Il vangelo nel tempo
Molti girano per l’Italia sul percorso gastronomico, dei vini, sulla via Francigena, per borghi ed altre cose che fanno ancora emozionare. Ho voluto anch’io fare un piccolo giro d’Italia. Vivendo all’eremo con gli stessi paesaggi tutti i giorni ti vien voglia di cambiare aria una volta l’anno. Perché no… andiamo a trovare i preti operai che incontro da qui alla Calabria, trascurando la pianura padana. Dopo aver percorso la valle del Chianti, bellissima, ricca di vigneti e paesaggi da mozzafiato passo all’eremo delle “Stinche”, luogo caro a Vannucci e dove Sino Politi si recava spesso. Un luogo che non si distingue dalla montagna, come se fosse stato costruito nel ventre della terra, un seme che sta lavorando sotto terra. Mi ci trovo bene anche perché questa è un po’ la mia storia e gli scritti di Vannucci li amo moltissimo. Arrivo a Tesa, da Dino Fabiani, tra i “meno giovani” dei preti operai italiani insieme a Carlo Carlevaris, nati nello stesso giorno e nello stesso anno. Finora non si sono messi d’accordo chi è nato prima. Arrivo proprio all’ora di pranzo e Dino ha preparato per noi. Questa volta non c’è il cinghiale, che avevo assaggiato qualche anno prima, quando ancora c’era sua madre, morta alla venerabile età di cento anni. Si vede proprio che la Maremma, oltre al cinghiale, offre longevità. Per arrivare a questo piccolo paese si passa tra boschi di querce, lecci, corbezzoli uniti tra di loro da eriche con squarci di terreno coltivato ad olivi.
È un’immersione nel silenzio. La casa e la chiesa di Dino non assomigliano ad una parrocchia ma ad un convento. Sedersi sotto il leccio è terapeutico, in mezzo al caldo di quest’estate là sotto si respira. Di fronte al leccio, dall’altro lato, ci sono tre cipressi che sembrano proteggersi reciprocamente, uniti come in una triade e in parte un altro più giovane che osserva, stupito, anzi direi quasi invidioso, questa unità.
Sotto gli alberi, molte panche e tavoli di legno che Dino ha intagliato. È un invito continuo a sedersi per parlare, chiacchierare e dialogare, stare in silenzio ed ascoltare; questo silenzio profondo estivo con le cicale ti avvolge. Memoria di altri tempi, inizi anni 50, quando ancora c’erano i campi di grano e si giocava al pallone sulla strada statale e le macchine erano una rarità.
Qui ci sono panche e sedili di tutti i tipi; facciamo anche un po’ di umorismo per un seggio che sembra quello papale: un richiamo alla famosa sedia stercoraria, così chiamata perché durante l’intronizzazione del papa si cantava “et de stercore eriget pauperem”. Forse Dino aspetta qualche vescovo per farlo sedere sotto gli alberi, ma qui non è luogo per vescovi.
L’interno della casa è un miscuglio di cucina, officina, librerie, raccolta di sassi, conchiglie preistoriche. Non ci sono separazioni. È un po’ il simbolo del prete operaio. La chiesa è piena di opere lignee di Dino, che dopo la pensione da fabbro si è dedicato a scolpire il legno e soprattutto a vedere nel legno, nei tronchi, nei rami e nei cespugli di erica, delle opere d’arte. Non pensavo che l’erica offrisse delle vere opere d’arte, con i suoi grovigli. Ma qui bisogna avere occhio e saper guardare con occhi stupiti anche ciò che sembra ordinario.
Questo è il carattere di Dino, che sa ancora stupire e stupirsi, non solo per il legno ma anche per quello che vede, sente e per il nuovo che sta emergendo. L’incontro dopo pranzo si conclude con una visita in chiesa, dove colpisce la porta della “dispensa eucaristica”: sono dipinte due mani che spezzano il pane. È questo il significato dell’Eucaristia: spezzare e condividere il pane, la vita, e senza la condivisione e fraternità non c’è sacramento. Lasciamo ai teologi la questione della transustanziazione, che in questi ultimi tempi è diventato l’incubo di Dino. Prima di salutarci si riposa un’oretta sotto l’albero e consiglio a tutti di soffermarsi a schiacciare un pisolino d’estate, lì. Mi viene in mente Abramo che si riposava sotto la quercia di Mambre. Non si incontreranno i tre personaggi misteriosi, ma ci si accontenterà dei tre cipressi di fronte con un grande silenzio. Mi consegna un’immagine ricordo del sessantesimo anniversario della sua ordinazione con la foto delle due mani, robuste, operaie, che spezzano il pane, dove Dino “ringrazia il Padre, insieme ai compagni di cammino… e il sogno continua”. Sul retro: “che fatica salire una montagna! Ma quando sei arrivato in cima che godimento! Un orizzonte infinito, le vette di altri monti, i colli, il fondo valle, il sentiero che hai percorso, gli occhi dei compagni di viaggio, la carezza e la voce del vento.. .Ne valeva la pena!”. Forza Dino! Sei ancora giovane.
