Realtà sotterranee
Non poteva mancare, in un numero di “Pretioperai” come questo, l’intervento di un amico fedele come Gianni Tognoni, instancabile girovago nei sotterranei del sud del mondo. Si tratta della terza parte di un intervento di pochi anni fa su “Diritto e liberazione dei popoli”, che abbiamo rubato a “Passa mano / scritti di Gianni Tognoni” a cura del Centro di Documentazione Polesano: qui Gianni elenca dieci “elementi per un cammino da fare camminando”.
Finché ci sarà un Sud, il senso della Storia è sempre il Sud
1. […] Il mondo visto dalla parte dei popoli è fatto di radici di liberazione che cercano il diritto di esistere almeno per il tempo di prendere la parola e di descrivere e sperimentare uno o due sogni.
2. Il «nemico» delle radici che vogliono divenire popolo è l’assenza della storia. Il nord del mondo l’ha· sequestrata per sé: imponendo le sue definizioni, le sue regole, i suoi indicatori e i suoi confini. Entra nella storia chi ha la carta d’identità della compatibilità. I popoli, come emigranti illegali, zingari, clandestini, apolidi possono essere accettati solo se trovano protettori, non importa di che colore; devono rispettare la preesistenza normativa del nord (o del centro, che è una traduzione aggiornata e sottile del più tradizionale nord, perché include tutti gli spezzoni di nord che si impiantano nei tanti sud di tutti i continenti). Questo sequestro della storia da parte del nord ha reso la storia stessa molto ripetitiva, tesa fra una recessione economica e l’altra, tra un equilibrio armato e l’altro. Se si provasse a raccontare la storia dal punto di vista del nord se ne scoprirebbe la noiosità e la irrilevanza.
3. Si propone la tesi che fare politica al nord ha senso oggi forse solo se significa raccontare la storia del mondo dalla parte del sud (o delle periferie). Non tanto per dare risonanza di solidarietà (o almeno non solo): soprattutto per ritrovare le dimensioni reali della storia e viverla non accontentandosi dei fumetti che ne propone il nord.
4. La storia raccontata in questa scuola è una storia «viziata» o «distorta» o «sbilanciata». Dietro l’etichetta affascinante di diritto – liberazione – popoli, si sa che stanno parole più antiche e banali: vinti, oppressi, dipendenti, espropriati. Quanti sono? Minoranze? Maggioranze? I confini quantitativi dipendono dalla definizione che si prende come riferimento. Si propone una seconda tesi: che è necessario, per lungo tempo, essere «sbilanciati» con loro, perché si abbia, insieme, la possibilità di scrivere la storia non ancora scritta. In questa scuola, questo è certo, la storia scritta dai vincitori è studiata, conosciuta, approfondita; la si trova, semplicemente, sempre più «prevedibile» (oltre che, ma quello lo si sapeva, vincente e violenta) e con intenzione di volersi «clonare» per il futuro (con una violenza innovativa nelle forme, ma molto simile a se stessa nella sostanza).
5. In questa scuola ci si è ritrovati – un po’ incuriositi, un po’ imbarazzati, un po’ interessati, un po’ affascinati – insegnanti e alunni, teologi e teorici, militanti e politici di varie estrazioni e competenze, di tutte le tendenze e latitudini, con ruoli che si scambiavano. Via via che si lavorava a tempo pieno intorno alla nuova etichetta e alle vecchie parole ricordate sopra, ci si è accorti che c’era un minimo denominatore comune che permetteva un riconoscimento reciproco: si era tutti portatori di una comune intuizione che aveva preso forme infinitamente diverse, tanto da essere a tratti irriconoscibile, ma che, nei suoi termini essenziali, si poteva riformulare così: «Ci piacerebbe di più un mondo nel quale il diritto alla felicità fosse di tutti».
6. Le scuole del sud aperte nel nord corrono il rischio inevitabile di apparire o banali (come l’affermazione su cui si chiude il punto precedente) o esotiche (con quel misto di sconosciuto – tragico che ci si aspetta quando si va nelle periferie). Eppure in questa scuola è in giuoco qualcosa di molto profondo. Dietro la banalità o la curiosità esotica c’è una precisa affermazione teorico-pratica, che si contrappone formalmente a un’altra visione del mondo. Il sud (o la periferia) è scientificamente molto più avanzato e complesso, con la sua proposta banale-esotica, rispetto al nord (o al centro). Il modello di sviluppo che il nord propone è basato sull’appiattimento della storia lungo un asse economico, che simula la linearità e la progressione solo perché cancella tutte le altre variabili, dichiarate dipendenti o secondarie. Il fascino del modello è quello della programmazione, della prevedibilità. La sua forza quella di esistere, almeno nei rapporti del Fondo Monetario Mondiale o della Banca Mondiale, e di potere quantificare con precisione le distanze crescenti tra i diversi PNL, o reddito pro capite. La sua scientificità è quella di non permettere l’emergere e la sperimentazione di ipotesi alternative e di esercitare una campagna attiva di prevenzione perché ciò non succeda, senza distinzione di mezzi, comprando o distruggendo avversari reali o potenziali. La scuola del sud porta con sé la memoria e il sogno della diversità, della dialettica, della sperimentazione, dell’autonomia, della creazione. Il suo modello pretende di includere e riconoscere il qualitativo, le speranze, gli errori. Vuole apprendere a usare indicatori che abbiano a che fare con la vita e non solo con le banche. Talvolta è difficile orientarsi. Questa scuola ricorda che la «banalità» del diritto dei popoli alla liberazione è un prodotto molto più sofisticato che la scoperta delle ultime particelle della materia inseguite nel più futuribile acceleratore lineare del più creativo gruppo di fisici: e che il progetto di ricerca che è necessario ha un programma intenso, ma di cui è difficile prevedere i tempi.
