Il vangelo nel tempo
Credo che non è più il tempo di dire “che cos’è la fede” attraverso affermazioni mutuate dalle varie teologie, ma di raccontare la propria fede, come conservare, a fatica, questa dimensione del vivere dentro le situazioni, complesse, ambivalenti, ambigue, spesso tragiche della realtà quotidiana.
Un continuo interrogare, far domande, piuttosto che recuperare e offrire risposte che tendono a chiudere il discorso, tracciando de-finizioni che sono recinti, non percorsi mai esauriti.
Vivere la fede è povertà di ragionamenti, di comprensione intellettuale: la fede attraversa il dubbio, l’interrogazione, l’interrogativo costante.
Occorre essere di quelli che interrogano. Da una parte ci sono gli uomini del cammino, questo andare instancabile, incontenibile. E dall’altra gli uomini della fissità, gli uomini delle risposte: i sovrani, i sommi sacerdoti, gli scribi.
Sono gli uomini delle domande che arrivano alla soglia del Mistero, del Mistero di Dio, della sua presenza nel nostro camminare. “Mostraci il tuo volto, Signore, e noi saremo salvi”. “Io cerco il tuo volto, Signore, non nascondermi il tuo volto”.
Allora fede è un ‘intravedere’ da lontano l’uscita verso la “pienezza”, la salvezza. Una salvezza “promessa”, mai posseduta del tutto.
Mario Cuminetti nell’ultimo suo scritto afferma: “Coloro che cercano, lasciano spazio al desiderio e all’attesa, si lasciano pervadere dal mondo per poterlo abitare, vivono tutta la loro esistenza come una “agonia” mai finita (Agonia = agone, lotta).
È un costante riequilibrare le energie in relazione all’altro, in una situazione in cui si esperimenta continuamente la propria vulnerabilità.
… Chi crede di possedersi non può attendere: non può lasciarsi abitare dalle cose e abitare il mondo. Abita solo se stesso e il suo narcisismo. Ma la pura attesa – attendere nudi non possedendo che il desiderio – crea un vuoto che permette di essere costantemente aperti all’altro. Solo chi accetta il tipo di svuotamento che questa ‘agonia’ provoca, può continuare a cercare. La sofferenza è unica perché l’impotenza ci afferra “rendendo quasi impossibile tener aperto un varco” nell’attesa. Ma questo varco – piccola luce nella tenebra più oscura – è anche quello che promette che colui che lotta non soccomba ( Seminare nuovi occhi nella terra , Il Saggiatore pagg. 27-28).
Alcune pagine di Sergio Quinzio mi sembrano esprimere con intensità la condizione di chi vive, abita la permanente, tragica , situazione di sofferenza dell’umanità, il lamento che chiede giustizia e nello stesso tempo vive l’attesa dell’aprirsi della salvezza, intravista, sperata, con molta nostalgia.
Sergio Quinzio nel preambolo al suo Dalla gola del leone che lui definisce “strada percorsa da un credente nella verità cristiana sine glossa, che è stato condotto a farsi le più difficili domande circa la fede, quelle che non avrebbe mai osato”, annota che mentre si assiste al rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità, prossime e remote, le sue sono domande che insistono sull’umile e delusa da millenni speranza di una salvezza che già nell’ottavo secolo prima di Cristo il profeta Amos aveva detto misera e paradossale: Am. 3,12 ss. “Come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d’orecchio, così saranno i figli di Israele” (ivi, p. 9).
Esodo 33, 17-23 «Disse Mosè al Signore: “Mostrami la tua gloria”. Rispose il Signore: “Farò passare davanti a te il mio splendore e proclamerò il mio nome ‘Signore davanti a te’. Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia”. Soggiunse “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessuno può vedermi e restare vivo”. Aggiunse il Signore “Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria Io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano fino a che sarò passato. Poi toglierò la mano e VEDRAI LE MIE SPALLE, ma il mio volto non lo si può vedere».
Heschel ha scritto che “I salmi sono le doglie della teologia. Le loro parole sono fili a piombo che penetrano nella profondità della situazione umano- divina dalla quale scaturisce la teologia autentica”.
In continuità con il testo di Esodo sopracitato, nei Salmi è insistente, in forma di invocazione, la ricerca, la nostalgia del volto di Dio. “Fa’ splendere su di noi il tuo volto, e noi saremo salvi”; “L’anima mia ha sete del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?”; “Io cerco il tuo volto, Signore… Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?”.
La tensione fra “cercare Dio, il suo volto” e cogliere la sua assenza, il suo silenzio, “le sue spalle” penso sia la natura vera del nostro credere. Presenza – Assenza – Volto – Spalle.
«Secondo il Vangelo di Luca, Gesù racconta la parabola della vedova importuna che finisce per ottenere giustizia perché il giudice iniquo confessa di non sopportare più le sue insistenze. “E il Signore disse: ‘Ascoltate quello che dice questo giudice iniquo. E Dio non farà giustizia nei suoi eletti che gridano verso di lui giorno e notte, mentre lui ritarda nei loro confronti? Io ve lo dico, farò loro pronta giustizia’”. Questa giustizia è stata davvero resa da duemila anni a questa parte? L’abbiamo creduto perché l’istituzione religiosa da sempre s’è pensata come luogo di salvezza. Ma possiamo dire che Dio ha reso o non ha reso giustizia, che ha esaudito o non ha esaudito le millenarie richieste di quelli che confidano nella sua parola, che hanno gridato a lui giorno e notte?» (Quinzio, La sconfitta di Dio , Adelphi, pp. 15-16).
