confronti del popolo italiano. Di fronte al lamento e alla minaccia del Presidente del Consiglio materializzati nella lontana Seul : “il paese non è pronto e se è così lui è pronto a lasciare”, giustamente Enzo Mauro direttore di La Repubblica faceva notare che “non siamo a scuola e non tocca ancora ai governi dare il voto ai cittadini: semmai l’opposto”. Sembra che la mission dei professori, oltre che quella di salvare l’Italia, sia anche quella di insegnare agli italiani come si fa a vivere, cioè a vivere da perfetti neoliberisti. Vale la pena di citare il comico Crozza quando, riferendosi alla ministra dell’interno che ha denunciato 7 milioni di euro, quale reddito annuo, si domandava: “Ma come fa a capire che cosa significa per la gente comune pagare la benzina 2 euro al litro?”. Il tema viene ripreso ne La Repubblica del 28 marzo da Barbara Spinelli che si rivolge direttamente a Monti: “Sostiene Monti che «se il paese non è pronto» lui se ne va, non sta aggrappato alla poltrona come i vecchi politici.
Ma lo vede, il Paese? E sullo sfondo vede davvero l’Europa, come promette, o percepisce solo l’austerità sollecitata in agosto dall’Unione? In realtà l’Italia sarebbe più che pronta, se solo le si dicesse la direzione in cui si va, l’Europa diversa che si vuol costruire, le democrazia da rifondare a casa ma anche fuori : lì dove si sta decidendo, ben poco democraticamente, la mutazione delle nostre economie, delle nostre tutele sociali, del lavoro”.
L’amara verità
Nel mondo ci sono oltre 205 milioni di persone senza lavoro, 75 milioni dei quali sono giovani. “Il 55 per cento dell’aumento della disoccupazione globale tra il 2007 e il 2010 è avvenuto nella parte ‘ricca’ del pianeta”. La crisi ha solo fatto esplodere una dinamica interna a questo sistema economico-finanziario: “i paesi industrializzati non riescono a creare posti di lavoro quanto sarebbe necessario per dare a tutti i cittadini una prospettiva di vita attiva e dignitosa”. Il mantra che viene ripetuto ossessivamente è la parola crescita. Solo con la crescita vi saranno nuovi posti di lavoro, si dice. Ma non è vero. Almeno secondo recenti studi dell’Ocse e dell’Organizzazione Internazionale del lavoro: “Anche una crescita più sostenuta non creerebbe i posti di lavoro necessari…«E’ più facile creare ricchezza che creare lavoro»” (Marco Panara in La Repubblica Affari e Finanza 6 febbraio ).
Nel nostro paese le cose vanno peggio che in altri perché, negli ultimi anni, l’Italia ha ridotto la capacità di esportare per la mancata innovazione (perdita di quasi 15 punti, mentre la Germania ha quasi raddoppiato). I profitti invece che essere reinvestiti hanno preso la via dei circuiti finanziari e speculativi. Inoltre, l’allargamento della forbice tra redditi alti e bassi e il notevole incremento della povertà, hanno indotto la riduzione della domanda di beni e servizi. Secondo i recenti dati dell’Eurostat, l’Ufficio statistico della UE, gli italiani a rischio di povertà ed esclusione sociale sono quasi 15 milioni, circa il 24 per cento della popolazione.
Condizioni per una ripresa possibile
Segnalo due punti recentemente indicati da Valerio Onida in un recente convegno tenuto a Mantova:
la necessaria transizione dall’Europa monetaria ad una vera politica europea;
e inoltre, l’adozione di una politica che si riscatti dalla subalternità ai potentati economici, diventando una pratica che assuma davvero il compito di cercare e realizzare il bene comune, cioè di tutti.
Soprattutto, però vi è una malattia di cui occorre prendere coscienza per combatterla e che paralizza a livello culturale e politico. La malattia si chiama Tina: there is no alternative. Non ci sono alternative. E’ la pressione alla rassegnazione, lo spegnimento di ogni speranza. Panikkar così la descrive:
“Quando si dice che è necessario cambiare i parametri costitutivi della società contemporanea gli occidentali si sentono spiazzati e diventano più fatalisti degli orientali”.
E si può pure aggiungere l’osservazione del teologo latino-americano Hugo Hasmann:
Il capitalismo è realmente una «cultura». Su ciò i cristiani dovrebbero riflettere molto. Non si tratta di mere questioni economiche. La distruttività si è insediata nella coscienza e nelle forme di comunicazione della cultura”.
Roberto Fiorini