Memorie vive: Gianni Chiesa (4)
1° / Rovato, 29-30 gennaio 1988
Verso la metà (fine) del 1985 ero arrivato a parlare, con i PO di Bergamo, del nostro progetto (sogno?) di dare vita ad una comunità d’ambiente (non territoriale come la parrocchia) nell’ambito del lavoro dipendente, e ai tentativi di coinvolgere in questo progetto il Vescovo, associazioni cattoliche diocesane, alcuni preti e alcune persone sensibili a questa problematica. Con alcuni lavoratori, credenti e non, abbiamo cercato di tradurre concretamente il progetto in esperienza di vita, di ricerca, di fede.
Il Vescovo ha escluso che esperienze di questo tipo potessero aver posto nel suo piano pastorale; alcune associazioni cattoliche diocesane ci hanno ascoltato, anche con interesse, ma all’ascolto non è seguito nulla di fatto; i preti interpellati in un primo momento hanno allargato l’ambito della riflessione, poi ci siamo persi nei nostri impegni e priorità senza che nessuno ritrovasse il coraggio o valutasse l’opportunità di riconvocarci. Le persone che dovevano concretizzare il progetto si sono trasformate in gruppo di preghiera che si riunisce regolarmente.
Di fronte alla convinzione della bontà della intuizione di una comunità di credenti fondata in ambiente di lavoro dipendente e alla non possibilità, in questo momento, di realizzarla ( l’impossibilità si è manifestata verso la fine 86 ) mi sono posto alcuni interrogativi e ho ricercato una “spiritualità” e un modo di vita adeguati alla nuova realtà.
1. GLI INTERROGATIVI
Ha senso ancora fare il PO e, se sì, in quale modo, o non è piuttosto il caso di rientrare nelle tradizionali strutture ecclesiali?
La risposta è data dalle scelte di vita. Tuttavia mi sembra utile sottolineare che la riflessione mi ha portato alla convinzione che l’esperienza dei POcome esperienza collettiva di “gente di confine” in grado di incidere nelle comunità dei credenti e nell’ambiente del lavoro (nella cultura operaia?!) sia finita e che occorra “fare”, “elaborare” di nuovo perché non si può passare una vita a giustificare quello che si è stati, e/o a trovare le motivazioni teoriche di quello che si è o si vorrebbe essere.
Ritengo ancora feconda ed evangelicamente fondata la fedeltà alla scelta di laicità e di condivisione della vita della gente nel lavoro operaio sull’esempio di Gesù. Ho perciò ricondotto il mio essere P.O. ad una cosciente testimonianza di vita.
Ho già accennato a queste riflessioni-convinzioni nell’incontro del settembre scorso e rimango convinto della necessità di una riflessione collettiva approfondita.
Sulla base di questa convinzione e del mio non inserimento in strutture ecclesiali mi sono interrogato sul senso della mia appartenenza alla Chiesa e del mio essere prete. E’ stata una verifica non facile e radicale, che in alcuni momenti ha messo in discussione la mia appartenenza alla Chiesa e l’essere prete; restava solo la fede in Cristo Gesù, Signore.
Rispetto alla chiesa
ho maturato la convinzione della possibilità di essere in comunione con essa (riguardo alle scelte fondamentali di vita e alla fedeltà ad esse) nell’amore e nella libertà, senza essere impegnato nelle sue strutture e dipendente dalla gerarchia (Al Vescovo ho riconosciuto l’autorità di chiedermi obbedienza e l’ho sollecitato ad esercitarla. Egli ha dichiarato che si sarebbe limitato ad esprimere il suo desiderio, cioè che io domandassi di andare in una parrocchia ed abbandonassi il lavoro).
L’amore e la libertà nei confronti della Chiesa di Bergamo si traduce nel desiderio di volerla povera (economicamente, di potere e di strutture) per i poveri, incarnata e testimone, e nell’aspettare il “tempo favorevole” in cui poter dare uno spessore ecclesiale e pastorale a ciò che oggi vivo nella testimonianza ( la mia rimane una vocazione presbiterale, non monacale ). Devo dire che l’ipotesi del cambiamento del vescovo (per motivi di salute) ha ridestato in me la speranza di una possibilità di riaprire la ricerca e la fondazione di una comunità d’ambiente nell’ambito del lavoro dipendente.
