Memorie vive (3)


 

Paola Sani ha discusso nel novembre scorso
al Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pisa
una tesi dal titolo: “Vita di un prete operaio.
Don Renzo Fanfani. 1935-2017″.
Di seguito un paragrafo di quella tesi.

Nel 1972, Lido Cipollini era un ragazzo, aveva 16 anni e lavorava alla vetreria SAVIA di Empoli. Una mattina venne a sapere che sarebbe entrato un nuovo lavoratore, don Renzo Fanfani, un prete che aveva lavorato a Firenze in una fonderia. Un avvenimento.
Tutti rimasero stupiti e curiosi. Era stato Pietro, il capofabbrica a informare i lavoratori. Lido stesso racconta:

Si sa che in vetreria a quei tempi c’erano persone particolari, ‘il peggio del peggio’, non cattive persone, ma coloro che comunemente non legavano con gli altri; ‘lì di normale non c’erano neanche i mattoni’; però si creava un legame forte fra i lavoratori, un equilibrio tale da rappresentare una grande famiglia. Anche le posizioni politiche erano comuni e diverse, c’era quello che portava il cappello di Mao come quello che apparteneva all’organizzazione di Lotta Continua (intervista a L. Cipollini, 22 febbraio 2019).

L’arrivo di don Fanfani provocò molte reazioni: «ci fu un gran subbuglio con l’ingresso in fabbrica di questo prete, si rivoltò il mondo», perché era difficile comprendere questa novità, un prete che non veniva a predicare, ma che avrebbe indossato i panni del mestiere e si sarebbe seduto nella ‘piazza della vetreria’, come tutti gli altri.
Nel gergo vetrario, la ‘piazza’ indicava l’unità produttiva necessaria, in grado di realizzare un manufatto dall’inizio alla fine. Il maestro vetraio coordinava i lavoratori che in cerchio occupavano lo spazio che stava davanti al forno e nel quale si muovevano in squadra. La piazza assumeva una dimensione di scambio e interazione, diventava il luogo quotidiano di incontro e conoscenza reciproca.

Tanta la curiosità degli altri lavoratori nei confronti di don Renzo Fanfani, «tutti avevano da dire e ridire, lo studiavano, si parlavano nell’orecchio, bisbigliando e con cenni di richiamo reciproco, pronti a prenderlo in giro e a sbeffeggiarlo».

Don Renzo Fanfani iniziò a entrare dentro le situazioni, raccontandosi e ascoltando gli altri. Bastarono pochi giorni perché l’atteggiamento dei compagni di lavoro mutasse nei suoi confronti; i compagni desideravano stargli vicino per commentare insieme fatti avvenuti e questioni di attualità. Il prete attirava i compagni vetrai e sollecitava in loro il desiderio di sapere. Aveva, con pochi gesti, conquistato la loro fiducia: nessuno può scordare che lui si spogliava insieme a tutti per fare la doccia alla fine del turno di lavoro; anche questa era condivisione, mettersi a nudo, stare al gioco e agli scherzi come tutti.
«Sembrava uno di noi, che c’avesse lavorato da sempre», dice Lido. Tutti lo rispettavano, «guai a chi l’avesse toccato», scattò un senso di protezione nei suoi confronti, era diventato parte significativa di quella umanità.

Era un lavoro duro il vetraio. Rappresentava una sorta di ultima spiaggia, perché era accessibile a tutti e non richiedeva studi particolari o specializzazioni. L’umanità che lì si trovava era composta da gente fuori dal comune. La condivisione della pesantezza delle giornate faceva nascere il rispetto reciproco. Non mancavano le risate, tante. In vetreria tutti avevano un soprannome: don Fanfani lo chiamavano ‘don’ oppure il ‘Fanfa’. I compagni di lavoro lo stimavano e tenevano a lui. Faceva notizia in tutta la città che fosse prete operaio con la mansione di tranciatore di bicchieri o aiutante nell’officina. Quando c’era da discutere di qualcosa con la direzione era lui che li rappresentava perché sapeva parlare. Diventò motivo di vanto avere un prete in fabbrica.

