Frammenti di vita
“Il confine è elemento reale e metaforico di confronto e scontro.
Esso è fatto oggetto di un duplice processo:
di rafforzamento, come arroccamento nell’antica compattezza culturale;
di indebolimento, come cammino che non teme inquinamenti
da apertura e da confronto”.
(Nadio Delai)
Pressato da Mario Signorelli, con riluttanza e non senza difficoltà, cerco di comunicare quello che sto facendo e il perché lo faccio, rifacendomi alle motivazioni di fondo che hanno accompagnato le mie scelte di vita.
Stimolato dalle indicazioni/provocazioni del Concilio Vaticano Il e dalle sfide/inquietudini in qualche modo collegate ai movimenti dei 68/69, ciò che ha caratterizzato la mia vita spirituale e le scelte ecclesiali è stata la ricerca di risposte soddisfacenti al senso di asfissia dentro le strutture ecclesiastiche, che impediva di incontrare i cosiddetti lontani e ostacolava un cammino più autentico di fede personale e l’espressione comunitaria di essa.
La curiosità, l’ascolto, l’apertura, al posto delle rassicuranti certezze delle nostre visioni, anche teologiche; il “camminare insieme” (cfr. lettera pastorale del Padre Pellegrino) al posto del rafforzamento delle strutture, il valorizzare il disturbo e la scomodità degli “amici importuni” (cfr. Lc. 11,5-8) alla ordinata organizzazione dei tempi e degli spazi che l’efficienza pastorale e le aspettative “di quelli di casa” (cfr. Lc. 15,29-30) tendevano ad imporre … mi hanno portato alla scelta di Prete operaio nel mondo operaio, inteso come luogo di confine, di condivisione e di riconciliazione.
Ad una mentalità che pretendeva di essere progettuale e che cercava soluzioni razionali, si è piano piano sostituita una mentatità e un pensiero incarnato nella realtà storica che viviamo e che cerca di vedere cosa ci è dato di fare, “qui” e “ora”. Un impegno nel qui e ora, vissuto nelle contraddizioni del nostro tempo e nell’ambito della mediazione politica, con tutte le contraddizioni, fragilità e, non poche volte, violenza sui poveri che essa comporta. Un impegno assunto per amore della gente e come risposta alla chiamata dello Spirito.
La scelta della condivisione mi ha progressivamente liberato dalle preoccupazioni di trovare fondamenti razionali e teologici comprensibili allo stesso tempo dalle comunità ecclesiali e dai movimenti e organismi laici in cui operavo, per assumere i riferimenti dell’alleanza. L’imitazione di Gesù Cristo, rivelata dall’inno di Fil. 2,1-11, è diventata il centro della ricerca teologico-spirituale, il modello della missione nel mondo del lavoro e fonte di serenità. Non senza un pizzico di presunzione e di meraviglia mi pare di poter dire di aver recuperato un po’ di quell’unità e riconciliazione nella pace di cui parla S. Paolo in Ef. 2, 14-18.
Quella dei PO è una storia conosciuta e ampiamente raccontata dalla rivista Pretioperai; non c’è più nulla da aggiungere, credo.
Una storia che da alcuni anni ha esaurito la sua spinta propulsiva e la capacità creativa.
Quanto è stato vissuto e rimane “dono di grazia” per i singoli PO e per gruppi di PO, non essendo riuscito ad andare oltre la sfera personale e del movimento e non avendo assunto una qualche dimensione e misura ecclesiale, rischia di ripiegarsi su se stesso. È stato questo un punto centrale della discussione che ha diviso e non poche volte contrapposto i PO.
Personalmente da anni ritengo esaurito il movimento dei PO italiani e condivido l’analisi che con dol cezza mi hanno sbattuto in faccia alcuni amici non credenti, analisi che ripropongo all’attenzione della rivista: “Ogni movimento quando è passato dovrebbe aver individuato gli elementi da istituzionalizzare, distinguendoli da quelli coreografici che devono finire con il movimento stesso. Chi non fa questa distinzione e vuole conservare tutto, o rigetta tutto – che è la stessa cosa –, compie un errore storico e tradisce, nel momento in cui snatura, gli elementi di innovazione, trasformandoli in elementi di conservazione”. Gli amici hanno aggiunto anche: “spesso, chi fa questo, paga di persona in quanto, dilatando artificiosamente la teoria che vuole giustificare si pone in una situazione di pensiero patologico”.
