Preti in condizione operaia
Impronte / dai racconti dei PO lombardi
«Siamo in un deserto e volete lettere da noi?»
Questa frase di Annibale Caro è stata ripresa da Giorgio Caproni, come esergo alla sua raccolta di poesie “Il muro della terra”, per esprimere l’impossibilità di parlare in certe condizioni. E come non convenire nel tentare di comunicare le ripercussioni che la condizione operaia ha sulla vita dei PO?
E tuttavia intuiamo anche che lo sforzo di dire trova proprio nella durezza della vita lo stimolo necessario. “Io posso scrivere solo su ciò che mi inquieta” (Christa Wolf).
Provo dunque ad esprimere alcuni segnali di inquietudine che attraversano la vita dei PO, spesso costretti “tra il vuoto e il tragico”.
Innanzitutto ripercussioni negative, segnali di distruzione.
«Sommarsi lento di giorno dopo giorno…, sperduto nella massa senza protagonismo individuale, senza ruolo giuridicamente riconosciuto, senza privilegio di sorta rispetto alla normale vita di fabbrica di un operaio, a contatto diretto e continuo con il comportamento di massa che si subisce in condizioni di espropriazione, alienazione, sfruttamento, sperso in un fiume che mi circonda dappertutto… molecola tra le molecole. Questa condizione accettata senza concedersi nessuna scappatoia o attenuante, esercita anche su di me la sua potente capacità distruttiva di energie di vita».
«Stanchezza, stanchezza enorme, mal di stomaco, caldo soffocante nei reparti tessitura, bevendo una refrigerante acqua fredda, gastrite… a volte giunto a casa mi buttavo sul letto sfinito (dopo aver trasportato 250 quintali di cotone potevo averne ben diritto). Dopo un po’ di ore mi alzavo per mangiare qualcosa, poi mi ributtavo sul letto fino all’ora del lavoro. (Ho sperimentato che morire sarebbe stato facilissimo, bastava non reagire). Ma io dicevo: “questa è la condizione normale del lavoratore; se ce la fanno gli altri, ce la devo fare anch’io”. Non ho mai preso un giorno di malattia. In pochi mesi sono passato da 80 a 65 chili. A volte di notte avevo gli incubi, avevo gli “stirato” in camera e lavoravo tutta la notte come un forsennato. Avevo perso il contatto con preti, laici, parenti per due anni…».
«Lavoro pesante e nocivo; lavoro tremendo e impaurente; lavoro a 3 turni, distruggente ogni cosa. Il lavoro faticoso. La paura di non farcela fisicamente. La rovina fisica. I turni che ti tolgono il vivere sociale. Quando adesso, alla sera vado regolarmente a dormire il mio pensiero è là, dove alle 23 iniziava “la notte”…».
Distruzione, paura e anche odio: «mi prende l’odio per chi non ha vissuto queste cose… e non le vuole riconoscere. Chissà perché proprio l’odio… ci ripenso e capisco il perché: è l’odio verso la menzogna che impedisce la conoscenza di cosa è l’operaio».
E poi l’angoscia: «i momenti più difficili sono stati (e sono) coincidenti con l’esperienza dell’angoscia (perdita di senso e di direzione): sensazione di morte. Sul piano del lavoro l’ho avvertita ogni volta che mi sono sentito in balia degli altri, nell’impossibilità di difendermi perché il potere era in mano agli altri».
«Solitudine, sensi di colpa (la mia è superbia, amor proprio?). Incomprensioni, fatica ad accettarmi limitato e a saper crescere partendo dai propri limiti e sbagli, fatica di accettare di non essere valorizzato, approvato…».
«Ho sperimentato la verità dell’espressione: “l’oppressione modifica la mente e la personalità dell’oppresso”. L’oppresso si fa complice dell’oppressore, è convinto di sbagliare ma la sua coscienza lo tranquillizza quando può fare “qualcosa per il padrone”».
Chi di noi vive in condizioni lavorative meno pesanti, percepisce la banalità dell’esperienza:
«La mia condizione materiale non è delle più dure perché il lavoro tutto sommato è noioso ma non pesante né stressante: è piuttosto la condizione di chi ha dovuto sposare una donna che non amava ma verso cui nutriva una certa simpatia e che ora si tiene perché non ci sono alternative, anche se la realtà si è rivelata ben più banale di quanto si fosse immaginato. La costante del mio vivere in fabbrica è proprio la banalità».
