La seconda relazione
CON QUALE CRISTIANESIMO
Convegno nazionale / 18 sett. 2021 / Bergamo
La mia presenza qui oggi, in un momento in cui ci si domanda che fare – giunti ad un punto che vorrebbe essere nello stesso tempo una continuità, un bilancio, un bisogno condiviso di confrontarsi sugli sguardi, i sogni, i disincanti con cui camminare in un mondo che è totalmente ‘altro’ rispetto a quello delle ‘nostre’ origini – è anzitutto un modo per dire un ‘Grazie’: a voi e a tutti/e coloro che già hanno concluso il loro cammino. Grazie per potermi sentire, fino in fondo, uno di voi: al di là di tutte le differenze delle nostre storie personali: di fede, di lavoro, di amori. E grazie per poter condividere con voi una memoria non stanca delle scelte che abbiamo fatto.
Ho pensato che il modo più semplice e trasparente di dire questo grazie fosse quello di raccontare i modi con cui ho vissuto l’intreccio delle nostre vite (molto stretto, anche se vissuto nei posti e secondo modalità molto diverse) attraverso quattro momenti: a) il tempo-luogo del primo incontro; b) la interpretazione di essere ‘operaio’ in ruoli e mestieri apparentemente tanto diversi nella ‘fabbrica del mondo’; c) il riassunto-riflessione sugli incontri-disincontri tra la speranza ed i sogni delle origini, e le trasformazioni della ‘grande storia’ che abbiamo vissuto; d) l’augurio, a voi e a me, bello-difficile-obbligatorio, che possiamo regalarci per il tempo, ormai breve , che ci sta davanti.
IL TEMPO ED IL LUOGO DEL PRIMO INCONTRO
Siamo alla fine degli anni ’60. Esattamente 10 anni da quando era iniziato il mio tempo- bellissimo, intenso, imprenscindibile per la mia storia- da francescano. Quarto Oggiaro , quartiere simbolo della periferia più periferia di Milano, è il luogo dove con alcuni compagni (tutti anche già da alcuni anni ‘ordinati’) ci troviamo a scegliere di vivere in un appartamento delle case popolari, avendo maturato insieme lungo gli ultimi anni la decisione di interpretare la regola di Francesco come ci sembrava normale per essere fedeli alla sua vocazione: vivere il Vangelo ‘sine glossa’: la regola come un patto di condivisione di sogni, così come Francesco la aveva riassunta nel suo ‘transito’: nella più grande libertà, e regalando, in una lingua nuova, il cantico per la terra-pace: “Laudato si…”. La povertà come lavoro, l’obbedienza come la rinuncia a posizioni di ministero-potere, la castità come uno dei modi, ancora ignoti, non centrali, liberi, di esprimere il nostro relazionarci con chi si incontra e si condivide la vita. La scelta non è condivisa dai superiori, che non prendono ‘provvedimenti’: semplicemente prendono atto, che abbiamo cambiato indirizzo. Senza polemiche o conflitti. Viviamo accogliendo gli amici che arrivano, uomini e donne, in una di quelle ‘comuni’ che in quei tempi esprimevano il desiderio collettivo di sperimentare forme e modi di ‘stare insieme’. Tra il lavoro con le scuole popolari, le 150 ore, la politica di quartiere , a Milano, Sesto s. Giovanni, Pero…, incrociamo , e da allora non li avremmo più lasciati, Cesare Sommariva, Sandro Artioli, con i quali si condivide tutto quello che si ricerca di tradurre dai principi nella vita. Partecipiamo ai raduni europei dei Preti Operai. I nostri salari, in tempi di grandi conflitti nel mondo del lavoro, sono molto bassi, e nelle professioni e nei mestieri più diversi, dalla ricerca medica, alle fabbriche-imprese più o meno tradizionali, al mondo infermieristico-assistenziale.
La laicità diventa la normalità più ovvia, mantenendo e sviluppando rapporti stretti di amicizia, collaborazione, confronto con tanti protagonisti di un tempo che dal dopo Concilio entrava nella più profonda partecipazione alla trasformazione della società italiana negli anni 70: Turoldo, Dal Piaz, Balducci, Joannes, Cuminetti, Vannucci, Vivarelli, Bettazzi…I ‘preti operai’ – da Sirio, a Morganti, ai torinesi…- rimangono, da vicino e da lontano, la nostra ‘interpretazione di riferimento’ di un francescanesimo che ‘raccontiamo’, dall’interno dei nostri ‘mestieri’, con la normalità delle nostre vite.
