Il vangelo nel tempo



Terza meditazione sulla pace
di Giordano Remondi, monaco di Camaldoli

In questo breve ciclo di meditazioni sulla pace, che in questo numero si conclude, lo scopo principale è stato quello di riconoscere l’eccedenza della pace di Cristo, per diventare una Chiesa testimone di pace nel mondo in maniera credibile, non con fughe utopiche fuori del tempo o, all’opposto, con ideali separati dai mezzi.
Abbiamo visto come, secondo la tradizione paolina, Cristo è la nostra pace già sul legno della croce. Ora dovremo soffermarci, in un primo momento, sulla tradizione giovannea, secondo la quale il Signore risorto dona quello shalom che è la stabile presenza dello Spirito Santo in noi, in qualunque situazione di conflittualità ci possiamo trovare, mentre, in un secondo momento, ci rivolgeremo alla tradizione sinottica, lucana in particolare, per vivere la beatitudine della mitezza praticata da Gesù stesso, modello per noi.


Il dono stabile dello shalom pasquale nella tradizione giovannea

[20,19] La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. [20] Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. [21] Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. [22] Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; [23] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

“Pace a voi” risuona per ben due volte per i discepoli paralizzati dalla paura il primo giorno dopo il sabato. La sorpresa è duplice: il Risorto è il Crocifisso, che passa in mezzo alle porte chiuse e prende l’iniziativa di mostrare le mani e il co­stato. “Che i discepoli debbano vedere vivo il Crocifisso ha un significato permanente per tutti i discepoli di ogni tempo” (U. Wilckens, Vangelo secondo Giovanni, Paideia 2002). È Lui che fa vedere come su quel corpo incorrotto restano i segni della trafittura proprio mentre dona la pace, che non è tanto il saluto benedicente, quanto piuttosto il simbolo della volontà divina di stare per sempre in mezzo al suo popolo . Questa è la “alleanza di pace” attesa dai profeti con l’arrivo del Messia: lo shalom è il frutto del transitus pasquale del Figlio, unitamente al dono dello Spirito per la remissione dei peccati:

Secondo le promesse nei discorsi d’addio, Gesù doveva, dopo la partenza, ritornare presso i suoi, essere visto da loro e comunicare loro lo Spirito Santo. Il Figlio ha compiuto il proprio itinerario terreno, ma il frutto che ne è venuto non è stato ancora ricevuto da coloro che sono chiamati a vivere la sua vita e ad essere nel mondo la continuazione della sua presenza” (X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, San Pao­lo, 1998, vol. 4, p. 293. – Rielaboro liberamente alcuni spunti tratti da questo commento).

Ed è proprio della pace che Gesù, nei discorsi d’addio, aveva parlato come stabilità in due passi:

[14.27] Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore .
[16.33] Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo .

In entrambi i passi che chiudono, rispettivamente, il primo e il terzo discorso d’addio, c’è una pace “a caro prezzo”, in quanto vissuta in mezzo a contrasti e ostilità, ma in contesti diversi: l’evangelista si riferisce, nel primo, al dono lasciato in eredità da Gesù, mentre, nel secondo, alla difficoltà dei discepoli di perseverare quando arriva la tribolazione. Per comprendere meglio, commento i due versetti nell’ordine inverso.
I discepoli incontrano molte resistenze nella missione, come Gesù in vita. Giovanni e le sue comunità ripensano a fondo la tradizione dopo la fine catastrofica di Gerusalemme del 70, che, ricordiamo, provoca le conseguenti dispute violente tra cristiani e giudei e atti di inimicizia tra i cristiani della duplice provenienza. Allora, la “tribolazione” di Gv 16,33 è costituita dall’ostilità del mondo incredulo, per cui i discepoli si disperdono rinunciando a testimoniare Cristo, com’è accaduto durante la passione quando lo lasciarono solo (ne parla il versetto precedente). Il mondo incredulo è quello del potere teocratico giudaico, che ha accusato Gesù di bestemmia e che, come’è narrato soltanto nel vangelo di Giovanni, durante il processo interferisce nei confronti del potere politico per poter condannare Gesù alla croce, che, come sappiamo, era la pena capitale più infamante riservata ad un sobillatore politico.
Qual è dunque l’esortazione per i discepoli, che hanno ricevuto lo shalom come frutto della vittoria pasquale del Figlio di Dio sulla morte e sul suo potere disgregante? L’espressione “(restando) in me avrete pace” vuol dire che nel fare pasqua con Cristo si troverà l’integrità interiore necessaria per perseverare durante la tribolazione del tempo presente. Il coraggio della fede a cui invita il testo è altro dall’ottimismo di maniera: è un lasciarsi cambiare profondamente la mentalità del diventare testimoni. Non è dunque un’armonia limitata all’interiorità, in quanto essa si riversa in ogni tipo di relazione. Questo è lo shalom, sofferto in vista di una comunione sempre più larga.
Non dissimile il contenuto del passo di Gv 14,27, che è molto più noto perché ripreso dall’invocazione della pace nella Messa prima del canto dell’ Agnus Dei . Cambia però il contesto: la pace, lasciataci da Gesù in eredità già nel tempo presente, non è quella del mondo, qui inteso come mondo politico. Non è la pax romana imposta da un trattato! Giovanni pone lo shalom di Cristo “in voluta antitesi con la pace di cui l’impero romano, sotto il dominio dell’imperatore, ha fatto il suo motto centrale”[1]. In positivo, lo shalom donatoci è la stabile presenza di Cristo in noi mediataci dallo Spirito Santo (citato nel precedente v. 26).
Quale indicazione ne consegue per vivere la pace non come la dà il mondo? Solo come scintilla del riposo eterno, seguendo la scritta posta sull’in­gresso dei cimiteri? O non è piuttosto quella pace il dono permanente che hanno testimoniato Benedetto e Francesco, capifila di altri santi più o meno conosciuti? La pax dei monasteri benedettini nasceva dalla vita comune ove era cercata l’armonia tra diverse mentalità. La pax francescana era offerta quale riconciliazione dove c’era conflitto nelle città. Negli ultimi secoli la pace si è rivestita di compassione o solidarietà con le vittime, soprattutto dove massima è stata la violenza subita per le guerre di ogni genere.

