In preparazione al convegno di Bergamo 2012
“SERVIZIO E POTERE NELLA CHIESA”


 

1.
Da sempre nell’immaginario religioso Dio riveste i tratti della potenza. Egli è l’Altissimo, l’Onnipotente. Se c’è un aspetto che accomuna le diverse rappresentazioni divine, esso andrebbe individuato proprio nella potenza. L’eternità che contraddistingue il dio dai mortali; il culto tributato a colui che può tutto; le leggi più o meno arbitrarie imposte dall’alto: mito, rito ed ethos parlano il linguaggio della potenza. A cui corrisponde quel potere sacrale che ne è la traduzione umana: “come in cielo, così in terra”! Su questo punto, i funzionari religiosi non hanno faticato a sintonizzarsi con il Capo.
In questo panorama a senso unico, ecco che compare l’eresia della “differenza cristiana”. Smarcandosi dal comune immaginario religioso, Gesù di Nazaret si presenta come l’esegesi di un Dio che si svuota dei tratti della potenza ed assume quelli del dono e del servizio. Lo svuotamento (la kenosi) non significa di per sé rinuncia alla potenza. Negli scritti neotestamentari la dynamis è parola-chiave, che esprime l’efficacia dell’agire di Gesù, il suo poter vincere l’impotenza a cui l’eccesso del male costringe l’umanità.
Lo svuotamento operato significa, piuttosto, un ripensamento radicale del modo con cui opera il divino nella storia. Le immagini del potere continuano a comparire anche nel discorso cristiano: i segni di potenza, per l’appunto, il Regno, la vittoria… Ma questo vocabolario, in uso fin dalla fondazione del mondo, viene ora radicalmente ripensato. La potenza è quella che libera dal male; il Regno è quello dei cieli e sta ad indicare il mondo come Dio lo vuole. Dio regna da una croce e la vittoria non implica l’eliminazione di altri esseri umani ma dell’unico comune nemico, ovvero la morte.
Non è un’operazione da poco quella attestata nelle Scritture cristiane, in grado di smarcarsi dal pensiero unico del potere senza rinunciare all’efficacia storica, alla liberazione da ogni forma di male. E tuttavia rimane un’operazione a rischio. Quando si tratta di dare forma alla rivoluzione gesuana nei tempi lunghi della storia, la fragilità della testimonianza evangelica appare in tutta evidenza. Gesù rischia di figurare come un maestro senza discepoli, un profeta senza discendenza. Lui, certo, non si era limitato ad un esperimento personale. Aveva a cuore che, anche dopo la sua dipartita, continuasse la testimonianza di quel Regno differente, da lui inaugurato. Il suo insegnamento in proposito è chiaro: «Voi sapete come coloro i quali sono ritenuti capi delle nazioni le tiranneggiano, e come i loro prìncipi le opprimono. Non così deve essere tra voi; ma piuttosto, se uno tra voi vuole essere grande, sia vostro servo, e chi tra voi vuole essere primo, sia schiavo di tutti. Infatti il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e per dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,42-45).
Quel “non così tra voi” è stato dimenticato in fretta. Le chiese, da comunità alternative, sono presto diventate alleate dei potenti, esse stesse governate secondo logiche mondane. Ennesimo esempio di quella “eterogenesi dei fini” che, implacabile, distorce i sogni più belli? Di fatto, il cristianesimo “reale” ha congelato la “differenza” evangelica. Quest’ultima continua ad essere attestata dalle Scritture, ma si propone come tratto esclusivo della comunità primitiva, oggetto tutt’al più di nostalgia, oppure come “bomba ad orologeria” programmata per i tempi ultimi. Una “differenza” sempre differita: senza, cioè, alcuna possibilità nel presente. Figura fallimentare del desiderio, spostato altrove, incapace di sostenere quella tensione costitutiva tra già e non ancora. Di fatto, dietro l’aura utopica di un mondo non più governato secondo la “volontà di potenza”, si consuma lo snaturamento dell’evangelo. O, come suggerisce Dostoevskij, il suo “emendamento” secondo una nuova versione riveduta e corretta.
Vale la pena tornare di nuovo su quella Leggenda del grande Inquisitore che per alcuni credenti ha costituito una provocazione decisiva sul rapporto tra potere e servizio. Nel racconto narrato da Ivan Karamazov, l’aggiornamento indispensabile della questione del potere viene spiegato alla luce della tentazione subita da Gesù nel deserto, prima che avesse inizio il suo ministero pubblico. Nei racconti evangelici quell’episodio iniziale rimanda alla scena conclusiva sul Golgota, dove risuonano sulla bocca dei presenti le medesime parole: “se sei Figlio di Dio…”. Dall’inizio alla fine il nodo da sciogliere è questo. E non solo per Gesù.