La teologia della liberazione , insieme , ma in modo più profondo, agli ‘eventi’ della chiesa italiana di quei tempi (incrociando molti dei suoi protagonisti collaborando con la Queriniana) , definisce gli orizzonti di un cristianesimo che deve vivere dal di dentro tutte le contraddizioni e le lotte della società.
INTERPRETARE L’ESSERE ‘OPERAIO’ NELLA ‘FABBRICA DEL MONDO’
La ‘comune di QuartoOggiaro’ ,che aveva ospitato tanta gente, si scioglie nella sua fisicità abitativa verso la metà degli anni ’70. L’incontro con Cesare, Sandro , e poi Luigi, diventa parte importante della nostra vita, attraverso tutte le loro case-esperienze. Per il mio lavoro di ricercatore in campo medico , e per gli interessi-impegni politici, la mia strada-casa diventa , alla lettera, il mondo. Come segretario del Tribunale Permanente dei Popoli dalla sua origine (1979), le repressioni tragiche, le lotte di resistenza, di liberazione, di autodeterminazione dei popoli diventano il contesto concreto nel quale le speranze, le sconfitte, la ricerca sempre rinnovata di dignità e di una vita ‘umana’ si trasformano in un unico progetto che , al di là del mio mestiere di medico-ricercatore, mi occupa a tempo pieno. C’è una continuità strettissima (ne ho scritto tanto, ma soprattutto ne ho vissuto lungo 40 anni l’esperienza quotidiana, tanto da sentirla come la mia identità più profonda) tra la ‘scelta’, o l’essersi semplicemente ‘trovato a casa’ nelle ‘periferie’ della vita sopra ricordate, e il convivere fianco a fianco con l’infinito destino di ‘essere’ periferia da parte dei popoli repressi dalle dittature più incredibili, marginalizzati dai volti sempre diversi ma ugualmente senza pietà dei modelli di sviluppo (coloniali, capitalisti, neoliberali, neo-coloniali,…: i nomi cambiano, ma non la negazione della dignità-vita delle persone).
La realtà italiana, uscita dalla creatività culturale ed istituzionale degli anni ’70 , si avviava progressivamente negli anni ’80 a perdere la sua memoria di nascita da una resistenza- guerra- costituzione di liberazione: le domande che si ponevano sempre più esplicitamente negli scenari (civili ed ecclesiali) italiani assomigliavano sempre di più (nel fondo, pur con il privilegio incomparabile di non essere vittime delle stesse repressioni) a quelle del mondo che si avviava alla sua ‘globalizzazione’: consacrata istituzionalmente alla metà degli anni ’90, con la istituzione della Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), non a caso anche cronologicamente coincidente con la aziendalizzazione di quel sistema sanitario che era stato simbolo del ‘tempo costituzionale’ in Italia.
E penso sia giusto qui ricordare che era il tempo della partenza di Cesare per il Salvador: come parte del bisogno di identificarsi sempre più, proprio perché portatori fino all’estremo della identità di minoranze civili e religiose, di essere testimoni-protagonisti di un passaggio essenziale nei modi di interpretare le scelte di vita, di sguardo, di futuro. Non tocca a me qui riandare a cammini che voi avere fatto e raccontato nei modi più diversi. Mi sembra importante essere il testimone della coincidenza tra il ‘vostro’ cammino, e quello del ‘mondo’. La domanda che ridiventava assoluta era molto semplice e drammatica: sarà mai possibile un futuro in cui i ‘popoli’, cioè i veri soggetti che legittimano gli Stati e le istituzioni che si chiamano civili -democratiche, passino da essere minoranze-vittime-ricercatori di liberazione ad essere soggetti-portatori di un progetto in cui i ‘principi’ ( art.3 della Costituzione; preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani; …le Beatitudini…) coincidano, progressivamente, resistendo ad ogni capovolgimento strutturale dei valori, con la loro ‘attribuibilita’?
In fondo era stata quella la speranza- radice di quell’albero – minoritario , ma così denso di futuro, come seme e come simbolo- dei preti-operai, che erano nel cuore della chiesa come i resistenti, più ancora che i vincitori, della seconda guerra mondiale. Aveva detto Paolo VI, riaprendo il Concilio, e chiamando la Chiesa ad essere laboratorio di ricerca per il mondo: “Chiesa che cosa dici di te stessa?”; e aveva prolungato il messaggio della ‘Pacem in Terris’ affidandone la responsabilità-possibilità ai popoli concreti della terra: Populorum Progressio come indicatrice di un futuro, per tutti i popoli, che un resistente-poeta come Ho-ci-Minh aveva dimostrato capaci di sconfiggere l’imperialismo nel pieno degli anni ’70.
