Sguardi e voci dalla stiva (6)


 

Riportiamo la prima parte, la più narrativa, del documento che l’autore ci ha consegnato. Chi fosse interessato ad averlo integrale può richiederlo al suo indirizzo mail: giancarlo47@gmail.com

 

L’inizio

Me lo ricordo esattamente: era il 15 febbraio e tutti a Darfo eravamo in festa per la ricorrenza di s. Faustino: la celebrazione affollata nella chiesa, la fiera con le bancarelle e la gente che si ammassava per comperare, i saluti e gli incontri con persone che non si trovavano da tempo e che erano venute alla fiera per l’occasione.

Poi mi ricordo anche il pranzo ufficiale per la ricorrenza, nel ristorante ai piedi del campanile di Darfo, con tutti i preti della zona e alcune autorità di Darfo. Si è anche accennato, nella conversazione durante il convivio, a ciò che accadeva in Cina e alle notizie che giungevano a proposito della malattia che aveva colpito gravemente la popolazione. E’ stato un argomento fra i tanti sui quali avevamo ragionato e conversato, una notizia di cronaca come tante a cui dai un pensiero momentaneo e che lascia il posto a un’altra notizia di più attualità.

Poi, una settimana dopo, il decreto del Presidente del Consiglio con cui si obbligava la popolazione alla chiusura di tutto, locali pubblici e negozi. Il divieto ci raggiungeva appena a qualche ora dalla fine del corteo di bambini e genitori che nelle strade di Darfo avevano festeggiato il carnevale, fra musica, coriandoli e frittelle. Tutto chiuso: anche le chiese, niente rito delle ceneri per la quaresima che iniziava di lì a qualche giorno e niente celebrazione delle messe nelle domeniche e inizio della chiusura di tutti in casa con la proibizione di uscire se non per comprovati motivi.

La paura

Questa situazione inedita e perciò allarmante ha suscitato una forte preoccupazione. La proibizione ha fatto nascere la paura che il contagio fosse vicino e subito si è trasformata in angoscia. Hanno cominciato a morire accanto a noi persone che ritenevamo in salute, abbiamo sentito notizie allarmanti sulle persone ricoverate in ospedale a Esine che ha iniziato ad essere sovraffollato fino all’esaurimento dei posti letto. Chi veniva ricoverato non poteva più essere visitato dai parenti che avevano notizie solo una volta al giorno e per telefono sullo stato di salute dei loro cari. Il medico di base non era più contattabile, sovraccarico di richieste; la segnalazione all’ospedale di una grave situazione di salute di qualche parente non riceveva nessun ascolto: la risposta alla richiesta di interventi sanitari non poteva più essere esaudita, se non dopo ripetute chiamate e solo dopo molte ore. Al massimo si ricevevano consigli per un trattamento medico generico fatto in casa dai parenti.

E poi ho cominciato a fare funerali di persone vicine e lontane. Dalla casa di riposo Maj, dove ero di casa per la frequentazione quotidiana, continuavano a chiamarmi per annunciarmi il decesso di qualche ospite e per definire coi parenti i pochi momenti concessi per il rito del saluto definitivo, che ho cominciato a celebrare al campo santo. Vedevo attorno a me i pochi parenti ammessi al rito: spaventati, mascherati, sconvolti da quanto li aveva così rapidamente colpiti e incapaci di rendersi conto di un addio a persone care fatto così in fretta e senza una celebrazione decente. Ho contato nella chiesetta della casa di riposo, che fungeva da sala mortuaria, fino a cinque salme contemporaneamente, lì depositate in attesa della possibilità della sepoltura o del trasporto per la cremazione.

La devastazione

E’ stata un’esperienza devastante: sui volti si notava la paura causata da qualcosa di impercettibile che era ignoto fino a pochi giorni prima e che non si pensava mai potesse sconvolgere così in profondità le nostre vite. Tutti erano bloccati nelle loro case; io avevo la possibilità di muovermi per celebrare i funerali e per la partecipazione alla messa domenicale di rito, celebrata davanti alle telecamere per la trasmissione televisiva oppure per la ripresa su Youtube. Continuava a sorprendermi il deserto a cui erano ridotte le nostre strade, senza traffico, i viali prima affollati e ora senza auto e persone, bar e negozi chiusi. Da casa mia non si udiva più il flusso rumoroso dei veicoli, ma solo un silenzio che non poteva non essere notato e che creava angoscia, tanto sembrava innaturale e mai prima di allora notato. Tutto fermo, tutti a casa, tutti angosciati per la paura del futuro e di ciò che avrebbe potuto colpirci. Ogni occupazione e appuntamento erano stati sospesi e non c’era motivo di prevedere quando sarebbero stati ripresi. Un nemico invisibile, ma minaccioso, occupava il pensiero delle giornate, ci faceva stare lontani dalle persone, ci costringeva a comportamenti mai prima immaginati. Era un continuo preoccuparsi di disinfettare, pulire, stare lontani, mascherarsi. Era un martellante ripetersi a ogni ora di telegiornali con la rincorsa alle notizie sul numero dei contagiati, dei ricoverati, delle persone decedute. Erano adesso solo nomi, anche di persone conosciute, ma ora senza volto, senza altri particolari se non che era deceduto nel tale ospedale.