Si parte per Roma attraverso la via Aurelia. La base è Ladispoli, dove ci si ferma presso amici che ci ospitano. Il mattino dopo al Prenestino, la Roma popolare, piena dì palazzoni anni 50—60, stipata fino all’inverosimile. Ci si trova da Marcello Morlacchetti, che abita in un condominio di Largo Preneste, vicino al famoso borghetto Prenestino, un tempo luogo di baracche, dove Nicolino Barra ed Isidoro lavoravano e vivevano. Proprio in quell’area ora c’è un parco. Al Borghetto ci si trovava come gruppo di pretioperai di Roma, un bel gruppo, vivace e combattivo. Molti avevano partecipato alla stesura della “Lettera ai cristiani di Roma” negli anni 70, che aveva fatto scalpore e che ha causato non poche noie a coloro che l’hanno scritta.
Marcello vive nel suo piccolo appartamento, circondato dalle cure di amici e parenti. Ogni giorno deve fare ginnastica riabilitativa. Nonostante le sue condizioni fisiche non gli manca l’umorismo da buon romano. Passa la sua giornata leggendo, scrivendo, ricevendo gli amici. È il tipico romano che non se la prende, forse perché nel Tevere in migliaia di anni è passato di tutto, anche il fango che poi viene buttato a mare… Tutto passa. La porta di casa è quasi sempre aperta sul pianerottolo: chi sale le scale lo saluta, come uno di famiglia. Il condominio è il suo paese. Con me, oltre al ragazzo che mi ha accompagnato in questo giro, c’è Mario Pasquale e Giovanni Bruno. Di solito c’è anche Roberto Sardelli, ma ora sta in Ciociaria nel suo oliveto, ed anche Umberto Cirelli, che oggi non può venire. Un pasto delle meraviglie e dal ristorante vicino arrivano le lasagne, portate da un egiziano e da un “romano de Roma”, ci tiene a dire e
su questo non c’era dubbio, è la faccia tipica del borgataro che Pasolini ha immortalato nei suoi racconti. Marcello con naturalezza li invita a sedere e mangiare qualcosa, almeno un bicchiere di vino. Se si fossero fermati non ci sarebbe stato posto al tavolo, bisognava allungarlo sul pianerottolo, perché la sala da pranzo è piccola. Se apri la finestra senti tutto, anche i telefonini del vicino, tant’è che Mario Pasquale ad ogni squillo tirava fuori il suo, pensando che la telefonata fosse per lui. Marcello non ci fa caso, è abituato a questi rumori e a queste voci dei vicini.
Un pranzo veramente fraterno, dove si parla ad ampio raggio, su tutto e soprattutto sulle cose che ci stanno a cuore e dei problemi che hanno radici antiche. Il tutto con umorismo.
Mario parla della sua pensione, iniziata il primo di luglio, dopo quarantatré anni di fabbrica. Ora deve pensare alla parrocchia che gli hanno appioppato, in periferia.
È bello ritrovarsi con Marcello, ti dà serenità, anche se bloccato in casa e anche se l’istituzione non si ricorda di lui, non se la prende più di tanto, è contento. Nel pomeriggio con Giovanni andiamo da Mario, nella sua parrocchia di san Bernardino da Siena, a ridosso delle colline di Frascati. C’è da lavorare molto, ma per uno che ha fatto attorno ai quarant’anni di fabbrica non esiste la paura, si è abituati al lavoro duro e soprattutto a impegnarsi per le cose che contano. Da qualche settimana fa l’imbianchino da buon prete operaio e non ha chiamato nessuno anche per dare un esempio concreto. Qui c’è una chiesa che ha una forma circolare, dove si può celebrare non in cattedra o in alto ma con gli altri. Auguri e buon lavoro.
