Ancora sulla giustizia
Davvero, non so nulla della classe operaia: nemmeno i miei nonni lo erano e io da tre generazioni, forse più, appartengo ad un’altra realtà, quella della piccola borghesia, sempre in bilico fra povertà e ricchezza, secondo le condizioni economiche e sociali, ma sempre proiettata verso la seconda, che considera la sua vera vocazione. Questo è ciò che mi è stato trasmesso da nonni e genitori.
Quindi, costitutivamente, io non so nulla della classe operaia: non le appartengo ed essa non mi appartiene. Ma, c’è un ma: non ho mai potuto assimilare quello che mi era stato trasmesso perché lo facessi mio, perché ciò che mi è sempre realmente interessato è la giustizia. Giustizia e ricchezza non possono andare d’accordo: non esiste una ricchezza onesta, ottenuta senza sfruttare, imbrogliare, rubare, approfittare. Dovevo rinunciare a ciò che i miei mi proponevano come mio cammino e così non ho fatto un buon matrimonio (dal punto di vista economico, non dell’amore), ho scelto di lavorare in un servizio pubblico (anziché fare la libera professione), ho avuto un numero di figli sicuramente inadeguato alle possibilità di carriera (tre). A questo punto, ho avuto un incontro con la classe operaia: le mie cognate e le loro amiche, compagne di lavoro. Pensavo potessero insegnarmi molto sulla giustizia, poiché vivevano sulla loro pelle lo sradicamento culturale dovuto all’emigrazione dal Sud, i bassi salari, orari e condizioni di lavoro inique, ferie di proprietà del datore di lavoro. Invece, niente: gli interessi di queste operaie erano borghesissimi e riguardavano la possibilità di comprarsi la pelliccia, di andare al mare d’estate, di conoscere il più possibile la vita dei personaggi del cinema e dello spettacolo. Ho concluso che la classe operaia che conoscevo io non avesse niente di buono da insegnarmi perché sembrava che l’unico suo desiderio fosse la ricchezza anziché la giustizia. Ho messo la classe operaia in soffitta, così come avevo già fatto con la piccola borghesia.
Oggi, però, la vicenda degli operai morti a Torino ha ripresentato a tutti, me compresa, il problema della relazione tra classe operaia e giustizia. Tutto è successo mentre stavo leggendo il numero di Pretioperai “Operare giustizia in un mondo ingiusto”. E così i contenuti dell’opuscolo sono diventati per me una chiave di lettura dell’avvenimento e delle esperienze passate.
La classe operaia è stata sconfitta, ma gli operai non sono scomparsi: tuttavia, i vinti non hanno spazio, né presenza, in particolare in una società mediatica come la nostra. Ci hanno e ci siamo convinti che non fosse più necessario occuparci dell’ingiustizia della condizione operaia, perché situazione in via di esaurimento e in ogni caso ampiamente compensata, nella fase transitoria, dall’accesso a beni quali automobile, televisione, vacanze riconosciuti all’unanimità come belli e desiderabili. Al corteo di lutto per i primi quattro morti, tuttavia, il padre del più giovane ha detto: Chi me lo ridarà? indicando che gli è stato tolto ciò che non può essere restituito, ciò che non può essere compensato da alcun bene materiale, il figlio, la vita. Ecco allora che cosa è stata l’ingiustizia: perpetuare un sistema di lavoro che sia come andare in guerra (parole dell’unico sopravvissuto) in cui la vita è solo uno dei fattori della produzione e le eventuali perdite vanno messe in conto come quelle finanziarie o i tempi di consegna non rispettati. Accettare che la classe operaia sconfitta venga ancora più duramente schiacciata con l’introduzione di nuove forme di schiavitù: i lavoratori a termine, il nero (quasi tutti immigrati), i poveracci delle cooperative che vanno e vengono. Mutano le forme dell’ingiustizia, ma non la sostanza. Il lavoro operaio è ancora un luogo dove si alimenta l’ingiustizia.
La giustizia tutela la vita, ne rende evidenti le potenzialità. In una società che pratica la giustizia, si agisce in modo che nessuno abbia bisogno di essere aiutato: al contrario, si fanno cose che rendono tutti uguali di fronte alle potenzialità della vita. Cose come l’accesso ai beni essenziali (bandire la povertà), alle cure mediche (controllo delle malattie), alla sicurezza della persona (bandire la paura), alla libertà (bandire ogni forma di schiavitù), all’istruzione (bandire l’ignoranza e l’intolleranza), alle relazioni umane (bandire la solitudine).
Cose che oggi quasi non si possono più dire pubblicamente, a causa dell’inversione dei rapporti tra politica ed economia: la prima non indirizza più la seconda, le obbedisce senza discutere. La centralità di un mercato totalmente deregolato come unica fonte non solo del benessere sociale, ma anche del diritto, come unica alternativa liberale, democratica e moderna è un pregiudizio talmente radicato ormai da non venire più nemmeno riconosciuto come tale.
Nella cultura dell’impresa oggi dominante, il profitto è conseguito tramite azioni decise dando maggior peso ai fattori economici rispetto ai fattori tecnici. Il peso assegnato al fattore umano è diminuito: da qui, la ricerca ossessiva del lavoro flessibile, l’intensificazione dei ritmi di lavoro in tutti i settori produttivi, i bassi salari medi accanto ai compensi astronomici dei top manager.
Le conseguenze sono patologiche: se la probabilità che si verifichi un incidente sul lavoro è bassa, non sono giustificati interventi per ridurla a zero, anche se l’evento può recare danni alle persone. Lutti e dolori aspettano le famiglie degli operai-soldati morti e i manager-generali presenziano convinti di aver fatto il loro dovere. La degenerazione del capitalismo finanziario è una minaccia di morte, che non si può far finta di non vedere.
Deve giungere l’ora della econom(-)etica.
Laura Galassi