A costo di ripetermi, penso sia profondamente vero, ed importante, anche o forse soprattutto per oggi, ri-sottolineare questo coincidere -con la storia che si è vissuta come preti-operai, nel piccolo concreto delle realtà ‘locali’- , con le domande della storia globale. Per ritrovare il peso di quanto si ha vissuto: ma anche il senso, e la coscienza di avere sempre più, e non sempre meno, rappresentato con la più assoluta coerenza quel ruolo di ‘parabola’ che in fondo descrive perfettamente il fascino, il disincanto, l’attesa, “nonostante tutto”, che da sempre avevano (….hanno) caratterizzato le ‘nostre’ scelte. Non dico nulla di nuovo. Ricordo-riconosco, condivido quanto avete raccontato, con la vostra presenza-parola, nella vostra rivista e nelle tante pubblicazioni. Essere operai nella ‘fabbrica del mondo’ significa entrare nel permanente ed incontrollabile conflitto che mira al cambiamento dei suoi modi di produzione e di potere: ed essere parabola ha tutto il fascino e l’incognita di un seme che è affidato alla terra, e la cui storia piena di mistero, dal buio alla luce, è tradotta in modo esemplare nella poesia-preghiera di M.Luzi.
SPERIMENTARE RISPOSTE A DOMANDE CHE TOCCANO LA VITA PERSONALE E COLLETTIVA
La “novità” degli anni del secondo millennio si esprime come il perfezionamento e la globalizzazione del capovolgimento strutturale (e di immaginario) dell’ordine dei valori: con l’OMC l’economia (ancor di più con la sua evoluzione ‘finanziaria’) sostituisce letteralmente, con la sua obbligatorietà normativa, l’ordine dei diritti umani, che, pur con tutte le limitazioni, era stato il quadro di riferimento universale anche per i rapporti tra Stati e all’interno degli Stati. Tutte le conquiste costituzionali, nel lavoro, nella sanità, nella educazione diventano ‘variabili dipendenti’. Il cammino è quello di una ri-colonizzazione dei rapporti tra Stati, e quindi ancor più tra popoli: fatta senza più usare i termini del tempo coloniale dichiarato concluso per sempre, ma applicandone nelle forme più diverse la sostanza: ritornano le guerre in nome della democrazia; la schiavitu’ è travestita da contratti che vedono il salario e la dignità di lavoratori e lavoratrici come una componente del valore di mercato delle merci, e non un diritto personale e collettivo ; le aree dei beni pubblici-comuni non rispondono più a diritti di cittadinanza ma vengono progressivamente ‘messe sul mercato della libera concorrenza’; la diseguaglianza non è più una condizione di violazione dei diritti fondamentali, ma uno degli ‘effetti indesiderati, ma inevitabili’ dei modelli di sviluppo, che hanno come obiettivo quello di trasformare tutti in agenti-attori di consumo.
La disobbedienza non solo non è più una virtù, ma diventa un crimine quando la si può/vuole ricondurre/valutare come una minaccia alla sicurezza dei flussi e dei diritti delle cose. La migrazione da non importa quale guerra, e con quali conseguenze in termini di sofferenze e di morte, non può più entrare nell’ordine del giorno di Stati nazionali o di entità come l’Europa se non come capitolo di sicurezza e di misure di contenimento. Siamo tutte/i perfettamente informati e coscienti di questa ‘diagnosi’ sullo stato delle cose, ma senza che ci siano spazi-interlocutori a livello politico. E la evoluzione del diritto internazionale, e dei diritti costituzionali, prevede che il degrado delle democrazie non sia considerato come criterio di valutazione della legittimità o meno delle misure economiche. La esperienza della pandemia e la gestione del dopo-Covid 19 attraverso un PNRR calato dall’alto, escludente qualsiasi forma di partecipazione, finisce addirittura per essere considerata come un ‘ritorno’ alla normalità.
La irrazionalità, e le conseguenze di non sostenibilità di questo modello di sviluppo, sono largamente e chiaramente riconosciute da esperti di ogni tipo ed appartenenza. Ma perfino la conferenza che doveva rispondere alle sfide climatiche ed ambientali è andata ben poco (se pure ci è andata) al di là dal “bla bla bla” con il quale Greta ha tradotto per l’oggi l’antica diagnosi delle minoranze: “il re e’ nudo”.