Ma in cosa consiste la salvezza, la giustizia promessa? Quali sono le promesse fatte da Dio al suo popolo che grida?
Le promesse non riguardano l’anima e lo spirito, ma la carne e la terra. È la giustizia il filo rosso che percorre sia il primo che il secondo Testamento da Abramo a Mosè e l’Esodo, i profeti e le parole di Gesù fino a Romani 8, 19-26. Alle origini cristiane non c’è nessuna contrapposizione tra anima e corpo, spirito e materia. Alla carne è promessa la vita senza fine. La morte, scrive Paolo, è l’ultimo nemico di Dio (1 Cor. 15,26) e Apocalisse 21, 1 e 2 Pietro 3,13 annunciano “cieli nuovi e terre nuove dove avrà stabile dimora la giustizia”.
“Temo di essere sommerso dalla disperazione che il Regno non venga più. Non è una disperazione che esclude la fede in Dio: non sono insidiato dal dubbio che Dio non sia, che non abbia senso sperare in lui, ma dal terrore che il Signore possa definitivamente fallire, perdere la sua guerra (1 Cor. 15,24 “Poi Cristo distruggerà ogni dominio, autorità e potenza e consegnerà il Regno a Dio Padre e allora sarà la fine”). (Quinzio, Dalla gola… , p. 43).
“La fede è diventata impossibile, ma è impossibile anche non credere, vivere così nel mondo sapendo ormai che non è possibile né certezza né senso, ma solo cinismo o disperazione.
Paradossalmente la fede implica, come nel grido del Signore sulla croce, l’esperienza del perderla, del non poterla tenere, stringere: anche e forse soprattutto la fede è come il grano di frumento che, come dice il Vangelo di Giovanni, se non muore non porta frutto” ( ib. , p. 19-20).
“Bisogna porre al centro dell’annuncio cristiano il supremo mistero del suo fallimento… Il vero abisso della kenosi, quello che spaventa lo stesso Signore, e che né noi né lui possiamo sostenere, è l’abisso del sentirsi e sapersi abbandonati da Dio” ( ib. , p. 35).
“Dopo duemila anni che tace, è venuto il momento di credere veramente, fino in fondo, nella morte del Signore, cioè nell’umiliazione della sua potenza, di amarlo anche se non potesse mai più salvarci: il momento di non più adorarlo per la sua potenza, ma di amarlo per la sua umiliata e impotente pietà” ( ib. , p. 39).
“L’invocazione del ‘Regno alle porte’, del Regno per subito non è il punto di arrivo, ma è stato il punto di partenza. Il centro adesso, in qualche modo, non è più il Regno che viene, ma il Regno che non è venuto, il ritardo del Regno… La mancata venuta del Regno non per un anno, non per una generazione, ma per un tempo pari almeno a quello di tutta la storia dell’antico Israele obbliga a ripensare lo stesso significato del Regno.
In questo ripensamento Dio non appare più nell’onnipotenza che salva, ma nella onnipotentia supplex , nell’impotenza che chiede la salvezza, l’umile, la misera dolcissima salvezza di essere consolato, che qualcuno abbia pietà di lui, che qualcuno muoia d’amore per lui, sia con lui” ( ib. , p. 61).
Bonhoeffer nella lettera a E. Betge del 21-7-1944 scrive: “… Ho appreso e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno essere aldiquà della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano – e questo lo chiamo essere aldiquà, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità – allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsernani e, io credo, questa è fede, questa è metanoia, e così si diventa uomini, si diventa cristiani (cfr. Gererma, 45 “A te io farò dono della vita come tuo bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai”). Perché dovremmo diventare spavaldi per i successi, o perdere la testa per gli insuccessi, quando nell’aldiquà della vita partecipiamo alla sofferenza di Dio?” ( Resistenza e resa, p. 446).
Cristiani e pagani
1
Uomini vanno a Dio nella tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fanno tutti, tutti, cristiani e pagani.
2
Uomini vanno a Dio nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza e morte.
I cristiani stanno vicino a Dio nella sofferenza.
3
Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona.
Stare vicini a Dio nella sua sofferenza. Dio va a tutti gli uomini nella loro tribolazione.
Come ultimo contributo di riflessione suggerisco la lettura del testo di H. Jonas Il concetto di Dio dopo Auschwitz , Ed. Il Melangolo.
Mi basta riportare alcuni capoversi della sua riflessione, con la quale egli afferma di ricuperare la tradizione più responsabile del pensiero religioso ebraico.
– Un Dio sofferente, nel senso che il rapporto tra Dio e mondo, dal momento della creazione e sicuramente dal momento della creazione dell’uomo, comporta per Dio una certa dose di sofferenza.
– Un Dio diveniente, che si cala nel tempo, in contrapposizione alla visione greco-ellenistica. Un Dio che viene ‘toccato’, da ciò che accade nel mondo.
– Di conseguenza un Dio che si prende cura, non distante e chiuso in se stesso, ma coinvolto in ciò di cui si preoccupa.
Perciò un Dio in costante situazione di pericolo, un Dio che rischia in proprio.
– Questo non è un Dio onnipotente. Occorre rinunciare alla dottrina tradizionale dell’assoluta illimitata onnipotenza divina.
A conclusione
Ebrei 10,19-23 “Con fiducia e libertà entriamo per questa via nuova e vivente che Egli ha inaugurato per noi attraverso… la sua carne.
Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”.
“ Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto e ci dia pace”.