La tradizione lucana: dalla “via della pace” scelta da Gesù
al “vangelo della pace” della missione ecclesiale

Come si nota nel sottotitolo, cercherò di mettere in relazione le scelte di Gesù sulla pace con la missione della Chiesa proposta da Luca, il cui percorso è scandito in varie tappe: inizia con la “pace angelica” di Lc 2,14 e finisce con la “buona novella della pace” di At 10,36, passando per il “figlio di pace” nella missione ( Lc 10,6) e la “via della pace” ( Lc 1,79 e Lc 19,42), che è incompresa da Gerusalemme, mentre i discepoli (non la folla in Luca!) lo acclamano “re della pace” in cielo e in terra durante l’ingresso messianico.
E proprio per valutare le scelte di Gesù bisogna notare che subito dopo tale ingresso c’è nel vangelo di Luca il pianto di Gesù sulla città, perché non conosce la via della salvezza/pace ( Lc 19,28-44). La “via della pace” è un’espressione che si trova anche nel Cantico di Zaccaria , negli ultimi versetti ( Lc 1,77-79) ed è intesa come il terzo compito del Messia in terra, intimamente legato ad altri due: il perdono dei peccati, quale origine della salvezza, e la luce per chi brancola nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Con questo rimando parallelo, potremmo dire che la potenza traboccante della misericordia divina perviene alla sua massima visibilità proprio nel far abitare sulla terra la pace (vedi il Gloria angelico di Lc 2,14) [2], cosa che tuttavia non è riconosciuta dai potenti di quel tempo e dalle autorità religiose di Gerusalemme (Matteo, in piena sintonia con Luca, lo rende ancor più incisivo, mostrando la violenza di Erode sugli innocenti e la chiusura degli scribi e dei sacerdoti davanti ai Magi, i rappresentanti delle sapienze “ altre”). Allora il motivo del pianto di Gesù sulla sua città è la mancata apertura dei potenti di questo mondo, che non sono disponibili alla via inedita seguita da lui per offrire il regno di comunione e di pace.
C’è anche un altro testo che, nella versione lucana, presenta ritocchi decisivi che confermano la possibilità del rifiuto della pace durante la missione:

[10,1] Il Signore designò altri settantadue discepoli e li invitò a due a due innanzi a sé, in ogni città o luogo dov’egli stesso voleva andare. [2] E disse loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate, dunque, il padrone della messe di mandare operai nella sua messe. [3] Andate! Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. [4] Non portate né borsa, né bisaccia, né calzari e non salutate nessuno nel viaggio. [5] In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. [6] E se lì vi sarà un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi”.