Rispetto all’essere prete
ho percorso una ricerca di fede a partire dalla lettera agli Ebrei e dalla situazione concreta della mia vita. Essa ha consolidato alcune convinzioni che cerco di vivere nella vita quotidiana e di tenere vitali nella preghiera. Riporto, per dare un’idea di questa ricerca, alcuni passaggi di un intervento fatto all’assemblea del Prado e preparato con altri preti, tra cui Piero Lanzi. Esso riguardava i consigli evangelici e le beatitudini rispetto alla vocazione pradosiana.
“Le beatitudini non ci mettono in difficoltà di fronte alle scelte di laicità e di condivisione della vita della gente perché ci richiedono di diventare segno per il mondo non attraverso la separazione da esso, ma attraverso l’incarnazione.
Rispetto ai consigli evangelici incontriamo difficoltà (che ci appaiono) non mediabili con le scelte di vita soprattutto riguardo alla obbedienza e alla castità. La più parte di noi infatti pur restando e volendo restare Chiesa, e riconoscendo la necessità di una struttura, gerarchia e disciplina, non riconosce alla gerarchia autorevolezza rispetto ad una serie di temi che vanno dalla visione politica del mondo, alle traduzioni etiche dei valori evangelici, alle modalità di rapporto con il mondo che è una realtà in cui lo Spirito è già all’opera e non una realtà da “sacralizzare”, convertire. In positivo la obbedienza per noi si fonda su “beati coloro che desiderano quello che Dio vuole”, nella fedeltà alla irrinunciabile scelta di laicità e di condivisione della vita della gente, nella convinzione che certe tentazioni e demoni si scacciano con la preghiera, il digiuno e l’elemosina. Cerchiamo perciò di essere fedeli nella preghiera (confronto Parola-vita e continua tensione nella conoscenza di Gesù), nella disciplina di vita e in una pratica di solidarietà, anche economica, internazionale, cercando di realizzare in essa un’attenzione a realtà di povertà che interpellano gli stessi poveri con cui siamo impegnati e coinvolti. Facciamo ciò con una convinta e serena libertà di coscienza e con la consapevolezza che in questa fedeltà realizziamo il nostro sacerdozio comune e ministeriale. Ciò vale anche per coloro che per varie vicende vivono ai margini della struttura ecclesiale e sono esclusi da responsabilità ecclesiali specifiche. Ci dà questa serenità la consapevolezza che “Cristo, pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek” (Ebr.5,8-10, vedi anche v. 7). Esiste un legame profondo fra l’obbedienza alla realtà e la proclamazione di sommo sacerdote. E’ questo processo di condivisione della vita degli uomini che rende Gesù sommo sacerdote fedele ai suoi impegni verso Dio e liberatore del popolo dai suoi peccati. “Per questo anche Gesù è diventato come loro, ha partecipato alla loro natura umana. Così, mediante la propria morte, ha potuto distruggere il demonio che ha il potere della morte; e ha potuto liberare quelli che vivevano sempre come schiavi per paura della morte. Per questo doveva diventare del tutto simile ai suoi fratelli. Così è stato per loro un sommo sacerdote misericordioso, degno di fede nei confronti dei suoi impegni verso Dio, e ha liberato il popolo dai peccati” (Ebr 2, 14-17 vedi anche vv. 9-10).