Per tutti, questo stare in casa era solo in parte alleviato da contatti più frequenti, ma solo telefonici, con i familiari, anch’essi bloccati nelle loro attività lavorative. Tutti erano fermi nel luogo in cui il decreto li aveva raggiunti: ognuno stava con chi si era trovato al momento della chiusura; ogni contatto con altri non era permesso. La sola possibilità era il telefono e le video chiamate che sono state un’ancora di salvezza.

Alla casa di riposo Angelo Maj di Boario Terme

Perfino alla casa di riposo Maj, dove la chiusura in entrata e in uscita per gli ospiti è stata assoluta, l’unico contatto con parenti era la video chiamata: la spettavano sia gli ospiti rinchiusi, sia i parenti, ansiosi per quello che poteva succedere ai loro cari, in un luogo dove il contagio si era diffuso e continuava a mietere vittime quotidiane. Essi aspettavano con preoccupazione l’unico segnale di contatto con chi era ospite rinchiuso. Il timore che aleggiava su tutti gli esterni, i parenti, era quello di sentirsi chiamare e annunciare che la febbre del loro caro era salita, che era stato messo in isolamento, oppure era stato mandato in ospedale, che non rispondeva alle cure, che era deceduto alle ore… per cui bisognava predisporre la celebrazione del funerale al cimitero.

Ricordo uno dei primi che il virus ha colpito. Era alla casa di riposo, solo e senza parenti da sempre. Con lui avevo passato pomeriggi ad ascoltare la sua vita nella sua terra del sud, le sue disgrazie economiche e con la legge. Abbandonato da tutti perché non lo volevano più, così lui diceva, o forse perché lui non voleva più nessuno, era venuto al nord ed era approdato in miseria alla casa di riposo, sostenuto solo dall’assistenza pubblica. Ora era lì, nella chiesetta della casa di riposo, su una barella, seminudo, con a fianco una scatola delle scarpe in cui le inservienti avevano raccolto le sue cose: alcune fotografie, un pettine, alcune chiavi, altri oggetti per noi insignificanti, tolti dal suo comodino e abbandonati accanto alla salma. E poi il rito funebre: io, gli agenti delle pompe funebri e l’addetto al cimitero. E poi lo scavatore che prepara la buca, il calo della bara a due metri di profondità, due preghiere ancora e poi di nuovo l’escavatore in funzione per coprire quella bara, sotto una pioggia battente. L’assistente sociale mi aveva pregato di essere presente alla sepoltura, quasi me ne fossi dimenticato o avessi paura del contagio, perché, mi disse: “Leo non ha nessuno che lo possa accompagnare, è stato solo, negli ultimi anni della sua vita e anche nel momento della sua morte, e la sua bara e la sua tomba sono a carico della collettività”.

Come cambia la mia vita

La mia giornata, in conseguenza di tutto questo, ha subito alcuni cambiamenti, il più importante dei quali è stata la possibilità di celebrare la messa. Era mio solito, alle 14.30 circa di ogni giorno, andare alla casa di riposo Maj di Boario per passare alcune ore con gli ospiti e poi finire verso le 17 con la celebrazione della messa a cui partecipavano, volentieri e liberamente una quarantina di ospiti. Era una forma anche per rivivere la loro religiosità dell’infanzia, per la loro preghiera quotidiana, per ricordare le loro preghiere e i canti religiosi. Ora tutto era sospeso: alla casa di riposo nessuno entrava per timore di portare il contagio a persone spesso già un po’ debilitate per l’età; e nessuno di loro usciva dai piani in cui avevano la camera per non aumentare le possibilità di contagio. Perfino il vasto cortile arieggiato e pieno di alberi non poteva più essere la loro meta per la passeggiata del pomeriggio. Anche la Ginì, 85 anni, che ogni giorno aveva un appuntamento molto gradito con gli uccellini del parco, che la circondavano per ricevere le briciole del pane che lei puntualmente distribuiva, adesso poteva conversare con gli uccellini solo dal balcone della sua camera, a distanza come tutti e diventava difficile, mi diceva, farsi capire.