Si tratta dell’invio missionario dei settantadue discepoli a tutte le genti, solo in parte simile a quello precedente dei Dodici al popolo d’Israele (cfr. Lc 9,1-7). La variante lucana riguarda proprio la scelta della pace intimamente connesso con l’annuncio del regno di Dio. Qualcuno potrebbe pensare che “Pace a questa casa” sia un saluto augurale, ma sarebbe poco adatto verso coloro che non erano ebrei. Poi c’è l’insistenza su chi è “figlio di pace” e su chi non lo è, che si comprende tenendo presente l’avvertenza lucana sull’an­nun­cio da fare in mezzo ad un mondo ostile (“Agnelli in mezzo a lupi”).
Allora ne consegue che presentarsi come testimoni di pace, indifesi e deboli, dovrebbe permettere l’apertura delle porte e superare la diffidenza o anche l’inimicizia. La disponibilità reciproca ad ospitarsi è dunque il segno di un possibile cambiamento di mentalità. L’apice di questa apertura si trova nell’apostolo Pietro il quale, dapprima, accoglie nella casa di Giaffa degli inviati del centurione romano Cornelio, di stanza a Cesarea, e in seguito entra nella casa di questi a mangiare (Era proibito non solo mangiare, ma entrare in contatto coi pagani, e ciò fu rimproverato subito a Pietro dai giudeo-cristiani di Gerusalemme ai quali dovrà giustificare la sua condotta raccontando la visione in cui lo Spirito gli aveva mostrato che “ non si deve dire profano o immondo nessun uomo”; At 10,28; cfr. At 11,1-18). Questa scelta è illuminata da un mirabile discorso di Pietro ai pagani timorati di Dio (cioè, già simpatizzanti per il giudaismo, ma non circoncisi), discorso che si trova in due delicati capitoli degli Atti degli Apostoli. A noi interessa tare il passo in cui il vangelo della pace/salvezza riguarda tutti i popoli:

[10,34] In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, [35] ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui gradito. [36] Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace (oppure: annunziando loro la pace ) per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti.

Si noti come sia necessario ricorrere alla terminologia del “vangelo della pace/sal­vezza” recata da Gesù Cristo, unico Signore di tutti, per avvicinare i giudeo-cristiani ai pagani e dare avvio alla convivenza, che, come sappiamo, non fu priva di contrasti.
Anche in Luca, dunque, come in Paolo, c’è omogeneità tra mezzi e fine: la pace scende sulla terra con Gesù, la cui via messianica “mite e pacifica”, pur ostacolata e alla fine non riconosciuta, è detta vangelo della pace da coloro che, mentre lo predicano e lo raccontano per iscritto, sono chiamati dallo Spirito ad adottare lo stesso stile di Gesù [3].


Per una cultura di pace fondata sulla mitezza

La tradizione sinottica ritrova nelle scelte stesse di Gesù l’omogeneità tra la via della pace/salvezza dal peccato e il vangelo della pace che la pasqua sancirà in eterno come concordia e ospitalità tra diversi.
Prima di tutto, la tradizione sinottica è concorde sulla beatitudine sulla mitezza – “Beati i miti, perché erediteranno la terra” ( Mt 5,5) analoga a quella sui “costruttori di pace” – anche se è presente solo in Matteo, nel quale si trova un altro detto di Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” ( Mt 11,19). Tuttavia, non importa granché se la beatitudine manca in Luca, in quanto talvolta l’assenza di un termine non cambia il contenuto di un discorso, e questo è tanto più vero per il vangelo di Luca, che è stato definito scriba mansuetudinis Christi (Dante). Scoprire la ragione di questa antica indicazione è abbastanza facile: ci sono racconti propri di Luca, quali il buon samaritano e la conversione di Zaccheo; c’è una particolare attenzione ai malati e agli esclusi ed è l’unico a riferire del discepolato femminile.
In secondo luogo, c’è un passo soltanto lucano che qui ci interessa in modo peculiare: in Lc 9,51-55 Gesù rimprovera Giacomo e Giovanni per la loro intolleranza verso i samaritani, sui quali avrebbero voluto che scendesse un fuoco dal cielo perché non erano stati da loro ospitati nel viaggio verso Gerusalemme. In Luca quindi giunge a maturazione una mentalità universalistica, che è comune ormai alla tradizione sinottica, consapevole che il vangelo va annunciato con mitezza.
In terzo luogo, la conversione del cuore coincide con una pacificazione profonda, segno del cambiamento di mentalità richiesto dalla misericordia di Dio, secondo la famosa parabola del Padre che ama due figli a loro modo diversamente ingrati. Il perdono offerto da Gesù ha, è vero, l’epilogo sulla croce, ma è radicato in una prassi di Gesù che abbatteva barriere e allargava la cerchia dei chiamati, sulla quale è concorde tutta la tradizione sinottica.
Come proposta attuale per una cultura di pace, ho trovato una notevole consonanza, credo non casuale, con una riflessione del filosofo Norberto Bobbio sulla mitezza (Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche editrice, Milano 1998), da lui intesa non già come virtù personale bensì come virtù sociale . Da qui la sua proposta, sulla scorta di Aldo Capitini (il noto teorico italiano della nonviolenza), che la mitezza alla fine possa diventare una predisposizione alla compassione o misericordia, intesa questa come la caratteristica precipua della dignità umana.
Il filo del ragionamento di Bobbio è il seguente: egli distingue la mansuetudine dalla mitezza perché solo questa è una disposizione attiva verso il prossimo, senza quell’aspetto remissivo, o rinunciatario, della prima, ove prevale un carattere addomesticabile. E la mitezza non è nemmeno sinonimo di “indulgenza”, come di chi propone meno severità nelle punizioni. Due invece sono le caratteristiche – un agire senza volontà di sopraffazione e un donare senza contropartita – che emergono dai passi seguenti:

