Il singolo, la politica e …oltre


 

L’angelo obliquo

Ci si siede. Sono pronte la carta bianca e la penna e si comincia a raccogliere gli sparsi pensieri attorno a ciò che solo così può diventare un tema, un oggetto, in questo caso la morte. In un istante qualche divinità sconosciuta ci evita questo gesto così naturale, che è insieme rovinoso. Perché se si pensa, si parla o si scrive, ci si attiva, si fa qualcosa, mentre non solo essa, la morte, ma soprattutto il suo pensiero è pura passività.
Tre o quattro volte in vita, forse, si è pensati da quel pensiero e raramente questo accade nei luoghi dove esso dovrebbe essere di casa (funerali, cimiteri…), ma in attraversamenti improvvisi. Si può così parlare di quel pensiero in sua assenza, e questo è un lavoro dei funzionari della morte, un lavoro come un altro. Ma se ci coglie quel pensiero si comprende che, molto prima che sia polvere questa carta e siano polvere chi scrive e chi legge, sono polvere le parole che, com’è giusto, si muovessero dritte a circondare un oggetto.
Non c’è strada dritta, l’angelo è obliquo e viene obliquamente. Per questo pensare e scrivere della morte è una resa, è un cedere al sonno. Come i discepoli necessariamente dormivano vicini al Maestro che agonizzava, così necessariamente, scrivendo di questo, si scrive nel sonno che è accanto al risveglio. Ma il risveglio accade con leggi e modi suoi. E anche il lettore non ha qui la figura di colui al quale ci si rivolge chiedendo o dando attenzione. Il lettore è la ragazza del Cantico dei Cantici, per la quale si raccomanda: “Non fatela alzare, non risvegliatela fino a quando essa stessa non lo voglia”.
Il lettore non riceve niente. Nel suo sonno può accadere qualcosa, ma nessuno sa in quali tempi e in quale modo. Così come non si comprendono i morenti: si guarda la cartella clinica come un manoscritto cinese, e gli oggetti sul comodino (la bottiglia d’acqua minerale, il bicchiere…) sembrano totem silenziosi. Nient’altro.