Questi cambiamenti di orario e di abitudini hanno allarmato fin da subito tutti gli ospiti che si sono sentiti più che mai lasciati soli e senza contatti con chi li veniva a trovare abitualmente: dopo la chiesa, anche il bar era chiuso. Adesso le sole persone che vedevano era il personale che si dedicava a loro, ma anche questo lo vedevano acconciato in forma preoccupante, con mascherina al volto che deformava i lineamenti soliti e con guanti e cuffia e in alcuni casi anche col camice. Ho tenuto i rapporti con gli ospiti, prima con le video chiamate, poi con la visita di persona, con tutte le precauzioni igieniche del caso, per dare loro un saluto; li trovavo sempre più disorientati anche mentalmente. Niente messa, nessuna iniziativa, solo un saluto, una chiacchierata veloce, uno scambio di auguri.

Quindi anche l’organizzazione della mia giornata è cambiata. Sospesa la messa alla casa di riposo, mi è stata offerta una possibilità di celebrare la messa quotidiana con i preti della parrocchia di Darfo. Sono i due preti responsabili della parrocchia e più giovani di me. E proprio con loro, senza nessuna programmazione, è iniziata una nuova esperienza.

Un nuovo inizio

Non accade quasi mai che i preti si fermino a riflettere insieme sulla Parola di Dio: essi la predicano ad altri, ma a mia memoria, raramente accade che fra di noi ci sia la possibilità di scambiarci delle riflessioni su quello che le letture quotidiane della bibbia suggeriscono. Questa nuova esperienza, iniziata con la pandemia, è stata grazia. Ogni giorno, partendo dalle settimane dell’impossibilità di muoversi, durante tutta la quaresima e per tutto il tempo pasquale, ho potuto godere del commento alle letture della messa quotidiana, fatto da questi amici e non mediato dalla necessità del controllo che viene quando devi parlare all’assemblea. Io stesso, messo davanti alle pagine della bibbia, mi sono sentito di esprimere quello che mi veniva nel profondo del cuore, nella semplicità. Ci siamo scambiati molti minuti di riflessione a tre, parlando liberamente secondo quello che lo spirito suggeriva a ciascuno e offrendo ad alta voce le nostre preghiere.

Mi è sembrata sconvolgente questa esperienza: essa ci ha permesso di dialogare e di manifestare nel confronto ciò che ci sembrava attinente alla nostra vita di preti, attenti alle nostre comunità e per di più in quel tempo così diverso dal tempo normale, essendo ogni attività preclusa. Mancava la presenza dell’assemblea, o meglio eravamo noi tre l’assemblea: eravamo in tre attorno a un tavolino fatto altare per dividerci la Parola e il pane. Il dialogare fra di noi preti è cosa tanto rara! O meglio: tutte le volte che ci si trova ufficialmente, lo si fa attorno a un tavolo per discutere di qualche iniziativa di carattere pastorale. Allora si discute di orari delle funzioni e di iniziative che ci coinvolgono, ma mai o raramente si lasciano da parte proposte operative e ci si ferma a riflettere e a mettere in comune le proprie esperienze di fede e ciò che viene dal profondo del cuore e non finalizzato prima di tutto a qualcosa da fare.

Mi è sembrata una iniziativa così bella quella che stavamo vivendo, che ho fatto filtrare l’idea che potesse coinvolgere anche gli altri quattro preti della nostra zona. Non hanno accolto la proposta: eppure tutti celebravano la loro messa, in privato, credo, certo senza assemblea, certo leggendo parole e facendo riti e gesti liturgici che non arrivavano a nessuno. Me li immaginavo, questi miei amici preti, nella solitudine della loro casa o davanti all’altare della loro chiesa vuota, da soli o al massimo con un sagrista, intendi a pronunciare le parole della bibbia nel vuoto, parole che non raggiungevano nessuno e che non producevano niente forse nemmeno in loro stessi. Me li immaginavo davanti al loro calice e alla loro ostia intenti a pronunciare la formula “questo è il mio…..” in un liturgia che rischiava di esser qualcosa di magico, se è vero che la messa è l’assemblea del popolo di Dio che fa la memoria di Gesù. E lì, in quelle chiese vuote mancava proprio il vero soggetto celebrante.

Queste nostre riflessioni e preghiere a tre, non limitate per orari, hanno riguardato i temi che coinvolgevano le nostre vite in quelle giornate. Eravamo nel pieno della espansione del contagio: ogni mattina ci scambiavamo i nomi delle persone che ci avevano lasciato e per le quali forse nel pomeriggio avremmo celebrato in fretta e quasi privatamente la liturgia funebre.