Agire senza volontà di sopraffazione: “Nella lotta politica, anche in quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte. I due animali simbolo dell’uomo politico sono… il leone e la volpe. L’agnello, il ‘mite’ agnello, non è un animale politico: se mai è la vittima predestinata, il cui sacrificio serve al potente per placare i demoni della storia. (In tal senso) la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”.
Donare senza contropartita: “Il mite non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata (…) La mitezza è una scelta metafisica, perché affonda le radici in una concezione del mondo che non saprei altrimenti giustificare. Ma dal punto di vista delle circostanze che l’hanno provocata è una scelta storica: consideratela come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere”.

Conclusione generale: la pace è la vera sorpresa pasquale

Se mantenessimo la stessa successione con cui ho esaminato i vari aspetti dello shalom pasquale (nella triplice tradizione paolina, giovannea e lucana, nonché sinottica), potremmo essere indotti a pensare ad una sorta di primato della pace quale riconciliazione/cam­biamento di mentalità nelle relazioni relegando sullo sfondo gli altri due nomi della pace: stabilità/armonia e convivenza basata sulla mitezza . Ma questo è un equivoco che dipende da una logica piramidale, sempre affiorante dal nostro subconscio concettuale. Lo si può eliminare con una lettura circolare, dove ogni aspetto rimanda all’altro mentre ruota attorno all’evento pasquale: il Risorto dona nello Spirito lo shalom , la pienezza di vita sgorgata dal Crocifisso che regna sulle potenza della disgregazione già sul legno della croce. Qui Lui stesso è Pace e riconciliazione, perché cambia in radice le relazioni tra le persone e tra i popoli, invitando a mantenere lo sguardo “dal basso”. Nella logica della misericordia divina, lo sguardo dal basso è l’unico in sintonia con il dono stesso della pace che dà stabilità e armonia ai cuori di quanti accettano di fondare la convivenza sulla mitezza, “via regia” per giungere alla compassione, che, secondo Bobbio, è la massima espressione della dignità umana.
Potremmo riproporre questa esperienza di Cristo nostra pace come un accogliere la “sorpresa pasquale”, e non solo una volta all’anno! Nel corso della vita quotidiana o anche nell’impegno fattivo di operare per la pace in modi molteplici, talvolta fatichiamo a riconoscere l’intreccio tra la stabilità interiore, il cambiamento di mentalità nei rapporti e la edificazione di una cultura di pace basata sulla dignità umana, che i poteri di questo mondo sono sempre pronti ad umiliare se non a calpestare con violenza.
Ovviamente, noi, che sentiamo di essere coinvolti in qualcosa di sempre più grande delle nostre capacità e dei nostri vasi di coccio, siamo invitati dal Signore stesso ad invocare ogni giorno la grazia di testimoniare lo shalom “a caro prezzo”. La sorpresa pasquale ha dischiuso le porte del regno di giustizia e di pace ovvero di comunione, anche se si tratta di attendere il compimento pieno di cui però non ci è dato sapere come e quando. Se è vero che l’alleanza eterna di pace è già avvenuta nella pasqua di Cristo, tuttavia non per questo è eliminata la lotta contro le potenze del male, che sono i mezzi con cui il principe delle tenebre avversa lo shalom.