La preghiera per Agnes

“Sussurri e grida” di Ingmar Bergman. Agnes è morta. Attorno al suo letto sono le sorelle Maria e Karin e la domestica Anna. Il pastore recita la preghiera dei morti. Migliaia di films e centinaia di funerali mostrano la ferrea forza di questi testi. Forzarli sembra impossibile, ma può accadere, come ha fatto Rosaria Schifani ai funerali di Falcone e della sua scorta e come accade nel film di Bergman. Il pastore infatti, dopo aver letto le formule del rito, così si rivolge ad Agnes: “Se hai ottenuto di esprimerti nella lingua che solo Dio onnipotente conosce, aiutaci…”.
Perché si parla qui di lingua sconosciuta? Non è forse conosciuto il luogo in cui vanno i morti? Il morente non si reca forse nel Luogo più preparato che esista?
Sono già pronti e conosciuti i vari paradisi, gli inferni, i cieli e le terre, le gioie e i tormenti, o il sonno, il riposo, oppure le isole dei beati, o i luoghi di foschia e di nebbia. Anche i vari “non – sappiamo”, “dopo – la – morte – non – c’è – niente” sono, a loro modo, conosciutissimi luoghi dei morti. Il pastore invece, toccato dall’angelo obliquo, parla di lingua sconosciuta rivelando con violenza che, appunto, i mondi dei morti niente hanno di sconosciuto.
Questi mondi sono meno incerti del mondo in cui viviamo. Gioie o tormenti, o i vari “niente”, sono soltanto degli ingrandimenti maldestri di qualche gioia o tormento o “niente” di questo mondo. Poca strada si fa morendo. Si diventa o polvere o antenati, parte quindi significativa della Città, funzione portante. I morti così acquistano o la potenza della protezione (la base dei “ricordo” che spinge il presente), oppure diventano esempio con le loro stanze di tortura meritata, oppure ancora, se gli al di là si configurano come sottoscala polverosi o discariche di rifiuti o addirittura come “niente”, mostrano l’importanza della distruzione nel ciclo stagionale o economico.
Il mondo dei morti, invece di essere, come si presume, la parte di mondo che sommata al nostro mondo di vivi fa il tutto, sono una produzione che l’immenso lavorio dei sopravvissuti esercita sulla miniera dei morenti, sono figure di questo mondo. Nascita e morte infatti, per poco che ci si lasci toccare dai loro angeli obliqui, mostrano un volto di una tale irrazionalità, che mai potrebbero sopportare di essere fondamento di qualcosa di sensato.
Di qui, per aver ragione della morte, nascono i mondi dei morti e tutti gli al di là che sono un cumulo di figure utili per questo mondo. Infatti essere degli esseri mortali, subire esami, essere guardati dai Grandi Controllori, sapere che ogni azione ha un premio o un castigo, essere ricordati o dimenticati, proteggere o essere protetti…, sono potenti funzioni che i morti assicurano al vivere in questo mondo. Per creare questo mondo si creano quindi i mondi dei morti e si creano i morti già vedendo morire i morenti. Già in questo sguardo si attua la massima violenza sul mondo a parte del morente, così come esso salga subito e diventi subito antenato.
Grande quindi e preziosa è la miniera dei morti. Di lì si estraggono codici, manuali, catechismi, morali, tradizioni, leggi, identità individuali e di gruppo. Sciocco pensare che questi non siano beni preziosi. Si pensi alla utilità del “manuale della morte”. Esso fissa una condizione generale di vita, assoluta anzi, dove le varie categorie (come nascita, mortalità, morte…) opposte a quelle di un Essere che non nasce, non è mortale e non muore, fondano il senso primario dell’esistenza.
In questa Condizione Assoluta si situano, con eguale forza di dare senso, mille altre condizioni precostituite rispetto alla vita unica del singolo. Esse sono: essere bambino, figlio, padre, madre, uomo, donna; poi le varie attività come l’amore, il produrre, diventare vecchi, subire menopausa, poi malattia e morte. Tutte queste condizioni si presentano come manuali da osservare, condizioni precostituite, sceneggiature e copioni, nei quali nulla il singolo può portare di nuovo. La severità dei comportamenti che impongono questi riti e queste cerimonie è tale che essi appaiono non oggetti allo sguardo del singolo, ma le condizioni dello sguardo stesso e, come tali, hanno l’invisibilità e l’invincibilità dell’evidenza. Nascere, vivere e morire avvengono come inserimento e applicazione da parte di un singolo di una Legge assoluta e preesistente di nascita, vita e morte. Al massimo il singolo potrebbe essere l’eccezione alla Regola, ma non potrebbe pensarsi fuori della Regola, a meno che…

