Se non ora, quando?
La Bibbia racconta che tutto iniziò quando Mosè per convincere il Faraone che le sue parole venivano da Dio, buttò per terra il suo bastone e questo si trasformò in serpente. Il Faraone dunque chiamò i suoi maghi che ripeterono l’incantesimo; ma, a prova della superiorità del Dio di Mosè, il serpente del patriarca mangiò i serpenti dei maghi di Faraone [Es. 7,8-12]. L’aspetto riguardante il “bastone magico” ha poi generato molte leggende creando un proprio filone.
Il “serpente” invece ritorna nella Bibbia, quando Mosè, incattivito dall’infedeltà del popolo per cui ha penato tanto, manda dei serpenti velenosi a uccidere i peccatori. Impietosito e pentito del suo accesso d’ira, forgia un serpente di bronzo: chiunque, morsicato dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso il serpente di Mosè [Numeri 21,4-9].
Col passare degli anni però il serpente diventa un idolo e né i sacerdoti, né i re, né i profeti riescono a sradicarne il culto (cfr. voce “Nehustan” in Wikipedia).
Solo re Ezechia di Giuda (716 a.C. – 687 a.C.), con gran coraggio, “eliminò i santuari sulle colline, fece sparire le stele, tagliò il palo sacro della dea Asera e fece a pezzi il serpente dì bronzo costruito da Mosé. Fino a quel momento gli Israeliti avevano sempre offerto incenso a quel serpente, che era stato chiamato Nehustan” (2Re18, 1-4). La deriva idolatrica del “Serpente di Mosé” disegna un percorso che si ripete e si ritrova nella stratificazione dei simboli che — col tempo — acquistano identità e vita propria fino a dismettere ogni funzione di segno indicatore di una realtà ulteriore per adagiarsi nell’assoluto del valore in sé. A prescindere dal fatto che per molto tempo si è creduto che la scultura in bronzo posta su una colonna antico-romana all’interno della Basilica di S. Ambrogio a Milano fosse quella originaria di Mosé, scampata all’ira iconoclasta del re Ezechia, ancor oggi a quel serpente (dono dell’imperatore Basilio II all’arcivescovo Arnolfo intorno all’anno 1000) si indirizzano preghiere per scacciare alcuni tipi di malanni e si dice che la fine del mondo verrà preannunciata dalla sua discesa da questa colonna sulla quale è accoccolato.
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Una pura coincidenza mi ha portato a rileggere questa parte dell’Antico Testamento nei giorni in cui alcune iniziative stanno riproponendo all’attenzione pubblica qui a Viareggio la strage della notte del 29 giugno scorso, quando un vagone pieno di GPL, a seguito di un deragliamento dovuto alla rottura di un asse, ha rilasciato il carico micidiale subito incendiatosi avvolgendo in un immane rogo le case lungo la linea ferroviaria nei pressi della stazione e facendo 32 vittime e un doloroso strascico di feriti ancora ricoverati in ospedale.
Da subito, la città ferita levò alta la croce del dolore, della pietà per le vittime, della speranza di non essere più costretta a piangere, per umane responsabilità, la morte di persone innocenti.
Più di nove mesi sono passati e la situazione è stata drammaticamente riproposta da uno striscione dal contenuto lapidario: “Strage di Viareggio: dopo nove mesi 32 a 0”. Dove 32 sono le vittime e 0 gli indagati. Ancora la procura di Lucca annaspa tra le rogatorie internazionali in un complesso intreccio che vede sulla rete ferroviaria italiana, muoversi carri revisionati in officine polacche, di proprietà di multinazionali a capitale anche nordamericano, facenti capo a società con sede in Germania. Ma fin dai primi giorni apparve chiara la debolezza dell’impianto della giustizia nel nostro paese di fronte al potere politico sovrastato da ben più alti e vasti interessi. I binari su cui viaggiava la “cisterna della morte”, la cisterna stessa e l’ambito della sede ferroviaria in cui avvenne il deragliamento del treno, furono posti sotto sequestro giudiziario per soli due giorni. Praticamente il tempo di svuotare le altre cisterne deragliate ma rimaste integre, sistemare di nuovo i binari e far ripartire il traffico ferroviario. Non si poteva, come affermò il ministro dei Trasporti Matteoli, far rimanere l’Italia tagliata in due! E questa frase, sbattuta in faccia a un rassegnato procuratore della repubblica la dice lunga su quanto poco contano 32 vite umane la cui richiesta di giustizia è stata bruciata sull’altare dell’idolo crudele dell’efficienza. Al contrario, tutta la zona abitata, colpita dall’esplosione del gas fuoriuscito dalla cisterna deragliata con altre e tranciata nell’impatto prolungato con il terreno, è stata posta sotto sequestro giudiziario fino a poche settimane fa, in un avvilente prolungato rimbalzo di responsabilità tra gli Enti pubblici preposti alla rifusione dei danni e alla ricostruzione. Efficienza a due velocità!
Così la croce levata alta da Viareggio rischia di essere già un ricordo ingessato nel passato, un serpente di fuoco nella notte che evoca paura, ma insieme anche la voglia di fuggire, di dimenticare, di lasciarsi alle spalle quella vicenda terribile. “Viareggio, risorgi!” era scritto su un lenzuolo portato allo stadio per i funerali di Stato. “Viareggio non dimentica!”. Ora, quelle scritte rischiano di essere fagocitate da una storia — quella attuale — senza memoria e senza consapevolezza se non quella della accettazione passiva della disgrazia.
Quando Gesù si richiama alla figura del Nehustan per far capire che sarebbe morto su una croce (vedi Gv. 12, 30 e ss.) afferma con forza che “quella condanna ingiusta ad un morire atroce non è la volontà seppure misteriosa di Dio su Gesù e sull’uomo: la croce dice la capacità tragica dell’uomo di dare e di darsi la morte, davanti alla quale però sta la volontà di vita di Dio” (A. Ruberti).
E per scorgere i segni di una speranza possibile occorre ripartire dal crocefisso, dai crocefissi della storia, di quella notte della estate scorsa. Ripartire dalle vittime, come se fossimo ancora avvolti da quella notte. Ascoltando e ri-ascoltando i racconti dei sopravvissuti, dei familiari delle persone morte che si fa rabbia, pianto, disperazione e insieme sorpresa di una ritessitura di legami che prende vita proprio lì, ai piedi della loro tremenda croce.
Una compassione, un prendersi cura gli uni degli altri che genera energia e impedisce la chiusura di ogni orizzonte. Là dove il serpente non diventa idolo che dispensa magiche guarigioni, ma segno del volto di un Dio che non vuole la croce, ma la assume su di sé ed è il primo compagno sotto le croci delle nostre esistenze. Perché anche noi facciamo altrettanto.
Luigi Sonnenfeld