E anche il senso dello spreco: «ho sempre vissuto come enorme peso la faticosità dello specifico lavoro che mi è capitato, lo spreco di tutte le mie giornate dentro lì, la primordialità dei rapporti umani che mi si offriva».
A tutto questo si aggiunge la solitudine, l’emarginazione ecclesiale e la repressione padronale. “Molti PO hanno subito ‘repressioni padronali’ a causa del proprio impegno politico-sindacale… In occasione di ristrutturazioni aziendali i PO sono sempre tra i primi ad essere licenziati o messi in cassa integrazione ‘a perdere’…».
Ripercussioni negative, ma non solo . Perché “alcuni, sotto un esilio di stenti, sono dei re” (E. De Luca). E così, nella pesantezza della condizione operaia non tutto è distrutto.
Molti sperimentano il valore della condivisione (qualcuno, però, vive in condizioni che fanno emergere la difficoltà di condividere, la problematizzazione di questa tendenziale forma di vita: «ho incontrato la sventura di massa di un’istituzione fatta per contenere e reprimere, dove si andava dalla sofferenza psicologica acuta alle situazioni di oligofrenia e di semincoscienza. Mi era impossibile ‘essere come loro’: non parlo solo dei ricoverati ma anche dei compagni di lavoro».); la valorizzazione del “quotidiano”:
«Nel pronunciare, vivere il quotidiano, cerco subito di legarmi con l’utopia (speranza) mia e di coloro che condividono con me questo spezzone di vita. Descrivere il quotidiano è difficile perché di per sé abbastanza banale e aggrovigliato: …una “foresta di dettagli”, di particolarità praticamente identiche, con connotazioni più o meno positive – negative, piacevoli – spiacevoli, dove la progettualità (di felice memoria!) è utopia, dove le”grandi idee” sembrano non aver senso, a meno che questa progettualità riesca a investire una particolarità che si aggiunge all’altra particolarità – riscrivere il giorno dopo quello che è stato il giorno prima – e questo riprovare entri in un progetto. Ma che fatica! E quante cancellature… Eppure è “dentro” in questo quotidiano, nella mia – nostra piccola storia che mi gioco la mia dignità. È lì che “esisto”, è lì che faccio le prove delle mie qualità di uomo, è lì che faccio atti di uomo, atti di presenza, quindi è lì che faccio politica».
«Sono ridiventato uomo tra gli uomini. Riacquistare questo spessore umano scegliendo di fare parte della classe operaia perché il lavoro manuale ti dà la dignità di guadagnarti da vivere…».
«Non scegli i compagni e le compagne di vita per credo religioso, politico, non per affinità o aree culturali, e quindi il convivere diventa un lento affinamento del rispetto della persona, di ogni persona; per mezzo di questo “convivere quotidiano” mi è stato possibile ripensare l’impostazione della vita nel suo complesso: i valori, le relazioni, le funzioni, gli affetti, l’economia».
Le ripercussioni si notano sul fronte del pensiero: «in questa condizione verifico un reale svantaggio rispetto alla capacità di elaborare continuamente un lucido pensiero globale che riesca a tenere assieme tutti i molteplici e variabili aspetti in cui va via via complessificandosi il problema sociale. E quindi mi sto riconciliando (sono costretto a riconciliarmi) col fatto di essere portatore di una parzialità».
Un pensare diverso che nasce da uno sguardo diverso: «Gli occhi dei poveri sono diventati lenti di analisi e filtro con cui cerco la verità in un mondo spesso di menzogna e di non amore».
Uno sguardo parziale, ma proprio per questo meno ideologico: «dopo sospetti, giudizi, squalifiche… anni di condivisione della vita operaia hanno permesso un incontro sui fatti più che sulle categorie culturali».
«Accettando di essere molecola tra le molecole nel grande fiume del proletariato forse non si è più in grado di avere il largo sguardo di orizzonte che si può permettere chi si siede su una collina ad osservare il corso; ma senz’altro si percepisce più vitalmente “la spinta verso il mare” e si è meno esposti al rischio di intessere elaborazioni ideologiche, dove questa passione per il mare non si capisce più che fine abbia fatto».