Giordano Remondi



[1] U. Wilckens, op. cit., p. 296. Circa la pax romana va ricordato che “in alcune immagini del I-II sec. d. C. appare la dea della Pace con un piede sopra la testa del nemico. E’ questo un simbolo perfetto della pax romana , che è una pace ottenuta per mezzo della guerra di aggressione, della tortura, del massacro e della croce…, la pena che Roma riservava a tutti coloro che potevano rappresentare una minaccia alla politica e alla pax ” (A. Degan, Il comportamento bello . Dentro l’Impero lottando per la pace , EMI, Bologna 2004, p. 6). [ritorna]
[2] “Lo splendore che irradia dall’Essere divino (cioè la gloria ; ndr. ) si manifesta ora in un intervento preciso compiutosi a Betlemme e che inaugura la comunione escatologica tra cielo e terra, la salvezza definitiva. La parola “pace” esprime tutto il contenuto di tale salvezza (secondo l’attesa del Messia che regna come Principe della pace in Is 9,5-6); non certo soltanto assenza di guerra, ma comunione piena con Dio che si ripercuote in rapporti giusti fra gli uomini e con se stesso [L’inno dice che un siffatto dono della pace è dato a coloro] ai quali Dio rivolge la sua benevolenza, che fanno l’esperienza della fedeltà e dell’amore divino, non perché Dio sia contento della loro bravura e obbedienza alla sua volontà (così a Qumran), ma perché Dio gratuitamente si rivolge ad essi per amarli” (G. Rossé, Il vangelo di Luca , Città Nuova, Roma 1992, pp. 91-92; corsivi miei). [ritorna]
[3] Ci pare di poter intuire un progetto messianico di Gesù, che ha pure una valenza sociale e, a suo modo, politica; non certamente per sostituirsi, per rovesciare le autorità legittime, costituite, bensì per suscitare un raduno di popoli sotto il segno della mitezza; della nonviolenza, dell’amore mutuo, così da realizzare un nuovo modo di vivere insieme, un nuovo modo di essere città” (C.M. Martini, Verso Gerusalemme , Feltrinelli, Milano 2002, pp. 145-146: si tratta di un breve commento proprio al passo riguardante la “via della pace” di Luca). [ritorna]


Il dono stabile dello shalom pasquale nella tradizione giovannea

[20,19] La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. [20] Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. [21] Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. [22] Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; [23] a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”.

“Pace a voi” risuona per ben due volte per i discepoli paralizzati dalla paura il primo giorno dopo il sabato. La sorpresa è duplice: il Risorto è il Crocifisso, che passa in mezzo alle porte chiuse e prende l’iniziativa di mostrare le mani e il co­stato. “Che i discepoli debbano vedere vivo il Crocifisso ha un significato permanente per tutti i discepoli di ogni tempo” (U. Wilckens, Vangelo secondo Giovanni , Paideia 2002). È Lui che fa vedere come su quel corpo incorrotto restano i segni della trafittura proprio mentre dona la pace, che non è tanto il saluto benedicente, quanto piuttosto il simbolo della volontà divina di stare per sempre in mezzo al suo popolo . Questa è la “alleanza di pace” attesa dai profeti con l’arrivo del Messia: lo shalom è il frutto del transitus pasquale del Figlio, unitamente al dono dello Spirito per la remissione dei peccati:

Secondo le promesse nei discorsi d’addio, Gesù doveva, dopo la partenza, ritornare presso i suoi, essere visto da loro e comunicare loro lo Spirito Santo. Il Figlio ha compiuto il proprio itinerario terreno, ma il frutto che ne è venuto non è stato ancora ricevuto da coloro che sono chiamati a vivere la sua vita e ad essere nel mondo la continuazione della sua presenza”[1].

Ed è proprio della pace che Gesù, nei discorsi d’addio, aveva parlato come stabilità in due passi:

[14.27] Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore .
[16.33] Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo .

