Guerra e pace nei Balcani


 

LE BOMBE DELL’AMORE

Il Generale di Corpo d’Armata Monsignor Giuseppe Mani, Ordinario militare per l’Italia, intervistato da Carlo Mercuri su “il Messaggero” del 29 aprile 1999, alla domanda: “Qual è, monsignore, l’ultimo tipo di carità?”, risponde: “E’ la carità del pilota che va a bombardare. Lui si porta dentro la sofferenza. Bombarda e sa che, oltre alla fabbrica d’armi, può colpire vite umane. Uccidere. È il dramma del cristiano”.
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La guerra del Kossovo appare lontana anni luce a chi, come me, scrive queste righe dopo le immagini terribili da Timor Est e la “rivelazione” della guerra continua in Cecenia. L’informazione televisiva compie la magia del tappeto volante e porta ciascuno di noi a sorvolare in un attimo i drammi della nostra storia presente; ma senza che sia possibile uno scambio, una comunicazione. E l’occhio della telecamera appartiene all’estensione sempre più abnorme di un “io” che si dilata sino ai confini del pianeta; un “io” sempre più sviato e svuotato dell’esperienza fondamentale dì ogni crescita umana e cioè la scoperta, l’incontro, la relazione con l’altro.
Ho ancora molto vivo il ricordo dell’esperienza della “Tenda della Pace”, piantata accanto alla Chiesetta del Porto, dove abito, da un gruppo di militanti per la pace. Qui a Viareggio, come in tante altre città, all’inizio dei bombardamenti Nato. Occasione di incontro e di scontro sulle ragioni della guerra e della pace. E cioè, spesso, occasione di quell’argomentare stringente sugli interessi economici e strategici, le radici culturali e storiche, gli errori e le incapacità, fino ad inchiodare i rispettivi nemici all’evidenza delle loro responsabilità. Un “gioco” tutto di testa che corrode i rapporti soprattutto quando non riconosce alternative ai moti del cuore, ai tentativi di buttarsi al di là dell’ostacolo costituito dall’impossibilità di fare qualcosa — qualsiasi cosa — che appaia decisiva per bloccare il conflitto.
Ho sofferto in quei mesi la difficoltà a lasciarmi andare, ad accettare che l’esperienza del conflitto abitasse in me. Troppa disperazione e sfiducia, mi porto dentro. I segni di bruciature antiche e nuove che rendono ogni esperienza di contatto, difficile e penosa. La parte in ombra della vita – quella nera, oscura, che siamo abituati a chiamare “male” — mi sta sempre davanti agli occhi nella dimensione della violenza, della sopraffazione nei diversi ambiti e livelli dell’esperienza umana. A volte vorrei fuggirla, stordirmi per dimenticarla, tentare almeno di distanziarmene, di voltare l’angolo e non avvertirla più. Anche solo per un istante.
Tentazione sempre ricorrente di cancellare il nero del “male” sostituendolo con il bianco del “bene”. Il mondo dei conflitti avvolto dal mondo dell’incontro e dell’accoglienza. La pace che rileva la guerra. La vita che cresce e ricopre gli aridi scenari della morte. Tentazione sempre ricorrente nel credere possibile questo passaggio decisivo e fondamentale senza che si tinga l’esistenza di rosso, colore del sangue e della lotta.
Sangue; non quello versato nello scontro per l’eliminazione reciproca, ma quello della vita vissuta a cuore aperto per un nuovo modo di essere finalmente degno di chiamarsi umano.
Dico a me stesso la mattina, guardandomi allo specchio: occorre dare un calcio all’impossibile! Rifiutarsi di credere che i rapporti di forza siano decisivi nell’accettare di intraprendere o meno ogni itinerario di cambiamento. Smetterla di essere berlusconiani aggrappati all’esito dell’ultimo sondaggio…
Ma poi leggo i giornali, ascolto la TV e mi convinco delle ragioni di coloro che sostengono la dura necessità delle armi in mancanza di valide alternative. E le strade e le piazze sono vuote, se si tolgono gli sparuti manipoli dei “passionisti della pace”.
Mi rendo conto di quanto (tanto!) somiglio a Bobo (noto personaggio di fumetti) nella nostalgia di contesti giovanili.
Sono anni-luce che la strada non passa dall’illusione di unanimismo degli slogan, dalle parole d’ordine, dai volantini.
Lottare oggi significa, prima di tutto, scrollarsi di dosso ogni impermeabilizzante e scoprire che è possibile – di nuovo – sentire i venti della storia sulla propria pelle. Ed è possibile, soprattutto, sopportarne la bruciante, corrosiva carezza. Cos’altro fare,  quindi, se non chiudere gli occhi — come Ulisse gli orecchi dei compagni — per resistere alle malie della onnipresenza? E cercare di “vedere” solo ciò con cui è possibile  entrare in contat to, realizzare uno scambio, esercitare comunicazione?
A me sembra che oggi sia chiesto a ciascuno di noi un sussulto di dignità e di coraggio. Nell’accettare — da una parte — il durissimo contraccolpo di un coacervo di interessi e di poteri con un tasso di concentrazione forse mai avvertito nel corso della storia umana. E — dall’altra — la convinzione che il lottare per amore nella vita umana non ha porto d’attracco né banchina d’arrivo, ma è sangue destinato a fecondare la terra perché diventi cielo.
La guerra, corredata da aggettivi sempre meno proponibili se non per un bisogno smodato di camuffamento ad ogni costo, continua ad essere lo strumento più credibile per la soluzione dei conflitti. Questa è la tesi USA-Nato, la realtà con la quale dobbiamo confrontarci. Da parte nostra — di chi lotta contro la rassegnazione alle armi — la prima istanza sta nel pronto sostegno internazionale ai popoli oppressi per una liberazione attraverso una forte disobbedienza civile. Nella convinzione che ogni conflitto non va né eluso, né celato, ma condotto in modo costruttivo invece che distruttivo.
Per chi accetta di lottare e soffrire sulla propria zolla di terra, si tratta di continuare a farsi fare dalla storia. Attraverso i percorsi del quotidiano vissuto come l’umile “humus” nel quale seminare speranze, sogni ed utopie ed insieme coltivare i cambiamenti di una vita che si presenta con sfaccettature sempre nuove, nella radice di quest’unica fedeltà.

 

Luigi Sonnenfeld


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