Il volar via dei catechismi come stracci…

A meno che il rito e la cerimonia non implodano in se stessi nell’evento che li attraversa per un attimo. Così è accaduto a Rosaria Schifani, così nel film di Bergman e nel grande scritto di Hofmannsthal (la Lettera di Lord Chandos), dove il crollo del linguaggio non è sentito come malattia ma come rivelarsi terribile, ed entusiasta insieme, dell’inedito. Altri film, come “The Dead – Gente di Dublino” di J. Huston e soprattutto “Picnic ad Hanging Rock” e “L’attimo fuggente” di P. Weir, alludono a questi passaggi.
Qui si dice “alludono” perché tutto, di fronte al singolo, è sempre un rito e una cerimonia che devono implodere. Per questo ciascuno, racchiuso non nella sua individualità ma nella sua singolarità (l’identificazione dei due termini è la vittoria decisiva dei manuali sul singolo), si affida ai suoi eventi. Sarà grato a qualche gioia o dolore o prova, a qualche febbre o malattia o incontro o a qualche sogno, a qualche “niente” che lo assalga improvvisamente, di comprendere l’alto valore dei codici nella politica piccola e grande dei rapporti tra gli uomini. Tale è la violenza che ciascuno porta in sé, che l’uomo può solo diventare un “animale” politico attraverso la limitazione della sua libertà nelle leggi, nella ragione, nei manuali e attraverso le convenzioni.
Ma lo stesso istante che rivela il valore dei codici sociali rivela il nulla di tutti gli altri codici e manuali che pretendano la totale ritualizzazione del singolo, riducendo la sua unicità a essere “il caso numero xy di una legge”.
In questi momenti volano via come stracci nella tempesta tutti i catechismi. Invano le teorie del mondo le si prova come un attrezzo su una situazione inedita. L’attrezzo si rivela comicamente inadeguato. Tutto quell’osceno insieme di mezzo ateismo e di mezza fede, di cui è pieno il cattolico in Italia, è frutto di questo volar via dei catechismi. Le belle teorie del mondo cristiano, così precise e rassicuranti come una casa che si trova già ammobiliata, vanno in pezzi.
Già Goethe, di questi momenti che prendono il singolo, parlava come di un naufragio nel quale vanno perdute tutte le nostre belle casse piene di roba, e ci si dovrà affidare a qualche vecchia tavola. Tutte le vite umane hanno di questi crolli. Lo si potrebbe negare solo a partire dalla certezza che essi esistano solo se sono comunicabili, e questa certezza è diffusissima dato l’obbligo imperante della comunicazione come necessaria esibizione e prostituzione di sé. Si può anche pensare che la loro esistenza si debba negare perché essi spesso interdicono anche la coscienza che il singolo stesso ne ha. Eppure questi istanti pulsano continuamente fino a convincere il singolo che può accedere ad una lingua sconosciuta.
Questo può accadere perché gli si rivela in una violenza paurosa che “il latte materno era avvelenato”, oppure che “i padri hanno mangiato l’uva acerba ma è toccato ai figli sentire la bocca amara”. Si rivela cioè al singolo la profonda ambiguità dei riti e delle cerimonie, anche quelle nascoste nelle evidenze che si esprimono dicendo: “Sono nato, vivo, morirò”.