Per esercitare il sacerdozio Cristo risponde perfettamente ad una duplice condizione: una posizione privilegiata rispetto a Dio (figlio, accreditato presso Dio, degno di fede…) e una straordinaria solidarietà con gli uomini per poter venire in aiuto alla loro miseria: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, ma uno che è stato lui stesso provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato” (Ebr 4, 15). Per noi questa duplice condizione si esprime nei confronti di Dio nel vivere la beatitudine: beati coloro che desiderano ciò che Dio vuole; e nei confronti degli uomini nel condividere pienamente e in tutto la loro vita eccetto il peccato, cioè in maniera opposta al vecchio Adamo che pensava di realizzare la vocazione storica dell’uomo nel “diventare uguale a Dio”, con le conseguenze espresse nei racconti eziologici della creazione. E’ attraverso questo “cammino” (cfr. viaggio di Gesù a Gerusalemme dove il Figlio dell’uomo sarà…) che l’autore della lettera agli ebrei supera definitivamente il sacerdozio del V.T. e, per la prima volta nella storia delle prime comunità cristiane, fonda l’unico sacerdozio di Cristo cui tutti partecipiamo con il battesimo. L’ordine, come timidamente ha cominciato a dire il Vat. II°, ha solo una funzione ministeriale, nella categoria perciò della funzionalità, del servizio (rispetto all’aiuto solidaristico con l’uomo, per venire incontro alla sua miseria), e non, come purtroppo avviene, nella linea della distinzione e della gerarchia. Va notato al riguardo che molta più incidenza delle intenzioni e delle dichiarazioni, hanno i comportamenti, i linguaggi, i riferimenti teologici, le tradizioni…
Ci limitiamo a porre alla attenzione di tutti alcune provocazioni che nella nostra vita hanno molta incidenza e che vorremmo fossero prese in considerazione da tutto il Prado al fine di coglierne tutte le implicazioni vitali e teologiche. Riteniamo che la riscoperta e il reinserimento della spiritualità pradosiana ( conoscenza di Cristo, condivisione vita dei poveri, laicità, radicalità evangelica . . .) in un ambito vitale e creativo sarebbe facilitata da scelte più radicali di condivisione e da una disciplina conseguente. Ciò permetterebbe anche l’assunzione di un linguaggio comune tra di noi, l’acquisizione di sintonie teologiche e una più alta capacità di comunicazione con il mondo.
Tenuto conto della realtà specifica della Chiesa e del Prado italiano grande attualità assume ancora l’essere “come loro”, cioè senza alcun privilegio, neppure di ruolo, consenso, conoscenza . . . “essere come loro”:
– nel vestire, mangiare, nella casa . . .
– nel lavoro, nelle difficoltà della vita, nelle disgrazie . . .
– nel non avere alcuna struttura (ecclesiale o sociale) propria, e non usare di alcuna opera/struttura. Chi vive in parrocchia potrebbe rinunciare a tutto, limitarsi ad alcune funzioni ministeriali essenziali, condividere realtà laiche, affidare la gestione della parrocchia alla gente, accettando anche il rischio del fallimento; chi vive nel volontariato e nelle varie aggregazioni esistenti può operare perché perdano qualsiasi etichetta cattolica, “non devono più esistere i cappellani”; chi lavora o milita in organizzazioni laiche non si serva di loro e verifichi il suo essere “segno” del Regno nella fedeltà agli imperativi delle beatitudini.
Spogliati di tutto e diventati in tutto simili agli uomini ricomincia ad essere vitale il cercare cosa significa credere, sperare, amare . . . annunciare il nome di Cristo a chi non crede . . . cogliere la Grazia che si diffonde e gioire . . . riscoprire il senso del proprio sacerdozio e della vocazione pradosiana. Evidentemente a questa proposta è sottesa una precisa ecclesiologia che andrebbe approfondita e discussa. Importante in questo cammino è la capacità di assumere il linguaggio, la cultura . . . della gente, abbandonando progressivamente quello ecclesiastico che è ancora dominante nei nostri incontri, teologie. . . In tutto simile agli uomini, con l’unica eccezione del peccato.
Quanto proposto non è molto, ma certamente dirompente se si assume fino in fondo e se attiviamo rigorosi momenti di verifica individuali e collettivi.
2. LA SPIRITUALITÀ E IL COSTUME DI VITA
A livello di spiritualità e di costume di vita ho cercato di prendere sul serio e di lasciarmi provocare dalla “condivisione”, dallo “spogliamento” (kenosi), così come è presentata da Filippesi e dalla lettera agli Ebrei, e di rivedere alla luce di essa le mie coerenze e la mia disciplina interiore.
I filoni su cui in questi mesi mi sono ritrovato sono:
- Una riflessione sulla morte-risurrezione (utilizzando il metodo dello studio del Vangelo imparato al Prado) provocata dalle ripercussioni che hanno avuto in me il suicidio di un compagno di lavoro da alcuni mesi in pensione. (cfr. fogli allegati)
- L’esigenza e la ricerca di una profonda purificazione per poter accogliere la chiamata e la grazia di Dio. Essa è partita dalle difficoltà che incontro ad accettarmi limitato . . .; ad accettare di non contare, non avere ruolo, non essere cercato. . .; dalle dinamiche che si sviluppano in me quando non riesco a fare prevalere le mie idee. . .; dalle reazioni interiori che provo quando non sono approvato, valorizzato . . .