«Ho sempre diffidato di quelli che parlano dell’“esperienza”, soprattutto quando mi sono trovato immerso nella vita, nella vita dei poveri, degli operai, dei drogati, dei carcerati, degli stranieri, dei senza famiglia. Sono anni che abito in una casa di 40 metri quadri. Di lì sono passate decine di persone, tante decine. Persone vive, cariche di sentimenti, di problemi, di sofferenze, di drammi, di tragedie, qualche volta. Parlare di loro mi sembra sempre di bestemmiare, di nominare il nome di Dio invano; sicuramente ho sempre paura di strumentalizzarli, i miei amici, coi quali ho condiviso sempre tutto: il piatto di minestra, il letto, la spesa, i guai, i casini, la polizia, i fogli di via, la fame, la lontananza dai figli e i pochi divertimenti».
Non più un guardare e un pensare “in nome di” o “al posto dì”, perché «occorre por fine al branco che si riunisce attorno al Capo».
«Alcuni nodi teoretici che sostengono la mia pratica sono riconducibili alle tematiche della non delega, della necessità di essere organizzati e l’apparentemente invincibile destino di ogni organizzazione a burocratizzarsi e a degenerare, come far politica senza sradicarsi dalle condizioni… Le strade che mi hanno condotto a questo mi si sono autogenerate semplicemente dal tenere testardamente ferma la voglia di far politica “da lì”. Accompagnata dalla sensazione che le radici del tumore si annidino esattamente lì, nel momento in cui per far politica si esce da “lì”, si inizia la “professionalità” (il “mestiere”)…».
Un’ultima ripercussione del vissuto operaio dei PO che vorrei sottolineare è la rilettura dell’esperienza di fede. Una ripercussione “liberatrice” “anche se legata profondamente a momenti (non pochi per la verità) di “vertigine”, di vuoto, perché non servono più e non devono più servire gli schemi, le sicurezze, le stampelle tipiche della mentalità e della cultura cattolica e clericale in specie.
Si scopre, allora, un Dio totalmente gratuito, “inutile”; si fa esperienza quindi, della totale gratuità e “inutilità” del credere, come è gratuito e “inutile” amare.
Molti, in condizione operaia, hanno maturato una “sensibilità Kirkegaardiana” che riconosce con sempre maggior lucidità la «puzza d’imbroglio che sta sotto a ogni parola di religione rivolta al popolo; la conseguente estraneità del popolo a qualunque proposta impegnativa sul fronte religioso; l’inefficacia storica di eventuali lotte tutte interne al recinto ecclesiale, perché il soggetto del cambiamento non è lì dentro ed è chiamato a lottare altrove; il rischio che più vado avanti, più è facile che mi ritrovi “estraneo a mia madre”, rischio che però mi sembra necessario correre per diventare sempre più adulto (“chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Chi fa la volontà di Dio…”).
Dunque esigenza di un ripensamento radicale (“vino nuovo in otri nuovi”) e consapevolezza critica del rischio che questa sfida comporta («la paura più grossa, il tormento che mi accompagna ogni giorno è quello di aver innescato un processo di radicale ‘relativizzazione’ della fede»).
Credo che queste poche righe diano almeno l’idea di una condizione vissuta come “incubo”, nella quale, tuttavia, affiora anche un “sogno”, una passione liberatrice, a cui, in conclusione di articolo, vorrei dar eco con una storia che ha come protagonista il poeta israeliano Yehuda Amichai.
Un giorno stava seduto con due panieri di frutta sui gradini accanto alla porta della cittadella, a Gerusalemme. Ad un certo punto sentì una guida turistica che diceva; “Lo vedete quell’uomo con i panieri? Proprio a destra della sua testa c’è un meraviglioso arco dell’epoca romana”. Allora commenta Amichai: “Io dentro di me, mi dissi: la redenzione verrà soltanto il giorno in cui la loro guida dirà: “vedete quell’arco meraviglioso dell’epoca romana? Beh non è importante. Ma lì vicino più in basso, a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta per la sua famiglia”.