Gli amanti della vacca

Mario Perniola, nel suo meraviglioso libretto “Del sentire” (Einaudi, 1991), evoca l’intricata foresta di riti – cerimonie – linguaggi che circondano il singolo, già da quando inizia a guardare il mondo. Questa prigione, questo velo, egli lo chiama il già sentito.
Non si accede in un qualche modo genuino alla realtà, ma il suo accoglimento avviene in un sentire ormai anonimo, socializzato, precostituito. Non c’è fatto della vita o condizione, che non esistano già come una legge che attende che il singolo esista e viva solo entrando in essa e realizzandola. La singolarità stessa (l’essere assolutamente unico che appare nell’ombra del nome proprio di ciascuno e che rappresentò un abisso di non – senso o di sovra – senso già nella logica antica) scompare nell’essere membro di una specie, di un gruppo. E tutte le condizioni sono fatti appartenenti al Gruppo, e di volta in volta appartengono, come partecipati, al singolo. Anche la morte (della quale non c’è alcuna esperienza né come fatto di altri né come fatto personale) non si capisce con lo stratificarsi delle varie esperienze di chi, appare, appartiene al già sentito. È una condizione generale pre-esistente nella quale si entra di volta in volta singolarmente. Così nasce l’idea del Viaggio e delle varie case dei morti. Così il dominio del già sentito si rivela perfetto e la sua forza parassitaria, sia di ciò che diciamo vita sia di ciò che diciamo morte, invincibile.
Il cristianesimo reale ha avuto ed ha una grande forza nella costruzione di questa condizione totalitaria. Nella sua pretesa ambigua di essere guida della politica e insieme giudice esterno alla politica, ha trasformato il Senso totale e trascendente della storia in banale fondamento della politica e del mondo, immiserendo l’Assoluto ad essere una specie di Governatore del mondo. D’altro lato tutte le necessarie categorie di questo mondo (l’io, anima, corpo, spazio, tempo, relazioni…) acquistano una certa assolutezza, con il risultato che certi valori politici diventano così importanti da rendere necessaria l’intolleranza e la violenza per imporli.
Così Dio diventa un Signore di questo mondo che contiene la nascita di ciascuno. Egli governa anche la casa dei morti, che esiste già da qualche parte e che aspetta il singolo dopo che sarà giudicato.
Oggi in Italia (con molta forza anche per far dimenticare alle persone che del regime che qui ha portato la nazione è madre anche la classe clericale) è ormai un’alluvione di questa presenza di Dio come Ente moralizzatore, dalle spietate teologie sulla condizione della donna, sul controllo delle nascite, alle continue rappresentazioni di valori su valori, compreso quello della pena di morte giusta e della guerra giusta. Resta naturalmente al centro il cattolicesimo come unica religione vera e la necessaria “aggressione” alle altre confessioni cristiane.
Imperversa quindi, anche nella religione, il già sentito nella sua violenza estrema perché così anche le condizioni ultime del singolo (nascita, vita e morte) ricevono, in siffatta degradazione della Divinità ad essere Sindaco del mondo, la precisione e la determinatezza, la materialità si direbbe, di qualsiasi condizione umana. Né la Divinità si salva dal vedersi attribuiti gli attributi di qualche Dittatore buono o capriccioso, o di qualche Grande Controllore, né al singolo viene risparmiata la sorte di essere un cittadino con pochi diritti, poca vita, in balìa del Potere.
Questi gli esiti della determinazione di fare di Dio qualcosa di utile per il mondo. Di tale tentativo, che è la sostanza del cattolicesimo moderno ma che è una costante sua tentazione, Eckart diceva: «… questi seguono Dio come il nibbio segue la donna che porta trippa o salsicce, come i lupi seguono la carogna, come la mosca segue la pentola» (Commento a Giovanni, n. 231, a cura di M. Vannini, Città Nuova).
E nella predica n.16b Quasi vas auri…: «Certa gente considera Dio con gli stessi occhi con cui considera una vacca. Ama Dio come ama una vacca. Tu ami la vacca per il latte e il formaggio e per il tuo utile. Così fanno quelli che amano Dio per la ricchezza esteriore e per la consolazione interiore» (Opere Tedesche, Nuova Italia, pag. 232).
Se questo è il volto del Dio – Merce, il volto del singolo, chiuso nella prigione assoluta di questo mondo che comprende tutte le case dei morti custodite da questo Dio, è visibile, se si vuo1e, nel Processo di Kafka ma, molto più temibilmente, nei funerali cattolici. In essi infatti, con esito opposto a quello voluto dai celebranti, tutti gli accenni alle varie condizioni che ci attendono dopo la morte (angeli, giudizio misericordioso, la casa del Padre…) non possono non creare, con la loro fissità di luoghi senza scampo, che una paura senza parole.
Così il già sentito, da generalizzazione mondana che impoverisce le esperienze dei singoli (oscurandone il carattere radicale di nascita, grazie al tentativo di chiudere l’assoluto e il singolo in un controllo totale) diventa il già sentito, prigione definitiva.