In questo periodo è maturata in me una preghiera più intensa, momenti, a volte anche prolungati, di meditazione, esperienza personale di peccato e di grazia. . ., la consapevolezza che Dio agisce in me e il presentimento che sta indirizzandomi su strade il cui sbocco mi è del tutto sconosciuto.
Gianni Chiesa
2° / Rovato, 22-23 settembre 1989
Non mi soffermo sulla storia del mio essere PO; preciso solo alcuni nodi che ritengo essere distintivi:
- vivo al di fuori di qualsiasi struttura ecclesiastica e sono praticamente ignorato da essa (struttura, uomini, e organizzazioni ecclesiali);
- lavoro per un’impresa d’appalto della Dalmine e intendo rimanere PO (operaio) fino alla pensione.
Scorrendo la traccia di riflessione proposta posso sottolineare:
1.a / Le scelte fatte:
- condividere la vita dei lavoratori dipendenti come operaio entrando in fabbrica senza raccomandazioni, ruoli, … IN MODO ANONIMO come qualsiasi altro lavoratore;
- abbandonando qualsiasi ruolo e impegno ecclesiastico per poter condividere fino in fondo;
- lasciandomi progressivamente coinvolgere nel movimento operaio attraverso una rilettura storica e sociologica di quanto avevo appreso precedentemente, attraverso compromissioni a livello sindacale e politico.
NB: ritengo sia stato importante aver “dovuto” scegliere un’organizzazione sindacale e aver militato in un partito politico (Manifesto prima, PdUP dopo); - lasciando metter in discussione tutto il mio bagaglio teologico e spirituale, salvo il mantenimento di un continuo confronto con la parola di Dio nella preghiera e un’attenzione alla dimensione ecclesiale delle mie scelte.
Questo aspetto, unito all’abbandono di ruoli e impegni ecclesiastici mi ha portato per un lungo periodo ad essere un “credente non praticante” ed attualmente a dover continuamente ricercare le modalità della concretizzazione dell’essere prete; “non dobbiamo essere schiavi dello Spirito; dobbiamo rinnegarlo se vogliamo che Esso sia con noi” (Andrea Emo); - rifuggendo le facili sublimazioni e/o rimozioni e ricercando il necessario equilibrio umano-affettivo in esperienze di vita comunitaria prima e in fedeltà ad amicizie concrete poi ( considero questa vfedeltà un versante della mia vocazionalità impegnativa ed esigente come quella del prete ).
1.b / Le azioni, i fatti, le cose che faccio
- Lavoro come un normale operaio metalmeccanico e sono delegato sindacale; ho dato una disponibilità alla FIM-CISL di Bergamo per la formazione sindacale;
- da un paio d’anni sono interessato al problema dei lavoratori immigrati extra comunitari ma non sono riuscito a concretizzare il mio impegno in organizzazioni esistenti a Bergamo ( sono settarie e indisponibili ad un lavoro unitario.
Sto riflettendo rispetto ad una possibile collaborazione con il CESVI (organismo di volontariato internazionale) e il PCI (senza iscrivermi); - faccio parte di un gruppo di preghiera che si trova ogni lunedì, aiuto personalmente una decina di persone a confrontarsi con la parola di Dio; sto cercando di favorire il consolidamento di un gruppo di riflessione antropologica a partire dalle proprie esperienze di vita e la nascita di un altro gruppo di riflessione biblica;
- cerco di pregare e confrontarmi con la parola di Dio e, nell’incontro con le persone e i gruppi, di essere fedele “alla missione affidatami dal Signore Gesù di annunziare a tutti che Dio ama gli uomini” ( Atti 20, 24 );
- tengo ancora un occhio al Prado;
- sogno la nascita di una comunità di fede inculturata nel mondo del lavoro dipendente;
- cerco di leggere qualche libro di teologia, qualche saggio di storia, di economia e di letteratura.