Non ci è dato di sapere se il “ seme” gettato con passione e generosità prima o poi fruttificherà, o sarà ripreso da altri secondo modalità che solo lo Spirito conosce. Forse potrebbe essere utile capire il perché e come tutto questo è avvenuto, ed è avvenuto secondo modalità non certo casuali; un compito che, a mio parere, potrebbe interessare gli storici dei movimenti ecclesiali più che i testimoni che cercano di leggere i segni dei tempi.
L’impegno in situazioni di ingiustizia strutturale
L’assolutismo morale è una grande forza
per gruppi e individui che lottano contro la dittatura,
ma è una debolezza per gruppi e individui
che lavorano alla costruzione delle istituzioni democratiche.
(Adam Michnik)
Dalla constatazione della fine del movimento dei PO è maturata, negli anni di lavoro in fabbrica prima del pensionamento, la necessità di riprendere il cammino, di assumere ancora una volta la priorità dell’ascolto e dell’apertura, al posto delle rassicuranti certezze delle nostre visioni.
È così che mi sono lasciato interrogare dal fenomeno immigratorio, percepito, per come si sta sviluppando nel nostro paese, come situazione di ingiustizia strutturale e di non riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo.
Con la consapevolezza che i talenti ricevuti nelle precedenti scelte di vita andavano trafficati, a partire dalla fine degli anni 80 ho cominciato ad occuparmi del fenomeno immigratorio ad un duplice livello:
• come ricerca di fedeltà al Vangelo e risposta alle chiamate del Signore
• nelle istituzioni pubbliche oltre che nel sociale, per “trafficare” a tutti i livelli i doni ricevuti.
Mantenuto ai margini dalla Chiesa istituzionale, ho collaborato e sono stato responsabile delle politiche migratorie del Comune dì Bergamo per otto anni, sono stato coordinatore dell’ufficio di presidenza della Consulta dell’immigrazione della Provincia di Bergamo; ho dedicato tempo e passione per costruire reti tra i diversi soggetti (pubblici e privati) implicati nel fenomeno immigratorio, investendo le relazioni e le conoscenze costruite negli anni precedenti; ho cercato di favorire la nascita di “ agenzie soglia” che, ponendosi sul confine di realtà diverse, rendessero meno violento e doloroso il percorso di accoglienza, inserimento e integrazione dei soggetti migranti.
La collaborazione con la Consulta provinciale dell’immigrazione è terminata negli anni in cui l’Amministrazione provinciale è stata governata dalla Lega Lombarda, la collaborazione con il Comune di Bergamo, quando la Giunta comunale di centro destra ha assunto posizioni incompatibili con le mie convinzioni, il senso civico e la fedeltà richiesta dal Vangelo. Ho continuato invece a lavorare nella costruzione e nel consolidamento di reti tra diversi soggetti. Dall’agosto 2000 sono direttore dell’Associazione Casa Amica, una di quelle agenzie soglia di cui ho accennato precedentemente. Casa Amica lavora in rete con tutti gli organismi pubblici e privati che sono implicati nel fenomeno immigratorio; pur perseguendo obiettivi parziali e più mirati, cerco di mantenere la dimensione intera del fenomeno migratorio, ponendo attenzione alle implicazioni umane che ricadono su una persona a seconda che abbia o meno un’abitazione dignitosa.
Le situazioni di vita vissute in questi anni mostrano che l’ingiustizia strutturale rappresenta sicuramente la sfida più grande per la coscienza civica dell’occidente ricco e per la Chiesa, in particolare sfida la Chiesa sul versante della giustizia, del servizio e della povertà evangelica.
Nelle situazioni precedenti si trattava di agire per i nostri, per gli ultimi, con criteri non solo assistenzialistici o di più giusta redistribuzione del reddito; si trattava di agire per espandere il riconoscimento dei diritti della persona, incluso quello di non essere ostacolato o scandalizzato nella risposta all’azione di grazia dello Spirito che “soffia dove vuole”. Nella nuova situazione di vita ci si trova di fronte all’esclusione sistematica e organizzata di persone vittime dell’ingiustizia (anche e soprattutto di popoli di cultura cristiana) e non della loro cattiveria, o ignoranza, o cattiva volontà, come invece siamo soliti etichettare gli emarginati e gli esclusi a causa del pregiudizio automatico o dei residui di dottrina della retribuzione temporale da cui il nostro DNA non si è ancora pienamente liberato.