I varchi

Ora si vede chiaro che le case dei morti, paradisi o inferni che siano, sono prigioni che dei vivi preparano per altri vivi. Esse, più che un omaggio ai morenti (sul quale dovrebbe essere assoluta l’affermazione di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere», Tractatus, 7), sono uno strumento di difesa dei vivi per vincere il tempo negandolo attraverso l’eternizzazione di qualche pezzo di creatura che passa, opposto alle creature che passano.
L’incapacità di morire addensa tutte le energie disponibili attorno all’io e alla sua roba, e addensa anche l’infinita diffusione della Divinità attorno all’io, per fare di sé una Cosa Immortale. Dio diventa la Grande Cosa Eterna, perché l’io e le sue cose restino come Cose Eterne.
Anche dal grande e incommensurabile fuoco dell’evento cristiano si è tratto questo progetto di sacralizzare qualche pezzo di mondo per giocarlo contro il resto del mondo dichiarato profano. Così l’incarnazione è stata il mezzo potente per disobbedire radicalmente ai primi comandamenti, nella lunga catena di superstizioni: i sacri testi, la sacra tradizione, il sacro stato, le sacre persone, i sacri luoghi, i sacri partiti, le sacre tasse dell’otto per mille, i sacri patti dei Concordati, le sacre ore di scuola, i sacri “preservativi”, i sacri divorzi, le sacre banche, i sacri spettacoli, i sacri valori, la sacra audience, i sacri intestini da operare, le sacre nevi dove il papa passa cinque ore e ogni tanto si ferma a pregare (Il Gazzettino, 30 dicembre 1992), evidentemente le sacre pipì, le sacre condanne delle donne, il sacro dovere di essere ogni giorno in TV il Mulino Bianco per imporre come al solito pesi che personalmente non si alzano nemmeno con un dito, per cercare sempre le pagliuzze negli occhi degli altri mentre…
Il Bardo Tödël (conosciuto in occidente come Il libro tibetano dei morti) è recitato vicino alla salma del defunto nel Tibet. Dopo la morte c’è una esistenza intermedia, durante la quale appaiono al suo spirito visioni di bellezza e di paura. Il libro recitato gli raccomanda che né il suo desiderio aderisca alle prime, né che la paura creda alle seconde. Sono illusioni. Se lo farà ritornerà nel tormento di una nuova esistenza. Se non lo farà, sparirà nella luce indiscriminata della coscienza assoluta. Per questo (nota il Tucci nella introduzione alla edizione italiana della Utet, pag.17): «per i tibetani il cadavere si brucia o si squarta o si abbandona sulle montagne, perché le bestie da preda e gli uccelli lo divorino».
È questo un varco dalla prigione delle case dei morti? Forse. Ma forse, per chi fa riferimento al cristianesimo, è da ritornare sempre e ancora al Vuoto nel quale si chiude l’evento cristiano, cioè la Risurrezione. Se la classe clericale ha riempito il sepolcro vuoto di una mummia per farne un saldo fondamento mondano, la Risurrezione può essere invece il Gesto con il quale Qualcuno toglie ogni possibilità di ridurlo in polvere o in grande antenato, fondatore e oppressore. In poche parole non è lasciato né ai vermi, né ai discepoli. Nessuna possibilità è lasciata a discepoli, successori, devoti, di trasformarlo in Sacro Cadavere, in Sacra Reliquia per poter rendere sacri se stessi e le proprie robe, così che l’evento scompaia in un lontano passato o futuro e sia reso deserto il presente. La Resurrezione è quindi un gesto che assicura una permanenza come Spirito, ma non nei significati pallidi (e non mondani) dello “spirituale”, ma come vento e fuoco, che non stanno in qualche cosa sacra che dovrebbe riempire di sé le cosiddette “cose profane”, ma come evento che tutto è e tutto attraversa. Proprio per questo la sua Unicità, essendo esso sempre allo zero del suo apparire, può parlare all’unicità del singolo che non è più una pura cellula di un organismo storico che si sta creando, o il semplice caso ripetuto di una legge generale e generica.
La folgorante e paurosa unicità del singolo può essere portata perché l’evento è lui stesso unico e tutto nei termini finiti del singolo.
Questo mostra intorno al singolo il «è bene per voi che io me ne vada, perché…».
La profanità dell’evento (che rende profani e pervasivi della materialità della vita umana anche gli accenni trinitari, togliendoli dalla stupidità dell’essere infantili scommesse logiche) permette al singolo di sentirsi come scintilla di un Fuoco che è qui, potendo quindi ri-giocare sempre la sua unicità.. Mostrando tutta l’ambiguità e il rischio anche in positivo di tutte le ripetizioni, le cerimonie e i riti che fanno spesso la totalità della nostra vita, il già citato Perniola, in una sua intervista, affermava che in un suo libro precedente a Del sentire (ma sulle stesse problematiche) «si proponeva di dimostrare che la ripetizione, il rito, la cerimonia poteva avere una sua autenticità e autonomia. Il discorso che faccio oggi circa il sentire è analogo: sono ben 2.500 anni che si parla di possessioni amorose, poetiche, liberatorie, filosofiche, ecc.; bene, questa è una possibilità ancora sempre aperta, fintantoché c’è qualcuno che la vive come una nascita. Nascita non vuol dire origine; nella sua nozione di origine c’è il primato di ciò che è avvenuto in illo tempore, in un mitico tempo degli inizi; nella nozione di nascita c’è invece il primato dell’oggi, del presente, di noi che stiamo qui ed ora. Quando leggo l’opera di un filosofo del passato, c’è sempre la possibilità che essa irrompa come un fulmine nella mia vita: questa mia lettura avviene come fosse la prima. Analogamente quando amiamo, non ci serve a niente l’esperienza passata: è sempre come se fosse la prima volta. Non solo, è come se nessuno avesse amato prima. Lo stesso vale quando si costituisce un collettivo: è sempre la stessa esperienza del tiaso dionisiaco, ma nello stesso tempo è come se fosse il primo collettivo della storia! Se abbiamo perduto questa capacità di meraviglia e di entusiamo, non ci resta che cercare l’albero cui appenderci! La corruzione non proviene dalla storia, che è sempre foriera delle più grandi sorprese, ma dall’assenza di storia!».