Dopo questa visita con Giovanni si va a Frascati per un gelato. In piazza Duomo c’è una gelateria eccezionale. Frascati mi ricorda le lotte popolari del mio quartiere negli anni ‘80, l’occupazione del Comune, dove per poco non andavo a finire in galera, essendo presidente del comitato di quartiere. Altre storie, ma sempre vive in me. Il giorno dopo si parte per l’Abruzzo: Pasquale lannamorelli ci attende. Sono 14 anni che non lo vedo e l’appuntamento è sotto il ponte del treno, dopo Anversa degli Abruzzi. Mentre attendo, fermo sul bordo della strada, guardo una scritta sul pilastro del ponte dedicata “a chi ha avuto cinghiate nel sedere, agli sfigati, ai diversi per noi “normali”, a chi è se stesso, a chi sta per strada, a chi sogna ancora, ai colori, alla donna ideale, al niente per scontato, agli amici veri, a chi cerca un equilibrio, ai coraggiosi (ce ne sono rimasti pochi), alla musica, a chi urla il suo dissenso. A te che leggi la nostra libertà”. Leggere le scritte mi ha sempre attirato, ci sono messaggi bellissimi. Quando ero a Roma mi divertivo a girare per la città e fotografare tutto quello che trovavo interessante. Proiettarle in gruppo è affascinante perché ci fanno capire molte cose della realtà che viviamo, sono il polso della situazione senza tante analisi sociologiche.
Mentre sono preso da questi pensieri arriva Pasquale. È sempre lui, con quel velo di preoccupazione sul viso che lo distingue, anche perché scrivendo da anni e stampando cose alternative sente e percepisce cose nuove ed anche le problematiche di questa nostra società. Gli faccio notare la scritta e dico che fa per lui che negli anni passati di cinghiate nel sedere ne ha ricevute tante, soprattutto dai benpensanti e da …nec nominetur in vobis, quando era a Pettorano sul Gizio. Ci si è messa anche la neve qualche anno fa, che gli ha distrutto tutto quello che gli serviva per il suo lavoro ed ora anche il terremoto gli ha lesionato i soffitti di casa. Ma lui non demorde. Si va a Torre dei Nolfi, piccolo paese, dove la nostra rivista ha la sua sede. In casa di Tonino, il compagno di lavoro di Pasquale, si sente fisicamente che manca qualcuno, un vuoto: due anni fa ha perso la moglie. Prima di pranzo si va a Sulmona, anch’essa sfiorata dal terremoto. È una bella città, ricostruita splendidamente nel settecento dopo un terremoto. Da quelle parti la terra è sempre stata inquieta. Distruzione e ricostruzione: non per nulla gli abruzzesi parlano di “Aquila nostra, gagliarda e tosta”.
Nel passeggiare per il centro noto che molta gente saluta Pasquale, è conosciuto da tutti. Si parla del terremoto, di quello che sta succedendo nei campi di raccolta dei terremotati, delle sfilate del signor B., dei disagi delle persone sradicate dal proprio territorio e dalle proprie case, che difficilmente rivedranno, del clima di separazione e ghettizzazione, della proibizione a ritrovarsi in più persone, dei suicidi di molti, soprattutto anziani. Mentre si parla, il mio sguardo volge verso la montagna: Pasquale si accorge e capisce il mio pensiero. La sua energia è sempre lassù, anche se la maggior parte l’ha dimenticato, ma lui è vivo: Celestino V. Mi piacerebbe salire al suo eremo, ma c’è poco tempo. Si va a pranzo.
In due stanze ricavate da un fienile dopo la distruzione dei precedenti locali per la neve, c’è tutto quello che serve per diffondere le idee, ma si respira un’aria di speranza e mi vengono in mente le parole scritte sotto il ponte: “per chi sogna ancora, per chi urla il suo dissenso e per chi non dà nulla per scontato”. Questo è lo stile di Pasquale, sobrio, ma tenace. Coraggio, amico mio.
Nel ritorno a Roma, una sosta a Subiaco, luogo di molte soste mie e di Nicolino Barra negli anni ‘90.