Alla vetreria SAVIA ci lavoravano circa 60 persone, si producevano bicchieri artigianali, non c’era il forno continuo, veniva lavorato il vetro della giornata, i turni di lavoro erano solo di giorno e diversi nell’orario, che fosse estate o inverno, solo i fonditori facevano la notte per mantenere il forno acceso.

Nel 1972 don Fanfani era ospitato nella parrocchia di Spicchio nel Comune di Vinci, da don Giacomo Stinghi. Giacomo racconta che con lui fu un’esperienza bella, anche per la gente, perché a Spicchio erano tutti comunisti e lui non fece misteri di come la pensasse. Celebrava la messa senza essere schiavo della liturgia, a modo suo. In parrocchia non ci passava molto tempo, ma con lui la casa si riempiva di gente. Giacomo annota che, quando trovò occupazione alla vetreria SAVIA, Renzo non chiese un posto particolare, benché fosse un lavoro molto duro. All’inizio tenne nascosta questa scelta in parrocchia, poi la rese ufficiale. Renzo raccontava che erano suoi compagni due ragazzi africani con mansione di fonditori, che lavoravano quasi nudi tanto era il calore. Erano musulmani e lo meravigliavano perché durante il Ramadan, per tutto il giorno, dall’alba al tramonto davanti ai forni, non bevevano né mangiavano.

Questi fatti l’avevano impressionato e ne parlava con me, con la gente la sera fino a tardi, nel giardinetto dietro la casa della parrocchia. C’era tanta gente che frequentava la nostra parrocchia e a Empoli si diceva che questa era la parrocchia comunista, perché io e lui eravamo così etichettati. Ma con i partiti, tutti, lui aveva da ridire e aveva ragione, non si è mai allineato. A un certo punto Renzo mi disse che voleva lasciare il lavoro alla SAVIA, voleva fare altre esperienze, capire la sua strada. Io credo che volesse scegliere un di più, non qualcosa di più facile, forse di diverso, un’esperienza più impegnativa per lui, cercava, si muoveva.
Disse: “compagni smetto!”. Nerbone, operaio della SAVIA che abitava nella casa accanto alla parrocchia, lo mise in crisi e gli disse: “bene, perché tu sei un prete te lo puoi permettere, perché tu c’hai la Chiesa che ti mantiene; io non lo potrei dire, perché c’ho una famiglia da campare”.

Questo a Renzo gli fece un gran male, perché erano compagni di avventura, di parte politica. Renzo quando si accorgeva di aver fatto un fallo stava male. Era un prete, sapeva parlare, aveva presenza fisica, una grande voce, era un leader, era apprezzato, ma quando comunicò la volontà di andare via perse dei punti con i compagni operai.

Il ‘Fanfa’ si rese conto della differenza rispetto ai suoi compagni: avere la possibilità di poter scegliere a fronte della condizione di dipendenza nella quale, invece, gli operai erano costretti a stare. Lui era un privilegiato. Fu per lui l’occasione di riflettere sulla sua condizione di privilegio: anche se sapeva dire tante cose belle, queste non bastavano. Era inutile condividere quella condizione se poi, vivendola, lo scarto della differenza non cambiava, lui aveva la libertà di scegliere, gli altri no. Questa consapevolezza lo cambiò profondamente. Decise di rimanere.

Fanfani in vetreria, in particolare con i ragazzi più giovani, organizzava momenti di discussione, corsi di politica per conoscere e approfondire le vicende di attualità che viveva il nostro paese. Erano incontri che duravano mesi e, due volte la settimana a fine turno, ci partecipavano una quindicina di ragazzi. Un’occasione per parlare di diritti civili, di sfruttamento della classe operaia, di come reagire. Stava con gli operai con l’attenzione a suscitare interesse e domande in loro, perché lo sfruttamento passa soprattutto dalle minori opportunità che si hanno e nel fatto che talora manca interamente la consapevolezza di ciò. Organizzò anche una gita a Parigi, perché, come diceva, «anche gli operai hanno diritto al bello». In ciò si può evidenziare la somiglianza metodologica con l’esperienza del priore di Barbiana, Lorenzo Milani: l’attenzione alla crescita culturale delle ‘giovani vite’ e al ‘di più’ della bellezza, dell’arte e della poesia.

