Frammenti di vita raccontati dai PO
nel decimo anniversario della nostra rivista


 

Sulla strada per Vigevano, a dieci chilometri da Mortara, con l’automobile giro a destra su strada di campagna. A duecento metri un grande cascinale. Anche qui, come un po’ dovunque nella Lomellina, ci sono mondine. Scendo, mi accosto al gruppo che, incuriosito, mi osserva da un angolo di un portone. Mi introduco con parole di convenienza desideroso di giungere ad un colloquio umano, quando Teresa, la più anziana delle mondine, così si esprime: “Da qualche anno quanto interesse per noi mondine! Vengono perfino i preti, ma non pare per darci una mano!”.
Il fatto non poteva non mettermi in imbarazzo per quel contenuto di verità che racchiudeva, né evitarmi la preoccupazione di trovare motivazioni che giustificassero, almeno a me stesso, la presenza del sacerdote in un ambiente di lavoro. Infatti capisco le funzioni di un sindacalista che per certi problemi, riesce ad inserirvisi in modo di convincere il lavoratore di sapere far proprie le sue istanze. Ma il prete, col mondo del lavoro che rapporto ha? E se rapporto non c’è, crede all’opportunità di crearlo? E quali le forme, considerato il ruolo di cui è investito e che sa più di potere che di servizio? Se tutto ciò poi è legato all’ andate , in che consiste la missione?
Impreparato all’analisi della vita, dopo la bastonata di Teresa, sentivo che il copione tradizionale di attività pastorale non teneva più. Mentre .mi portavo verso il grande porticato che accoglieva le mondine per la cena, pativo la tentazione del disertare. Mi sentivo, io in talare, vergognosamente battuto. Come avrei potuto rispondere, infatti, a quella attempata signora dal volto bruciato dal sole, con rughe profonde e occhi insidiosi che esprimevano lotte, rancori e tradimenti?
Certe cose l’esperienza insegna che si gridano quando il cuore non le tiene più. Da decenni quella creatura aveva frequentato la Lomellina non solo per necessità economiche, ma per sottrarsi a situazioni di vita ancor più difficili. Quasi in disagio, avrei desiderato riflettere per decisioni responsabili, non trascurando il fatto che tra povera gente avrei potuto ripensare la missione osservando e ascoltando.
Così avvertii di avere una certa carta sufficientemente forte per introdurmi con lealtà: farmi povero; guardare volti stanchi e umiliati; volti di persone senza parole per averne sentite tante, quasi tutte false. “È ora, mi dissi, di dare la parola a chi non l’ha mai avuta. Questa sera la predica sarà la predica delle mondine”.
Annunciai la mia decisione. Com’era prevedibile, tra le mondine si creò un gran silenzio, quello delle occasioni dirompenti. Seduto nel grande cerchio, come tutte le presenti, attendevo. Pensavo alla paura che il ruolo, nella sua ombra di potere, incute sui poveri. Infatti ci volle tempo prima che un segno di apertura apparisse. E fu proprio la Teresa ad alzarsi e dire in dialetto mantovano secco, quasi tambureggiante, parole che nessuno avrebbe avuto l’ardire di esprimere a un sacerdote: “Sciùr pret! El vegnit a scircà i voti? Chi, al n’à troa pochi. Non abbiamo fiducia nel governo dei preti. I ricchi vanno a braccetto con i ricchi. La nostra vita, invece, è dura, incomprensibile. Per questo chi sta bene non può capirla. Io non ho mai goduto niente. E lô (lei) ?… Eh! I preti! Sanno difendere bene il loro star bene. Io non possiedo niente. Non ho fatto niente d’importante. Ho usato il tempo per guadagnare un pezzo di pane. Per il lavoro non m’è stato possibile frequentare la scuola. Sono analfabeta. S’el paradis al ghè, me ad vaghi ad sucùr”.
Lunga pausa. Grande anche l’attenzione. Si aprivano gli armadi degli scheletri. Teresa, in piedi, a testa china preparava il nuovo attacco. “Al paradis! Eeh! Al paradis! Vero specchio per le allodole”. Grande risata. Poi, quasi Teresa volesse abbattere il muro, continuò: “Voi preti parlate di paradiso per illudere i poveri, per impedire la giustizia, per sostenere i ricchi. Eh già! I ricchi non possono non sostenere i loro privilegi. E i preti che sono ricchi, stanno con loro. Poi, ipocritamente, per giustificare una missione di carità chiedono ai ricchi i soldi che dovrebbero essere nostri. Per fare che cosa? Per das d’inveren la mnestra ad ris e fasoi!”. Risate a tutta gola.
“Ho conosciuto gente che in vita hanno avuto tutto. A me nessuno ha dato una mano per difendermi dalla crudeltà dell’ingiustizia. E poi… senta! Propi per col paradis cuma lô el la cùnta, sono diventata nemica vostra e negatrice di Dio. Al ga da savì che an dè chèl paradis fat par an luchì i puvrèt, io non ci sto. Se c’è questo paradiso, fatemelo vedere, fatemelo sentire. Dite di voler bene. Tôti bali! È la giustizia che si deve fare. Voi, invece, con un colpo alla botte e un altro al cerchio, sviate il rischio e non state dalla nostra parte. Voi non vivete come noi; non soffrite e non morite come noi. Venite tra noi non per lottare, ma per ammansire, impedendo così ai poveri di diventare liberi. Voi si sciùr môta (come) i sciùr. Adesso basta. Ma si ricordi bene, sciùr pret, che io crederò nel suo paradiso quando lei avrà vivit al noster inferen”.
Battimani. Risate che si protraevano in gioia. Mi accomunai alla vittoria dei poveri. Anche Cristo era contento.

La libertà di parola, le mie dichiarazioni di sostegno al mondo del lavoro aprirono alle confidenze. Caterina, la cuoca, mentre mi accompagnava a salutare una mondina indisposta, mi parlò della Teresa, la quale alloggiava con una diciottenne alla prima esperienza di quella faticaccia. Questa ragazza lavorava pensando alla dote. La Teresa, che non aveva avuto figli e aveva patito l’abbandono del marito, la custodiva come una mamma. Le allungava qualche pezzo di pan biscotto maritato al buon salame mantovano con quella amorevolezza che non fa pesare il dono.
Una notte la figliola si svegliò con forti crampi allo stomaco e incessante vomito. Impossibile qualunque soccorso, sperdute com’erano nelle vaste campagne. Teresa era preoccupatissima. Non sapeva che santo invocare, non ricordando tra l’altro il tempo in cui aveva pregato. Ma quella volta ci provò e si accorse che poi non era così difficile quando parla il cuore. Anzi, osservando quella poveretta nella stessa condizione di Gesù nella stalla di Betlemme, s’accorse di averlo più grosso di quanto pensasse. Nell’impotenza soffriva il disagio di quella creatura e pianse. Verso l’alba tutto si risolse. Asciugò per l’ultima volta il sudore sulla fronte della figliola e si preparò al duro lavoro della giornata.
Poi, con la dolcezza di una mamma, sottovoce le disse: “Ora dormi, riposa. La Caterina ti porterà il caffè. Oggi il mio guadagno è per te”.
Si guardarono. I cuori dopo la prova si erano alleggeriti. L’una si sentì amata; l’altra… madre!
E non è forse questa la strada del paradiso?

Marino Santini



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