Le due maturità intrecciate

Attraverso questi varchi, o altri che continuamente ci si deve aprire, inizia una necessaria spogliazione dei valori della politica e dello stare in questo mondo. Necessariamente, in un mondo di beni scarsi e iniquamente divisi, deve essere tolto ogni valore sovraterreno, per quanto sia inconscio e sembri naturale, della propria vita. Esso infatti può coprire, anche fosse di un velo sottile di ipocrisia, quella iniquità.
L’uomo che nasce violento, non politico, può diventarlo solo se nessuna religione legittima la sua identità personale e collettiva, legittimando la violenza. Si esaurisce così il senso di cristianesimi politici, come senso di questo mondo derivato da un altro mondo. Per questo le tradizioni, tutto ciò che la cura dei morti ha creato di forte, di duro, di “vero”, di assoluto, devono tramontare. Nell’assoluto del dover rispettare gli altri come uomini, si ritirano tutte le legittimazioni sacre, le provvidenze, i meriti in altri mondi. Leggi e codici, convenzioni, diventano importanti per limitare una libertà che, se fosse mischiata a valori alti, sarebbe una miscela esplosiva.
A questa maturità si deve accompagnare l’altra maturità che sta (in ambiti che non siano politici e che non coinvolgano la condivisione egualitaria di diritti fondamentali) in una completa disobbedienza a codici e teorie che prevedano dei luoghi extra-mondani al singolo, perché così ne possono già da ora controllare identità e movimento. Se una fame di identità e mondana fosse più leggera negli interpreti dei Testi (così da ridurne le contraddizioni vitali e portare quei grandi alberi ad essere la segatura dei catechismi) si comprenderebbe già da ora che tutte le grandi metafore come “il seno del Padre”, “la casa”, “il viaggio”, “il riposo”, “la discesa agli inferi”, hanno un valore solo nel perpetuo movimento dello Spirito che sempre le muove e le rimuove. Se esse diventano luoghi oggettivi, prima si spiritualizzano e poi diventano mortali nel loro marcire tra fisicità e spiritualismo. E lo stesso movimento travolge le categorie che reggono la vita del singolo, come anima, corpo, l’io, il tu…
La prima maturità instaura un severo silenzio sui morti, in quanto l’azione politica e mondana conosce solo il dovere del rispetto degli altri: ma senza bisogno di conoscere per sé e per gli altri delle sorti oltre-mondane. Questo silenzio sui morti implica anche un silenzio sui vivi, perché non solo il morente è un enigma, ma anche il vivente è un enigma. Rinunciando al grande Dio Controllore che ha tutto trasparente davanti a sé (come il sogno realizzato di tutti i dittatori), si rinuncia a ritenere l’altro come qualcosa da conoscere e verificare oltre gli ambiti politici necessari per rispettarlo.
Nessuna comunità, né piccola, né grande, può quindi porsi come totale e fusionale. La misteriosità del morente inizia nella misteriosità piena del vivente, dell’io e del tu. Se queste identità sono necessariamente fisse in ambiti politici, in questo ambito si superano, di un colpo, le stupidità delle psicologie e dei catechismi, perché qui “anima” significa vento e “psiche” farfalla.
Se nella politica vale il grado minimo ma prezioso di umanità, di esseri umani, e nessuna religione può da se stessa ricavare un quadro di riferimento umano valido per tutti (perché giocherebbe in modo truffaldino su due tavoli diversi), un nuovo senso religioso, che però non sarebbe né sacro, né spirituale, potrebbe riavere un senso solo per mantenere gli infiniti spazi dell’io e del tu, togliendo anche all’amore il sogno di possedere qualcosa, al prete di evangelizzare qualcosa, allo psicologo di controllare qualcosa, al padrone di sfruttare qualcosa, a qualche Dio politicizzato di fare e disfare qualcosa. Dio e io (che ora sono delle “cose” nei catechismi e nelle alluvioni di moralismo ecclesiastico che sta affliggendo la TV in questi tempi) possono già da ora essere delle cifre vitali che mettono in movimento infinito ciò che nelle relazioni politiche deve restare fermo.
Ananda K. Coomaraswamy, nello studio che segue il testo meraviglioso Sir Gawain e il Cavaliere Verde (Adelphi), ricorda (pag.183) il detto di Eckart: «Ego, la parola io, non appartiene che a Dio nella sua unità»; e il detto derviscio: «Chiunque, all’infuori di Dio, dice ‘IO’, è un Satana». Così, senza dover prendere posto in una qualche teoria pre-esistente o in una qualche casa eterna, il singolo, nella paura della morte che spesso è l’unica morte che ci appartiene, attua una libertà da qualsiasi altro e, insieme, dall’io. Nessun padrone, nessuna limitazione, perché qui, instaurato il silenzio sui morti e sui viventi, lo spirito non sa nulla di lontananza o di vicinanza, di Dio o di io.