In entrambi i passi che chiudono, rispettivamente, il primo e il terzo discorso d’addio, c’è una pace “a caro prezzo”, in quanto vissuta in mezzo a contrasti e ostilità, ma in contesti diversi: l’evangelista si riferisce, nel primo, al dono lasciato in eredità da Gesù, mentre, nel secondo, alla difficoltà dei discepoli di perseverare quando arriva la tribolazione. Per comprendere meglio, commento i due versetti nell’ordine inverso.
I discepoli incontrano molte resistenze nella missione, come Gesù in vita. Giovanni e le sue comunità ripensano a fondo la tradizione dopo la fine catastrofica di Gerusalemme del 70, che, ricordiamo, provoca le conseguenti dispute violente tra cristiani e giudei e atti di inimicizia tra i cristiani della duplice provenienza. Allora, la “tribolazione” di Gv 16,33 è costituita dall’ostilità del mondo incredulo, per cui i discepoli si disperdono rinunciando a testimoniare Cristo, com’è accaduto durante la passione quando lo lasciarono solo (ne parla il versetto precedente). Il mondo incredulo è quello del potere teocratico giudaico, che ha accusato Gesù di bestemmia e che, come’è narrato soltanto nel vangelo di Giovanni, durante il processo interferisce nei confronti del potere politico per poter condannare Gesù alla croce, che, come sappiamo, era la pena capitale più infamante riservata ad un sobillatore politico.
Qual è dunque l’esortazione per i discepoli, che hanno ricevuto lo shalom come frutto della vittoria pasquale del Figlio di Dio sulla morte e sul suo potere disgregante? L’espressione “(restando) in me avrete pace” vuol dire che nel fare pasqua con Cristo si troverà l’integrità interiore necessaria per perseverare durante la tribolazione del tempo presente. Il coraggio della fede a cui invita il testo è altro dall’ottimismo di maniera: è un lasciarsi cambiare profondamente la mentalità del diventare testimoni. Non è dunque un’armonia limitata all’interiorità, in quanto essa si riversa in ogni tipo di relazione. Questo è lo shalom, sofferto in vista di una comunione sempre più larga.
Non dissimile il contenuto del passo di Gv 14,27, che è molto più noto perché ripreso dall’invocazione della pace nella Messa prima del canto dell’ Agnus Dei . Cambia però il contesto: la pace, lasciataci da Gesù in eredità già nel tempo presente, non è quella del mondo, qui inteso come mondo politico. Non è la pax romana imposta da un trattato! Giovanni pone lo shalom di Cristo “in voluta antitesi con la pace di cui l’impero romano, sotto il dominio dell’imperatore, ha fatto il suo motto centrale”[2]. In positivo, lo shalom donatoci è la stabile presenza di Cristo in noi mediataci dallo Spirito Santo (citato nel precedente v. 26).
Quale indicazione ne consegue per vivere la pace non come la dà il mondo? Solo come scintilla del riposo eterno, seguendo la scritta posta sull’in­gresso dei cimiteri? O non è piuttosto quella pace il dono permanente che hanno testimoniato Benedetto e Francesco, capifila di altri santi più o meno conosciuti? La pax dei monasteri benedettini nasceva dalla vita comune ove era cercata l’armonia tra diverse mentalità. La pax francescana era offerta quale riconciliazione dove c’era conflitto nelle città. Negli ultimi secoli la pace si è rivestita di compassione o solidarietà con le vittime, soprattutto dove massima è stata la violenza subita per le guerre di ogni genere.

La tradizione lucana: dalla “via della pace” scelta da Gesù al “vangelo della pace” della missione ecclesiale

Come si nota nel sottotitolo, cercherò di mettere in relazione le scelte di Gesù sulla pace con la missione della Chiesa proposta da Luca, il cui percorso è scandito in varie tappe: inizia con la “pace angelica” di Lc 2,14 e finisce con la “buona novella della pace” di At 10,36, passando per il “figlio di pace” nella missione ( Lc 10,6) e la “via della pace” ( Lc 1,79 e Lc 19,42), che è incompresa da Gerusalemme, mentre i discepoli (non la folla in Luca!) lo acclamano “re della pace” in cielo e in terra durante l’ingresso messianico.
E proprio per valutare le scelte di Gesù bisogna notare che subito dopo tale ingresso c’è nel vangelo di Luca il pianto di Gesù sulla città, perché non conosce la via della salvezza/pace ( Lc 19,28-44). La “via della pace” è un’espressione che si trova anche nel Cantico di Zaccaria , negli ultimi versetti ( Lc 1,77-79) ed è intesa come il terzo compito del Messia in terra, intimamente legato ad altri due: il perdono dei peccati, quale origine della salvezza, e la luce per chi brancola nelle tenebre e nell’ombra di morte.
Con questo rimando parallelo, potremmo dire che la potenza traboccante della misericordia divina perviene alla sua massima visibilità proprio nel far abitare sulla terra la pace (vedi il Gloria angelico di Lc 2,14) [3], cosa che tuttavia non è riconosciuta dai potenti di quel tempo e dalle autorità religiose di Gerusalemme [4]. Allora il motivo del pianto di Gesù sulla sua città è la mancata apertura dei potenti di questo mondo, che non sono disponibili alla via inedita seguita da lui per offrire il regno di comunione e di pace.
C’è anche un altro testo che, nella versione lucana, presenta ritocchi decisivi che confermano la possibilità del rifiuto della pace durante la missione:

[10,1] Il Signore designò altri settantadue discepoli e li invitò a due a due innanzi a sé, in ogni città o luogo dov’egli stesso voleva andare. [2] E disse loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate, dunque, il padrone della messe di mandare operai nella sua messe. [3] Andate! Ecco, io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi. [4] Non portate né borsa, né bisaccia, né calzari e non salutate nessuno nel viaggio. [5] In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. [6] E se lì vi sarà un figlio di pace, la vostra pace riposerà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi”.