2. / Le riflessioni socio-politiche e biblico-teologiche che le sostengono
Da un punto di vista socio-politico, per slogans potrei dire:
- la consapevolezza della pervasività della politica e la necessità di una continua analisi politica, di avere strumenti e riferimenti per questa analisi (riferimenti e strumenti “laici” cioè slegati da ogni visione integralista-clericale o ideologica), di un collettivo con cui confrontarsi e ricercare;
- la rigorosa “laicità” della politica (il cammino percorso potrebbe avere le seguenti tappe: dall’integrismo, all’ideologicismo… alla laicità);
- la “parzialità” e la “limitatezza” della politica (a questo proposito ricordo uno stimolante articolo di Roberto Berton su Servitium nel 86 o 87);
- la necessità di schierarsi, essere “di parte”nella pratica politica;
- la convinzione che senza una mediazione politica i valori non possono diventare storia.
Da un punto di vista biblico-teologico, sempre per slogans:
- una teologia che ha il proprio fondamento nella Parola di Dio e non nelle “verità della fede”;
- una Parola di Dio che si “fa carne” nelle realtà concrete, nella storia degli uomini e non nelle affermazioni di principio;
- una concezione di Chiesa come “sacramento” del progressivo realizzarsi del Regno sotto l’azione dello Spirito che soffia dove vuole e non come “cristianità” cui tutto deve rivolgersi e tutti convergere, e che, comunque, tutto vuole assimilare;
- una concezione di Dio che “concedendo all’uomo la libertà, rinuncia alla sua potenza. Dopo essersi affidato totalmente al divenire del mondo, Dio non ha più nulla da dare: tocca all’uomo dare” (Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz);
- una storia della salvezza (mi riferisco ai paesi ricchi, sviluppati e secolarizzati) non più ritmata sulle gesta di Dio compiute nell’esodo (liberazione), ma su quella del suo Figlio che “non ritenne un privilegio il suo essere uguale a Dio…” (Fil. 2, 5ss);
- una riscoperta della priorità del battesimo e della Eucarestia (sacramenti che agiscono ontologicamente) rispetto a quelli di tipo funzionale (matrimonio, estrema unzione, ordine) e quindi del sacerdozio comune dei fedeli prima ancora di quello donato nell’ordine.
3.a Le difficoltà, paure… incontrate
- solitudine
- sensi di colpa ( la mia è superbia, amor proprio ?…)
- incomprensioni
- fatica ad accettarmi limitato e a saper crescere partendo dai propri limiti e sbagli
- fatica ad accettare di non essere valorizzato, approvato…
insomma tutte le paure e difficoltà che derivano dalla non sicurezza di aver accettato le condizioni necessarie alla sequela di Gesù: “ Se qualcuno viene con me e non ama me più del padre e della madre, della moglie e dei figli, dei fratelli e sorelle, anzi, se non mi ama più di se stesso, non può essere mio discepolo. Chi mi segue senza portare la sua croce non può essere mio discepolo “ (Lc. 14, 25-27).
3.b / Le liberazioni maturate e le scoperte fatte
- dalla paura, dalle dipendenze, dal bisogno di appartenenza e di approvazione, dalle norme e dalle regole… dal moralismo e dal volontarismo, dal dover essere…
- la necessità di tradurre le “prese di coscienza” in azione: “ora conoscete queste cose, ma sarete beati quando le metterete in pratica” (Gv. 13,17)
- tutto, anche il peccato e lo sbaglio, è grazia
- il dono della libertà di coscienza e la fedeltà e fatica che il suo uso comporta
- i valori della collaborazione e della professionalità, e la necessità di un metodo e di una disciplina per attuarle.
4.a / Con quali discipline le sostengo
- mantenendo viva la preghiera (quotidiana, settimanale, momenti forti durante l’anno) cercando di praticare la preghiera incessante attraverso l’invocazione del nome di Gesù
- accettando una verifica costante rispetto alla fedeltà alla mia vocazionalità
- uso non dissipato del tempo
- ricercando una comunità di fede inculturata nel mondo del lavoro dipendente e vivendo l’attesa con fedeltà e speranza
- cercando di incontrare gruppi e persone con gli stessi sentimenti di Gesù.
4.b / Quale spiritualità ne deriva
Non so rispondere a questa domanda.
Gianni Chiesa