Condividere significa anche trovare insieme una strada per poter migliorare la propria condizione di vita. La vita dell’operaio non era una vita comoda e quando condividi la giornata a quel livello conquisti un valore: la credibilità. E la credibilità dà forza e coraggio anche a chi non conosce i propri diritti e non sa di poterli rivendicare. Per questo don Renzo Fanfani camminava insieme ai compagni di lavoro per il 1° Maggio a Empoli. Alla grande manifestazione dei sindacati portava un cartello, tutti gli anni diverso, un anno c’era scritto: ‘voglio che i figli degli operai siano trattati uguali ai figli dei professionisti, dei ricchi’. Era lui che rappresentava davvero il nuovo, una persona per bene, un lavoratore come i suoi compagni, un prete che aiutava tutti. Potevi non essere d’accordo con lui, ma non potevi non riconoscere la statura morale di questo uomo, intelligente e aperto ai diritti civili.

Racconta Lido: «Renzo lo sapeva che non ero credente ma fra noi c’era molto rispetto. È stato il testimone del mio matrimonio civile». Era infatti diventato un punto di riferimento per molte persone dentro e fuori dalla vetreria, sapeva esprimersi in maniera chiara, conquistava le persone con il comportamento e il suo modo di fare esplicito, diretto e coerente con le sue idee, si esprimeva come una persona non caricata dei ruoli che portava; gli altri vedevano in lui qualcosa di diverso, erano costretti a superare l’ostilità nei confronti dei preti.

«Vederlo alla manifestazione del 1° Maggio con la scopa in mano ‘per far pulizia’, per la gente che c’ha lavorato insieme, era motivo di orgoglio e anche chi non lo conosceva direttamente mi domandava: ma il Fanfani ha lavorato con te?».

Era il 19 marzo 1973. Domenico arrivò a Empoli da un paese della Calabria, dove ancora le strade non erano asfaltate, aveva 16 anni. Era solo, piccolo e molto magro. Racconta:

Entrai a lavorare alla SAVIA, mi sentivo sperduto, non sapevo nulla e i compagni di lavoro mi hanno fatto da maestri. Piangevo nei turni di lavoro perché alcuni operai mi spregiavano. Allora Delfo, il capofabbrica, mi chiese come mi chiamavo, glielo dissi cinque o sei volte, ma non riusciva a capire, poi mi dette un pezzo di gesso e glielo scrissi a stampatello, sapevo scrivere, ma parlavo in dialetto stretto e non mi capivano, mi prese per mano e mi disse “ti porto dal prete”; io guardavo ma non vedevo nessuno vestito da prete, poi ecco questo gigante con il basco, mi affidò a lui, rimasi senza parole, ero abituato ai preti con il colletto bianco (Domenico Pitimada, intervista dell’autrice, 22 febbraio 2019).

Fanfani insegna a questo ragazzino la lingua italiana e il lavoro, l’anno dopo lo fa partecipare al corso delle 150 ore per il conseguimento del diploma di terza media, lo accompagna come un figlio.

Renzo portava la gavetta e mi diceva “oggi ne ho portato di più, si mangia insieme”. Mi lasciava libero di scegliere cosa fare, non s’imponeva, quello era il suo metodo, anche in fabbrica, però lo sentivo sempre accanto. Mi sentivo orgoglioso di conoscere don Renzo e all’interno della fabbrica mi sentivo protetto e riscattato.

Aprire nuove strade è qualcosa che accomuna i preti operai, una ‘Chiesa in uscita’ come interpretazione della fede, che non è solo ricerca religiosa, ma diventa sociale, capace di trasformare la società. I preti operai sono stati significativi perché hanno condiviso le condizioni di vita di chi in quel momento storico era povero e sfruttato e si collocava nell’ultimo gradino. È interessante comprendere che la condivisione insegna a entrambe le parti, non c’è qualcuno che dà e qualcuno che riceve, in questa dinamica spesso le cose si ribaltano: si va con l’idea di portare Gesù e si trova Gesù, si pensa di andare per evangelizzare e si torna evangelizzati. È la storia di tanti preti operai che lungo la strada si sono trovati trasfigurati in uomini.

 

Paola Sani


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