2.
Il grande inquisitore pone la questione per i cristiani di ogni epoca. E non semplicemente in termini di alternativa secca: o potere o servizio. Il problema da affrontare è anche quello delle modalità di attuazione e delle conseguenze della scelte fatte. Recentemente, Franco Cassano ha scritto un pamphlet, provocatoriamente intitolato “L’umiltà del male”1, nel quale prova a prendere sul serio le ragioni del grande inquisitore e a denunciare le debolezze di alcuni che si mettono “senza se e senza ma” dalla parte del Cristo tornato in terra. Secondo questo autore, Dostoevskij “offre una rappresentazione del rapporto tra il bene e il male molto complessa, che non ripete schemi già noti… I confini tra il bene ed il male sono molto più sfumati ed incerti e tra l’uno e l’altro esistono sottili passaggi cromatici, proprio come in quella zona grigia che Primo Levi ci ha insegnato a riconoscere”. Cassano mette a fuoco “i pericoli dell’aristocratismo etico”, denunciati dall’inquisitore. Ovvero il rischio di un evangelo solo per una ridotta schiera di eletti, incapace di tener conto delle debolezze della maggioranza. Per evitare questa deriva elitaria, l’istituzione ha scelto di non respingere le tentazioni: “il potere della chiesa nasce quindi dalla scelta di aver colmato la distanza tra la predicazione di Cristo e la realtà concreta degli uomini. Alla base di quel potere sta una concezione spietata e pessimistica della natura degli uomini: essi vogliono essere liberati dalla loro libertà, vogliono essere rassicurati, e sottomessi alla forza dirompente del miracolo, del mistero e dell’autorità. Puntare su una fede forte e libera significa puntare su un’esigua minoranza lasciando tutti gli altri in balia di se stessi”. C’è qualcosa di vero in questa descrizione, al di là del tentativo di giustificare la propria aspirazione al potere? L’inquisitore sembra suggerire che “chi sta con gli ultimi deve essere capace di confrontarsi anche con le loro debolezze, con il loro bisogno di certezze di sottomissione, con un’idea del divino molto terrestre, immediata e profana”. Si può, dunque, raccogliere la provocazione senza dover percorrere la strada scelta dall’inquisitore? Si può “aver attenzione per la debolezza degli uomini, evitando di lasciarli nelle mani di chi coltiva e riproduce questa debolezza per consolidare il proprio potere? La Leggenda ci aiuta a scorgere l’insopportabile presunzione dei migliori, il lato debole della loro forza, quel narcisismo della perfezione morale che disprezza chi si è attardato e si è fermato qualche gradino più giù”. In conclusione: “per pensare di poter combattere l’inquisitore con qualche successo occorre evitare di separare i dodicimila santi da tutti gli altri uomini, occorre non solo combattere ma anche riconoscere e rispettare l’angustia dell’uomo, occorre tenere i collegamenti, evitare che le file si allontanino troppo l’una dall’altra, è necessaria un’idea di perfezione e salvezza diversa, libera da ogni angelismo e capace di ospitare al suo interno quella debole e imperfetta creatura che è l’uomo”.
Questa lunga digressione può aiutare a cogliere l’altro rischio a cui, inevitabilmente, la concezione cristiana del potere è sottoposta. Accanto al tradimento vi è il narcisismo etico delle anime belle, che guardano sdegnate le ambigue vicende storiche. Anche rivendicare la propria “differenza” può diventare un gesto di potenza del tutto conforme alla logica da sempre invalsa: quella che porta ad esaltare se stessi e a schiacciare l’altro. Noi sì che abbiamo colto il segreto di Dio, avendo avuto il coraggio di abbandonare quella teologia barbara che faceva di Dio il re della giungla; gli altri, invece, non hanno ancora capito, sono portatori di un pensiero pericoloso, da combattere e convertire. Sappiamo bene come va a finire quando qualcuno pretende di esportare il giusto governo o la retta dottrina!

3.
L’esperienza dei PO prova a scommettere sulla “differenza cristiana” coltivando allo stesso tempo un legame forte (non solo ideale ma di condivisione quotidiana) con i propri contemporanei. E tuttavia, nonostante questo imprinting alieno ad ogni atteggiamento elitario, corriamo anche noi il rischio di scivolare dal sacrosanto disagio nei confronti di chiese che seguono logiche di potere al disprezzo supponente per quanti giudichiamo “di poca fede”. Le Scritture ci insegnano che la passione per la vita giusta (Torà) si traduce nella critica all’esistente (Profeti) ma anche nel saper tessere legami, nel cercare ed esperimentare (Scritti sapienziali). La denuncia nei confronti della persistenza di un modello costantiniano, se non vuole contribuire anch’essa al continuo differimento della novità evangelica, deve essere accompagnata dal quotidiano lavoro di costruzione dal basso (qualcuno l’ha chiamato ecclesiogenesi) di comunità dal volto fraterno, in permanente stato di conversione, che provano (tra mille contraddizioni!) a vivere, oggi, la differenza evangelica. Con lucidità ed ironia, andando oltre il risentimento.
Il gesto di Gesù che bacia il grande inquisitore potrebbe essere il simbolo di una “differenza” che non cede di un millimetro né sul fronte della verità né su quello dell’amore.
La potenza dei senza-potere non sta tanto nell’autodeterminazione e nel distacco sprezzante. Gesù di Nazaret indica una strada più ardua: quella di un Regno che non è di questo mondo e di un Re che ha tanto amato il mondo.

Angelo Reginato

1 F. Cassano, L’umiltà del male, Laterza, Roma-Bari 2011.


Share This