A chiamare per nome quello che sta succedendo, con una tragicità che ricorda, a scala globale, una vera e propria guerra mondiale diffusa, non dichiarata, che mira a fare dei poteri economico-finanziari-militari, è rimasta solo la voce di Francesco, dall’interno di una chiesa che non sembra amare molto la profezia, e cercando alleanze con quelle voci di altre religioni che almeno vorrebbero sottrarre il nome di Dio dal crimine di silenzio,di impunità’, di perdita di memoria.
IL DIRITTO, E L’AUGURIO, DI ESSERE PARABOLA
Forse nessuno come i ‘preti operai’ — voi che siete qui come memoria- rappresentanza viva dei tanti che sono andati avanti, ma soprattutto: di tutte le minoranze, infinite, diversissime, vive che sono nel mondo; dei ‘movimenti’ cui si rivolge, con i nomi più diversi Francesco; dei popoli che il Tribunale dei popoli continua ad incontrare in tutti i continenti e contesti di repressione ; dei tanti esclusi-espulsi, individualmente e collettivamente, dal diritto alla dignità della vita— ha meglio preso sul serio, la parabola del granello di senape. Nati all’incrocio, e come segno di contraddizione ed insieme di futuro, delle due istituzioni ufficialmente titolari di messaggi di liberazione — una società incerta ed in ritardo sulla sua identità di democrazia, ed una chiesa timorosa, nonostante il sogno di Giovanni XXIII di spalancare le finestre al vento dello Spirito—hanno ‘incarnato’ la domanda sempre senza risposta: “c’è spazio nella storia per le beatitudini? Ci sarà, e c’è concretamente, qui, ora, il tempo di compimento il solo messaggio che tutte le parabole ripetono, al di là della diversità dei loro protagonisti : sono le minoranze, singoli e popoli, che credono nel futuro, che possono rendere visibile il senso della storia” ?
L’essere preti ed operai ne era il simbolo più concreto in un mondo che ora non c’è più: o, forse meglio, che è cambiato completamente, ma che ha le stesse domande: perché il progetto di albero che ospita tutti gli uccelli dell’aria deve essere ri-inventato in ogni nuova storia. Da parte di persone che hanno la stessa memoria di futuro: anche se non sono solo preti e operai-, e camminano per le strade più diverse.
‘Quei’ preti-operai, voi che ne siete qui la memoria, sono stati, nel mondo, conosciuti o sconosciuti, di tutte le fedi, le età, donne e uomini, di ogni colore e lingua, infiniti. E continuano a rinnovarsi: con tanti nomi: Camillo Torres, operaio della pace nella guerra in Colombia, continua a camminare tra i resistenti al genocidio della speranza che vivono oggi nella stessa terra. E Freire, operaio della educazione degli ultimi, continua, a resistere con altri nomi a Bolsonaro. E sono tante ed invincibili le donne di Rojava che a nome di tutte le donne ‘operaie di liberazione’ sono la memoria viva anche per quelle dell’Afghanistan, o del Messico o dei Rohingyas, contro tutti i talebani ed i seminatori di odio che hanno fatto dei social uno strumento non di connessione, ma di cancellazione dei diritti umani.
Una storia sempre aggiornata, mai declinata al passato , scritta con i volti, le vite, il quotidiano dei tanti ‘operai’ di resistenza, di utopia, di gesti, di realtà di liberazione sarebbe necessaria per disegnare una mappa alternativa a quella della storia che si vive, sempre più come normalità, negli ultimi anni-decenni. Ma non è qui il tempo, né il luogo. E’ bene avviarsi ad una conclusione che, per cercare di essere coerente con tutto quanto si è condiviso fin qui, non può che affidarsi alla logica ed al linguaggio di ‘parabole’, anche se quelle che seguono, tecnicamente, non lo sono. Insieme riassumono (per me, ma confido anche per voi) il senso dell’esperienza dei preti-operai: soprattutto del loro futuro, nella fabbrica di quel mondo tanto ‘altro’, rispetto al tempo del loro essere stati ‘seminati’, che è il mondo globale.