7. Strana scuola, questa del sud: pretende di fare ricerche complesse e di far riconoscere come ricercatori e non come intrusi i popoli; vista poi da vicino non sa neppure ben definire il suo oggetto: popolo, liberazione, diritto. Chi sono i popoli? Per quale liberazione? Fino a quando? Con quanti-quali diritti? Diversi o superiori a quelli «costituzionali», «parlamentari», «democratici»? E non succederà poi a questo sud quello che già sappiamo, per altre esperienze, che poi, in fondo, si corrompe, si allinea? Anzi, diventa peggio? Il rischio della scuola è quello di cadere nella trappola che si intravede già nella sequenza delle domande appena formulate: pensare di doversi giustificare, dover formulare le proprie domande che parlano della vita e del futuro in termini che siano riconoscibili dai cultori delle interpretazioni. Fa parte essenziale del metodo scientifico della scuola del sud ricordarsi che le domande originali, banali sono quelle vere; che le risposte non esistono già formulate; che la scuola della liberazione è una cosa infinitamente seria. I popoli non sono pre-definiti, dovranno essere definiti dalla loro infinita pluralità, la liberazione non è risposta a un quiz, il diritto è una dialettica che non finisce, l’economia non è un giuoco di moltipliche, somme, divisioni di tanti fattori di cui solo a fatica fanno parte gli uomini.
8. La scuola del sud del mondo assomiglia a tante altre scuole che il sud ha cercato di aprire in una storia che è sempre stata sequestrata da un nord: ne è piena la Bibbia e ne parlano i classici marxisti, ne racconta i segni la «memoria del fuoco» delle Americhe e dell’ Africa e ne ricordano le implicazioni teorico-pratiche le lettere di Rosa Luxembourg o la teologia della liberazione. Scuola di sperimentatori, a tempo pieno, senza numero chiuso, ma sempre con pochi iscritti. Forse perché la sua ipotesi di lavoro è comprensibile e tollerabile solo da coloro per i quali essere popolo che sogna diritto e liberazione non è un impegno ma un modo di esistere, non scelto, ma che ci si trova dentro: il senso della storia è sempre del sud, finché ci sarà un solo sud. Ha senso questa ipotesi? È tollerabile per chi vive nel nord? È possibile che sia un percorso concreto di prassi-ricerca, prioritario?
9. I nostri lettori hanno tutti, più o meno, nella loro memoria frammenti di citazioni che includono profezie di Isaia o l’eco della vecchia sfida comunista «a ciascuno secondo il proprio bisogno». La scuola del sud ripropone di prendere sul serio questi frammenti, quale che sia la lingua nella quale sono tradotti. Sapendo che la loro verifica non è garantita se non dal «riconoscimento» e dall’«esperienza» dell’allegria (per un «quando?» tanto urgente, da non permettere previsioni).
10. «L’utopia è la risposta all’appello di un mondo in agonia: annuncia un altro mondo, possibile casa per tutti, spazio aperto di incontro dei popoli liberi, uguali nei diritti, diversi nei volti, diversi per le voci. Più che utopia bisognerebbe chiamarla speranza, perché generata insieme dall’esperienza e dall’immaginazione. È la realtà che ci dimostra che la fame non è inevitabile, né l’umiliazione un destino, che la sterilità degli oppressori non implica l’impotenza creatri ce degli oppressi e che la responsabilità della storia non è in mano degli dèi o di loro bugiardi inventori: la storia può e deve essere fatta dal di dentro e dal basso, e non dall’esterno e dall’alto. Gli schiavi negri che il capitalismo strappò dalla costa occidentale dell’Africa non portarono in America solo le loro braccia. Portarono le loro culture, i loro codici culturali di identità e comunicazione. Poco o nulla sappiamo di questi codici culturali che difesero gli schiavi da un sistema che voleva convertirli in oggetti. Poco o nulla sappiamo; ma sappiamo, per lo meno, che molti di questi schiavi credevano – e i loro nipoti ancora credono – nelle due memorie. Ogni persona ha due memorie: una, quella individuale, condannata a morte, condannata ad essere inghiottita dal tempo e dalle passioni. Un’altra memoria·- quella collettiva – è invece vincitrice della morte, continua, è immortale. Anch’io lo credo. Anch’io credo in tanta allegria; credo che Lelio, Ruth, Marianella, vivranno finché nel mondo vivranno la volontà di giustizia e la volontà di bellezza; finché la dignità umana, assassinata migliaia di volte, continuerà ad essere miracolosamente capace di alzarsi e di camminare» (Eduardo Galeano).