Ecco, quello della morte è stato uno dei temi che ci hanno coinvolto nelle nostre riflessioni quotidiane. I preti sono soliti parlare della morte, ma sempre della morte degli altri. Ora, di fronte al virus, era la nostra vita in pericolo. Io stesso mi sono trovato a riflettere più volte sulla morte e, man mano che gli anni avanzano, me la sento di fronte, a volte. Ma ora, considerando i tanti morti, mi chiedevo che potevo anch’io essere nella condizione di vivere la fine. E allora moltiplicavo l’attenzione ad ogni segnale che potesse venire dal mio corpo per decifrare in tempo un eventuale contagio: un colpo di tosse, uno starnuto eccezionale, un apparente rossore delle guance che poteva significare un innalzamento della temperatura corporale. Mai come in quei giorni mi sono sentito di essere di fronte alla morte, anche perché era tutta una psicosi collettiva che mi perseguitava, notizie di morti ovunque e dati allarmanti in ogni trasmissione televisiva.

Ma la tensione non può durare a lungo e con l’andare del tempo ci si abitua e cala la preoccupazione e non si presta più ascolto a ciò che prima era fonte di molta angoscia.

Durante la messa quotidiana in tre, ci si è confrontati su tutto. Un lungo dialogare è avvenuto a proposito della iniziativa che prendeva corpo in quelle settimane. A chiese chiuse e a popolo senza messa, molti vescovi hanno avanzata anche a livello nazionale, la proposta di celebrare la messa in tv e in streaming. Non abbiamo avuto molto da discutere, perché anche il vescovo caldeggiava l’iniziativa che si andava diffondendo presso tutti i parroci. Ma io sottolineavo che l’iniziativa era molto pericolosa: la messa è l’assemblea che la celebra. Vederla in Tv poteva dar adito all’idea che la messa si potesse vedere e basta. L’assemblea virtuale, al di là degli schermi, assiste alla celebrazione: sembra di riprodurre proprio quello che vogliamo eliminare dalla pratica della messa domenicale, cioè che il popolo assiste e non conta se il celebrante non riesce a coinvolgere l’assemblea che comunque è solo spettatrice. A me, in alternativa alla messa in tv, sembrava più educativo preparare dei testi e mandarli alle famiglie e chiedere che qualcuno della famiglia fosse il celebrante della liturgia a cui tutti i presenti avrebbero potuto partecipare attivamente, in casa. La messa, non è vedere qualcuno che celebra in Tv, proprio come un film; è partecipazione, non è vedere qualcuno che celebra; è come cenare con amici che non è vedere degli amici che cenano.

E poi, ancora, dicevo ai miei amici concelebranti: la messa, anche quella teletrasmessa, la celebriamo noi preti che siamo presenti di fatto. Siamo noi l’assemblea, non quelli di casa che la stanno vedendo. Ebbene: che assemblea siamo, dal momento che siamo incapaci di fare comunità, anche solo fra noi sette preti. Molti notano che ci sono indifferenze mai digerite fra di noi, forse separazioni, forse anche rancori, forse incapacità di ascoltarci; spesso notano che qualcuno vive la sua parrocchia come una realtà separata dalle altre parrocchie e molti si sentono in competizione. Siamo qui a fare dello spettacolo, uno scenario, passato il quale non resta niente. O meglio: resta un rito celebrato a cui non corrisponde la vita che invece segna le nostre divisioni.

E a proposto del rito. La legge della carità è quella che deve guidare la vita della chiesa, quindi anche delle parrocchie. Non so se è una mia impressione, ma in questo tempo le difficoltà economiche di molte famiglie si sono moltiplicate e non solo delle famiglie, ma anche di molte persone anziane, ammalate o sole. Non mi pare di aver colto che le parrocchie sono coinvolte in attività di aiuto o sostegno; non ho avuto notizia di persone che in parrocchia si sono mobilitate in attività di assistenza. Eppure mi pare che le necessità siano tante. Si è sentito che la Caritas zonale ha distribuito pacchi a chi lo richiedeva, dopo attenta verifica. Ma per fare questo si è appoggiata alla Comunità Montana di Valle Camonica, cioè è diventata l’emanazione dell’istituzione pubblica e non una emanazione delle parrocchie. Credo che se chiedessimo ai fedeli, scopriremmo qualcosa che sappiamo già da tempo: la Caritas è una realtà che non li riguarda, una bella iniziativa di cui però non sanno niente e che li coinvolge molto poco.

Non si può separare il rito dalla vita: non è bello che i fedeli non riescano a mettere insieme il pane diviso nell’eucarestia e la pratica della distribuzione della carità materiale. Ogni parrocchia dovrebbe essere attenta ai bisogni delle persone, specie in questi giorni. Eppure la lettura di questa situazione tocca poco le parrocchie o al massimo tocca qualche parroco, o qualche credente che prende iniziativa solo come persona singola e privatamente. La carità, spesso, non è fra le iniziative organizzate nella vita delle parrocchie. Esse sono ripiegate su se stesse e sui propri riti e hanno dimenticato la vita. Altro che chiesa in uscita: in uscita verso dove? verso chi? se non si riesce nemmeno in queste circostanze a vedere ciò che ci circonda e che grida aiuto a squarciagola?

 

Giancarlo Pianta


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