Il ristabilimento della giustizia e del diritto è una delle grandi esigenze bibliche: è il centro della preghiera del giusto perseguitato (Sal. 7) e dell’invocazione dell’innocente (Sal. 17); è il compito specifico e proprio del re messianico (Sal. 72). È l’ambito della missione dei discepoli (Lc. 9, 1ss) e quello in cui il Signore eserciterà il giudizio finale (Mt. 25,30ss). Gustavo Gutierrez in Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, pag. 96, afferma: “La giustizia e il diritto non possono essere promossi in astratto, bensì in relazione con la situazione inumana che vivono gli orfani, le vedove, gli stranieri: trilogia classica nella Bibbia per indicare i poveri. “Padre dei poveri” è appunto una qualifica che spetta a Dio: “Padre di orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora” (Sal. 68, 6). Questo è il comportamento che deve tenere chi vuole essere fedele al Signore: “Sii un padre per gli orfani” si prescrive nel Siracide 4, 10 (cfr. anche Is. 22, 21). Senza scordare che tale impegno implica che ci si opponga agli oppressori e agli ingiusti” (cfr. Sal. 3, 8; 58, 7; 101, 8).
Se le implicazioni e l’impegno che da questa situazione derivano sono chiare, del tutto problematica è la ricerca delle modalità e dello spirito evangelico con il quale tradurre questo impegno nella vita quotidiana. Il riferimento non può essere che la croce di Cristo (cfr. Fil. 2, 1-1l; 1 Cor. 1, 17-25) e l’ambito di applicazione le scelte di vita.
Ancora una volta le scelte hanno travalicato le mie ristrette visioni e sono state occasione di ulteriori appelli alla conversione. In particolare due realtà assumono il carattere di prova, mi sollecitano la virtù della fedeltà e della perseveranza e sono alla base degli appelli alla conversione.
In primo luogo l’impossibilità oggettiva a condividere la vita delle persone che vivono in una situazione di ingiustizia strutturale. Esse ci identificano comunque con i popoli che operano e sono causa di ingiustizia; nei casi più fortunati ci riconoscono la buona fede e la buona volontà; il più delle volte siamo identificati come rappresentanti e funzionari o ministri del potere oppressore. Forse sta proprio qui la sequela della croce di Cristo.
La seconda realtà riguarda la radicale mancanza di potere e di opportunità di queste persone. A questo riguardo ho più volte constatato che la mia ribellione è ispirata più da orgoglio che da amore per gli ultimi e quindi è poco evangelica.
Quello che abbiamo imparato nel movimento operaio non è sufficiente ad affrontare questa nuova realtà. Con la classe operaia abbiamo imparato a lottare per difendere o affermare diritti, abbiamo ereditato mezzi per promuoverli e, collettivamente, ne abbiamo inventati di nuovi; in qualche modo abbiamo condiviso la situazione di persone e soggetti sociali in grado di rivendicare i loro diritti, persone e soggetti certamente non privilegiati, ma a modo loro potenti. I nostri nuovi amici invece sono radicalmente deboli, sono i poveri della Bibbia che non potranno mai recuperare i loro diritti senza l’aiuto di qualcuno, del Padre dei poveri, secondo tempi, modalità e strade che non ci è dato di conoscere.
L’appello alla conversione ci arriva sotto forme diverse, come limiti che ci bruciano e ci umiliano: il non riconoscimento di quanto facciamo e il sospetto rispetto alle intenzioni; la privazione di efficienza e di potere; l’ennesima mancanza di sintonia con la Chiesa e con le stesse comunità ecclesiali in cui viviamo. Di fronte a questi limiti si ripresenta con tutta la sua forza la tentazione originaria di chi vuole possedere e dominare la realtà mangiando “dell’albero della scienza del bene e del male”.
Nel momento in cui mi sembrava di aver conquistato un po’ di sapienza evangelica mi sono riconosciuto di nuovo nella condizione di Abramo invitato dal Signore a lasciare la terra. Intravedo come via di salvezza il mettermi alla sequela di Gesù, sicuro di essere erede della ricompensa promessa agli apostoli: “Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove, e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele” (Lc. 22, 28-30).
Nel rimetterci in cammino mi sostiene l’esempio di Abramo: “Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Eb. 11, 8).