Si tratta dell’invio missionario dei settantadue discepoli a tutte le genti, solo in parte simile a quello precedente dei Dodici al popolo d’Israele (cfr. Lc 9,1-7). La variante lucana riguarda proprio la scelta della pace intimamente connesso con l’annuncio del regno di Dio. Qualcuno potrebbe pensare che “Pace a questa casa” sia un saluto augurale, ma sarebbe poco adatto verso coloro che non erano ebrei. Poi c’è l’insistenza su chi è “figlio di pace” e su chi non lo è, che si comprende tenendo presente l’avvertenza lucana sull’an­nun­cio da fare in mezzo ad un mondo ostile (“Agnelli in mezzo a lupi”).
Allora ne consegue che presentarsi come testimoni di pace, indifesi e deboli, dovrebbe permettere l’apertura delle porte e superare la diffidenza o anche l’inimicizia. La disponibilità reciproca ad ospitarsi è dunque il segno di un possibile cambiamento di mentalità. L’apice di questa apertura si trova nell’apostolo Pietro il quale, dapprima, accoglie nella casa di Giaffa degli inviati del centurione romano Cornelio, di stanza a Cesarea, e in seguito entra nella casa di questi a mangiare. [5] Questa scelta è illuminata da un mirabile discorso di Pietro ai pagani timorati di Dio (cioè, già simpatizzanti per il giudaismo, ma non circoncisi), discorso che si trova in due delicati capitoli degli Atti degli Apostoli. A noi interessa tare il passo in cui il vangelo della pace/salvezza riguarda tutti i popoli:

[10,34] In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, [35] ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui gradito. [36] Questa è la parola che egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la buona novella della pace (oppure: annunziando loro la pace ) per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti.

Si noti come sia necessario ricorrere alla terminologia del “vangelo della pace/sal­vezza” recata da Gesù Cristo, unico Signore di tutti, per avvicinare i giudeo-cristiani ai pagani e dare avvio alla convivenza, che, come sappiamo, non fu priva di contrasti.
Anche in Luca, dunque, come in Paolo, c’è omogeneità tra mezzi e fine: la pace scende sulla terra con Gesù, la cui via messianica “mite e pacifica”, pur ostacolata e alla fine non riconosciuta, è detta vangelo della pace da coloro che, mentre lo predicano e lo raccontano per iscritto, sono chiamati dallo Spirito ad adottare lo stesso stile di Gesù [6].

Per una cultura di pace fondata sulla mitezza

La tradizione sinottica ritrova nelle scelte stesse di Gesù l’omogeneità tra la via della pace/salvezza dal peccato e il vangelo della pace che la pasqua sancirà in eterno come concordia e ospitalità tra diversi.
Prima di tutto, la tradizione sinottica è concorde sulla beatitudine sulla mitezza – “Beati i miti, perché erediteranno la terra” ( Mt 5,5) analoga a quella sui “costruttori di pace” – anche se è presente solo in Matteo, nel quale si trova un altro detto di Gesù: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” ( Mt 11,19). Tuttavia, non importa granché se la beatitudine manca in Luca, in quanto talvolta l’assenza di un termine non cambia il contenuto di un discorso, e questo è tanto più vero per il vangelo di Luca, che è stato definito scriba mansuetudinis Christi (Dante). Scoprire la ragione di questa antica indicazione è abbastanza facile: ci sono racconti propri di Luca, quali il buon samaritano e la conversione di Zaccheo; c’è una particolare attenzione ai malati e agli esclusi ed è l’unico a riferire del discepolato femminile.
In secondo luogo, c’è un passo soltanto lucano che qui ci interessa in modo peculiare: in Lc 9,51-55 Gesù rimprovera Giacomo e Giovanni per la loro intolleranza verso i samaritani, sui quali avrebbero voluto che scendesse un fuoco dal cielo perché non erano stati da loro ospitati nel viaggio verso Gerusalemme. In Luca quindi giunge a maturazione una mentalità universalistica, che è comune ormai alla tradizione sinottica, consapevole che il vangelo va annunciato con mitezza.
In terzo luogo, la conversione del cuore coincide con una pacificazione profonda, segno del cambiamento di mentalità richiesto dalla misericordia di Dio, secondo la famosa parabola del Padre che ama due figli a loro modo diversamente ingrati. Il perdono offerto da Gesù ha, è vero, l’epilogo sulla croce, ma è radicato in una prassi di Gesù che abbatteva barriere e allargava la cerchia dei chiamati, sulla quale è concorde tutta la tradizione sinottica.
Come proposta attuale per una cultura di pace, ho trovato una notevole consonanza, credo non casuale, con una riflessione del filosofo Norberto Bobbio sulla mitezza (Elogio della mitezza e altri scritti morali, Pratiche editrice, Milano 1998), da lui intesa non già come virtù personale bensì come virtù sociale . Da qui la sua proposta, sulla scorta di Aldo Capitini (il noto teorico italiano della nonviolenza), che la mitezza alla fine possa diventare una predisposizione alla compassione o misericordia, intesa questa come la caratteristica precipua della dignità umana.
Il filo del ragionamento di Bobbio è il seguente: egli distingue la mansuetudine dalla mitezza perché solo questa è una disposizione attiva verso il prossimo, senza quell’aspetto remissivo, o rinunciatario, della prima, ove prevale un carattere addomesticabile. E la mitezza non è nemmeno sinonimo di “indulgenza”, come di chi propone meno severità nelle punizioni. Due invece sono le caratteristiche – un agire senza volontà di sopraffazione e un donare senza contropartita – che emergono dai passi seguenti:

Agire senza volontà di sopraffazione: “ Nella lotta politica, anche in quella democratica, e qui intendo per lotta democratica la lotta per il potere che non ricorre alla violenza, gli uomini miti non hanno alcuna parte. I due animali simbolo dell’uomo politico sono… il leone e la volpe. L’agnello, il ‘mite’ agnello, non è un animale politico: se mai è la vittima predestinata, il cui sacrificio serve al potente per placare i demoni della storia. (In tal senso) la mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione”.
Donare senza contropartita: “Il mite non pretende alcuna reciprocità: la mitezza è una disposizione verso gli altri che non ha bisogno di essere corrisposta per rivelarsi in tutta la sua portata (…) La mitezza è una scelta metafisica, perché affonda le radici in una concezione del mondo che non saprei altrimenti giustificare. Ma dal punto di vista delle circostanze che l’hanno provocata è una scelta storica: consideratela come una reazione alla società violenta in cui siamo costretti a vivere”.

Conclusione generale: la pace è la vera sorpresa pasquale

Se mantenessimo la stessa successione con cui ho esaminato i vari aspetti dello shalom pasquale (nella triplice tradizione paolina, giovannea e lucana, nonché sinottica), potremmo essere indotti a pensare ad una sorta di primato della pace quale riconciliazione/cam­biamento di mentalità nelle relazioni relegando sullo sfondo gli altri due nomi della pace: stabilità/armonia e convivenza basata sulla mitezza . Ma questo è un equivoco che dipende da una logica piramidale, sempre affiorante dal nostro subconscio concettuale. Lo si può eliminare con una lettura circolare, dove ogni aspetto rimanda all’altro mentre ruota attorno all’evento pasquale: il Risorto dona nello Spirito lo shalom , la pienezza di vita sgorgata dal Crocifisso che regna sulle potenza della disgregazione già sul legno della croce. Qui Lui stesso è Pace e riconciliazione, perché cambia in radice le relazioni tra le persone e tra i popoli, invitando a mantenere lo sguardo “dal basso”. Nella logica della misericordia divina, lo sguardo dal basso è l’unico in sintonia con il dono stesso della pace che dà stabilità e armonia ai cuori di quanti accettano di fondare la convivenza sulla mitezza, “via regia” per giungere alla compassione, che, secondo Bobbio, è la massima espressione della dignità umana.
Potremmo riproporre questa esperienza di Cristo nostra pace come un accogliere la “sorpresa pasquale”, e non solo una volta all’anno! Nel corso della vita quotidiana o anche nell’impegno fattivo di operare per la pace in modi molteplici, talvolta fatichiamo a riconoscere l’intreccio tra la stabilità interiore, il cambiamento di mentalità nei rapporti e la edificazione di una cultura di pace basata sulla dignità umana, che i poteri di questo mondo sono sempre pronti ad umiliare se non a calpestare con violenza.
Ovviamente, noi, che sentiamo di essere coinvolti in qualcosa di sempre più grande delle nostre capacità e dei nostri vasi di coccio, siamo invitati dal Signore stesso ad invocare ogni giorno la grazia di testimoniare lo shalom “a caro prezzo”. La sorpresa pasquale ha dischiuso le porte del regno di giustizia e di pace ovvero di comunione, anche se si tratta di attendere il compimento pieno di cui però non ci è dato sapere come e quando. Se è vero che l’alleanza eterna di pace è già avvenuta nella pasqua di Cristo, tuttavia non per questo è eliminata la lotta contro le potenze del male, che sono i mezzi con cui il principe delle tenebre avversa lo shalom.

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