La prima parabola-non parabola è quella dell’incontro , nel calore di un mezzogiorno, ad un pozzo pagano, con una donna ‘altra’. Perfino strano che un episodio che era stato senza testimoni, quasi ‘privato’, di un Gesù viandante, assetato, senza discepoli, sia entrato così a fondo nei vangeli. Parabola-scandalo, come la dichiara la stessa protagonista: pietra di inciampo: dice che è importante essere assetati di curiosità di tutto ciò che è umano, come unico modo per essere capaci di condividere le vere risposte alle tante seti che non sono soddisfatte del bicchiere dato una volta. È questa ‘connivenza-che-si-fa-fiducia’ tra gli infinitamente diversi, al di là di tutte le frontiere di fedi o di etnie che regala la libertà di parola : su quello che si è, e sul guardare in avanti e lontano: al dove e quando potrebbe succedere che alla fede in un sogno incredibile corrispondano , non importa come, pietre che si trasformano in credenti-compagne/i di strada.
La seconda è la parabola forse più nota ed esemplare quella del samaritano: Francesco ne ha fatto — con un commento che è bello rileggere, come un vero testo dottrinale, ed insieme un racconto nel quale ci si rispecchia, per lasciarsene accompagnare— la protagonista delle sue encicliche, e la chiave di lettura del mondo nella logica dei ‘poeti sociali’: la riconduzione molto efficace delle complessità dell’economia e dei diritti dei mercati ai beni comuni delle tre T, tierra, techo, trabajo. Parabola ben conosciuta, e perciò rigorosamente proibita dalle ‘chiese ufficiali’, non importa di quale religione, sacra o perfettamente laica: i loro ‘ministri’, rappresentanti, funzionari, esperti sono troppo identificati con le ortodossie della economia di mercato e con le loro mansioni al servizio della ‘sicurezza’ per avere tempo e sguardo per viandanti-migranti da tutte le diseguaglianze, aggressioni , torture, guerre …: le ‘civiltà delle sigle e degli acronimi, G20, COP 26 si dichiarano governo e futuro di un mondo che ha posto per tutto, ma non per gli umani: che siano gli sconosciuti morti e dispersi nei mari deserti boschi muri fili spinati , o i samaritani che continuano ad affermarne i diritti inviolabili.
La terza parabola è Mt 25. Proibita oltre che dai poteri che diffidano ed irridono la precedente, anche dalle teologie, dogmatiche o morali. Non criticandola: anzi. Raccomandandola alla spiritualità dei buoni esempi e delle buone azioni. Riconduce infatti la infinita articolazione delle dottrine a pratiche assolutamente banali e quotidiane: dar da mangiare a chi ha fame, visitare i prigionieri…: ricorda che, alla fine (proprio così: al fondo di tutto ,del senso e del tempo) si sarà riconosciuti se avremo riconosciuto, concretamente, tutti gli ‘scartati’ come, semplicemente , umani: e perciò ‘pro-memoria’, senza scuse, del mistero, e non della esistenza, di un “altro mondo”, e di un Dio che nessuna/o può pretendere di aver visto-udito se non per parabole.
UN AUGURIO CONCLUSIVO
Ritorno all’inizio del cammino. Non ne potevo fare a meno. Fa parte troppo profonda del perché dei miei innamoramenti-scelte. È l’augurio del Francesco antico, che ha inventato i titoli delle encicliche che parlano oggi per il futuro. Come prima ‘conversione’ aveva interpretato ‘lavorando da operaio ‘ una voce che raccomandava di riparare una chiesa malandata, ed aveva trasformato il ribrezzo per uno ‘scartato’ in un abbraccio: non facile. Nel suo ‘transito’ in una sera di ottobre ( ormai da tempo disincantato e senza più potere nell’ordine da lui fondato e che era divenuto mondiale) riassume la sua storia celebrando la sua ‘regola di vita’. A chi gli chiede di sopportare il dolore, risponde dolcemente che vorrebbe tanto affidarsi alla bellezza della musica suonata da un giovane fraticello; le preoccupazioni di chi sta intorno perché dia fino in fondo i buoni esempi, rendono solo ancor più graditi i mostaccioli di una ‘amica dei poverelli di Assisi’, che era arrivata da lontano sapendolo molto malato; l’unico saluto che vuole dare-ricambiare è alle ‘dame-spose’ che hanno amato la stessa povertà e che stanno nella chiesetta da lui restaurata, in una clausura così libera e trasparente da essere divenuta in pochi anni una rete di donne di ogni classe e cultura estesa per l’Europa; ed il ‘transito’ si conclude aggiungendo l’ultima strofa ad un cantico che è la sua parabola per un futuro senza tempo e senza confini. Infinitamente semplice. Come quelle del Vangelo. Ma come quelle , tanto nuova da aver bisogno di accelerare miracolosamente l’emergere di una lingua nuova : ‘volgare’, bene comune, di tutte/i: da parlare, incarnandola con la vita.
GIANNI TOGNONI