Testimonianze
Scrivo per offrire un contributo, un’angolazione di cose che vedo e sento: analisi, riflessioni, domande, punti di vista bisognosi di integrazioni parziali proprio perché emergenti da una vita che è solo un pezzo, solo un modo di vivere.
Scrivo anche per rendere ragione della speranza che è in me: un esercizio questo non facile anche perché costringe a fare chiarezza “in chi credo, in chi ho posto la mia fiducia”.
Diventa occasione per riscoprire, per riascoltare il mandato ricevuto: essere come membro del presbiterio diocesano segno di una chiesa che desidera, attraverso la condivisione del lavoro, farsi compagnia a quanti vivono questa realtà.
Da 20 anni condivido la condizione operaia: metà della mia vita attuale è trascorsa nella campagna con uomini e donne che vivono del lavoro delle mani.
Una grande grazia, un grande dono di cui ringrazio il Signore della vita.
Ed è questa condizione di vita che continua a sollevare perplessità. Raccolgo obiezioni espresse e sottintese: serve ancora oggi a questa nostra chiesa diocesana un prete al lavoro? Non c’è forse bisogno in questo momento che tutte le energie convergano nel far fronte ai bisogni, ai ‘buchi’ della diocesi? Forse che il ministero del presbitero diocesano non è essenzialmente quello del pastore = parroco?
Anche dai verbali del Consiglio presbiterale là dove si tocca, sfiorando, questo problema, ciò che emerge è la speranza (o l’augurio) di un recupero di tale esperienza alla pastoralità.
Questa preoccupazione funzionale oggi prevalente dentro la chiesa temo sia l’ostacolo che permane alla accoglienza delle persone, delle loro vite, dei pezzi di esperienze che portano, della ricerca di fedeltà all’unico evangelo.
E questo non è bene per la chiesa! La centralità di problemi ecclesiali rischia di far perdere di vista che il cuore del senso cristiano della vita sta nel fare dell’evangelo il riferimento centrale per tutti.
Penso che solo questo primato accolto e vissuto può favorire una rivitalizzazione ecclesiale oggi necessaria, una ripresa del gusto, della gioia di essere nella chiesa uomini e donne chiamati a seguire l’unico Signore secondo i doni ricevuti.
Accanto a questo è necessario che venga favorito l’incontro tra diversi, il dialogo tra esperienze, la circolazione di voci: perché non sappiamo godere dell’articolata diversità esistente? Perché si ha paura di favorire il pluralismo di presenze?
Mi pare che da temere siano l’anonimato, il grigiore, la perdita del gusto del pensare, del cercare. Unica è la fede, ma essa va vissuta, celebrata, testimoniata all’interno della vita che è varia, molteplice, che sfugge agli schematismi, che non è riconducibile a logiche organizzative.
Chiesa a servizio della fede e noi ministri = servi della Parola, senza la quale non è possibile alcuna esperienza del Dio della Bibbia, del Dio della rivelazione.
Serve ancora un preteoperaio?
Forse un preteoperaio può ricordare con la sua presenza spesso solo silenziosa (o ridotta al silenzio)
* che nella chiesa del Signore gli uomini e le donne del lavoro faticano a trovare spazio e accoglienza, faticano a sentirsi a casa propria;
* può ricordare che il lavoro è esperienza umana fondamentale alla costruzione armoniosa di ogni vita e che il lavoro non è un hobby ma un comando del Signore dato a tutti;
* forse può essere di aiuto, di stimolo nella ricerca del cosa è “sacerdozio, ministero” nel momento in cui esso scivola verso una configurazione di professionalità come tante altre e viene meno il suo carattere di gratuità;
* forse, contribuisce a ricordare che nessuno esaurisce l’unico sacerdozio, quello di Gesù, e del quale noi partecipiamo nella misura in cui teniamo alta la ricerca di una fondamentale obbedienza a Lui e di una profonda solidarietà con gli uomini;
* forse perché scarnificato dalla vita, non risucchiato dentro le strutture parrocchiali, contribuisce a far emergere elementi essenziali della vita cristiana: l’essere discepoli, l’essere servi: ma di chi? Il prete è servo di chi?
Aggiungo ancora una riflessione sulla diversità e sulla comunione.
Ritengo che la diversità ancora esistente all’interno del presbiterio è ricchezza, non è un attentato all’unità e alla comunione perché le vere relazioni tra persone suppongono una accoglienza e una valorizzazione di ciò che l’altro porta e vive (chiunque egli sia).
È questa la caratteristica dell’ “ecclesia” dove si è insieme perché tenuti insieme dallo Spirito, quello Spirito che distribuisce i suoi doni come vuole e impegna ciascuno per l’utilità di tutti.
Pastorale… evangelo
La vita quotidiana è molteplice; ciascuno esperimenta complessità e varietà di aspetti. Spesso si vive nella dispersione, nello sparpagliamento delle esperienze: mancano momenti unificanti.
La pastorale deve rincorrere queste situazioni (lavoro, famiglia, politica, salute, scuola ) o ricondurre la persona a unità, sintesi, all’essenziale?
Temo che tante specializzazioni allontanino dal nucleo essenziale, dal far emergere l’essenziale, dal ricordare l’evangelo come buona notizia che è possibile anche oggi esperimentare Dio.
Mi pare che la pastorale è a servizio di questo interrogativo: è possibile e come esperimentare Dio all’interno della nostra società? E chi è il discepolo di Gesù oggi?
Davanti a queste domande sfuma la preoccupazione di essere chiesa come agenzia culturale o etica e prende vigore la ricerca di essere chiesa come luogo di permanente educazione (educare educandosi) all’esperienza / incontro con Dio.
Forse è opportuno e necessario riflettere ancora molto su questo.
Vorrei terminare qui: ma mi affiora ancora una domanda: se nella “ecclesia” non c’è accoglienza della diversità, si può stare davanti a Colui che è tre volte “altro” da noi?
Questa accoglienza di ogni uomo e di ogni donna mi pare una strada che consente alla chiesa di non essere una pesante mediazione nei confronti di Dio ma le consente di restare, come Giovanni il Battista, indicazione, voce, polvere, testimonianza attraverso cui è possibile vedere il volto del Signore…