Il giorno dopo si va in cerca di Luca, giovane prete, che ha iniziato il lavoro lo scorso anno in una cooperativa agricola. Per un mese ho telefonato senza beccarlo, volevo dirgli che sarei passato. Conosco la via dove abita, alcuni anni or sono vi ho fatto dei lavori di falegname. Condomini a tutto spiano, macchine accatastate nella strada e mi immagino le parolacce per parcheggiare e per uscire. Entro nel cortile, domando, suono. Ma Luca non c’è. Da alcuni mesi aveva cambiato il telefono. Pazienza, sarà per un’altra volta. Il luogo dove abita è pieno di gente, non ci sono spazi, e manca quasi l’aria: l’ideale per un prete operaio che vuol vivere con gli altri. Abita in un appartamento con altre nove persone: un prete che lavora nelle carceri, un giovane e due famiglie rumene. Aveva scelto di vivere nei campi nomadi, poi il comune ha fatto sgombrare tutti e attraverso amici è riuscito a trovare questo appartamento. Auguri anche a te Luca, benvenuto tra noi e buon cammino.
Il mattino seguente si parte per la Calabria, ospiti da Mario Spinicci. Una puntatina a Montecassino: sono 35 anni che volevo fare una visita e spesso sono passato a pochi chilometri senza mai salirci. Non mi sono emozionato, mi sembra diventato un luogo turistico e san Benedetto, guardando quel monastero, probabilmente ritornerebbe nella sua grotta di Subiaco.
In serata a Orsomarso, Mario è ancora al lavoro in ospedale e ci accoglie Maria, la mamma, con quella accoglienza che solo i calabresi sanno fare. Dallo scorso anno Mario è parroco di questo piccolo paese abbarbicato sulla montagna. Nel mese di agosto è pieno di gente che ritorna ai luoghi d’origine e di sera in piazza è sempre festa, la gente si incontra, parla, si racconta ed è contenta. Un’atmosfera paesana simpatica con canzoni popolari, balli, panini, dolci.
Una serata è stata organizzata da Mario per gli emigranti che sono ritornati. Gli vogliono bene e sa anche farsi voler bene ma nello stesso tempo, sulle idee che contano sa prendersi le sue arrabbiature da buon prete operaio. Qui c’è la Calabria vera, non quella delle speculazioni sulle coste, accogliente, che ha tanta voglia di stare insieme. Le case sono appiccicate quasi per farsi compagnia, gente che non vuole star sola e credo che non ci siano delle persone stressate e anziani che si sentano soli. La casa di Mario è come una piazza: mentre si è a pranzo e a cena entra sempre qualcuno, senza chiedere permesso e senza suonare il campanello, si accomoda: c’è un bicchiere di vino e un piatto per tutti. Questo paese sembra un luogo di altri tempi, del passato e da cartolina ma spero che questo sia anche il futuro, dopo l’ubriacatura di questi ultimi cinquant’anni che ha distrutto tutto il tessuto sociale.
Una giornata doveva essere dedicata ad una visita a Delfina: un’ora prima di partire gli telefono che saremmo arrivati. Ma l’ospedale gli ha anticipato la chemioterapia ed era in partenza per Catanzaro. Mi è dispiaciuto non incontrarla. Tre anni fa sono salito al suo paese di Acquaformosa, a ridosso della Sila. Un paese di albanesi rifugiati nel 1500, dove ancora oggi si parla quella lingua. Anche lì gente per strada e la casa di Delfina è lassù in alto come un maniero, vigile con lo sguardo sul paese. Essa ha lì il suo piccolo eremo, una stanza con tutti i volti dei personaggi a cui si sente legata e molti preti operai trovano spazio su quelle pareti. Da diversi anni ci segue nei nostri incontri, ora è affaticata, ma serena. Spesso nelle telefonate si parla di Gioacchino da Fiore, dell’età dello Spirito. Anche lui, come Celestino V, da quelle montagne della Sila, è in attesa di risuscitare, e si ha la sensazione che lui lassù sia vivo per quelle persone che credono veramente allo Spirito e che il suo messaggio abbia molto da dire all’oggi.
Sfumato questo incontro, andiamo a Diamante, sul mare. Un paese bellissimo, è il paese dei murales. Veramente ci sono messaggi strepitosi su quei muri, poetici, ma soprattutto di protesta e messaggi di speranza.
Con questi ricordi, volti, incontri, ritorniamo a Roma passando per Napoli. È una città stupenda, non c’è solo la monnezza, ma qualcosa di meraviglioso nei quartieri spagnoli e attorno al porto: anche lì i muri parlano, pieni di scritte, di messaggi e murales di ogni i tipo. Finché la gente scrive e grida significa che c’è ancora un futuro.
Mario Signorelli