Per non uccidere

La delimitazione radicale degli ambiti della politica toglie ogni possibilità a tutta la politica, compresa quella nascosta in molta e in molte religioni, di cercare mappe totali dei singoli. Ogni sacralizzazione di qualcosa di mondano, basato su un’interpretazione della morte e dei morenti, è tolta come presunta conoscenza in funzione di acquisire forza nei rapporti mondani.
Interpretare i morti si mostra come una forma di uccisione dei viventi perché si vuole inserirli in qualche geografia totalizzante e violenta anche sui viventi, perché l’interpretazione dei morti serve a creare rapporti politici oscuri nei loro moventi violenti. È per questo che si rivela un senso etico preciso nel silenzio sui morti e nel pensare la morte come silenzio sui morti. Infatti se il pensare la morte fosse dettato da conoscenza, sarebbe un lusso di privilegiati, dato che oggi nel mondo la figura di massa non è la morte ma l’uccisione, uccisione che colpisce milioni di individui ai quali è tolta ogni possibilità di pensare sia la propria vita, sia la propria morte.
La cura dei morti, la costruzione di grandi al di là colmi di divinità che dettano leggi, colmi di valori tutt’altro che trascendenti, sono figure presunte extra-mondane, ma che fanno invece un tutt’uno con il desiderio e il progetto di rimanere immortali, di ri-sorgere, di non morire. E questo è la premessa dell’uccisione degli altri.
Com’è strano che proprio le civiltà che più esaltavano l’eternità del loro Dio e il nulla dell’uomo, siano quelle che più violenza hanno espresso contro altre civiltà. Non molto paradossalmente, però, perché la cura dei morti e del trascendente è quella che fa vere le religioni, i suoli, il sangue, i sistemi politici, i valori, e che rende giustificata la violenza. È per questo che pensare la morte non può più essere un gesto lussuoso o aristocratico o intellettuale. È, nella sua essenza, un gesto attivo di non uccisione.
Silenzio sui morti è il silenzio sui viventi come non controllabili. È togliere linfa alla costruzione degli antenati, dei valori, delle tradizioni storiche, senza la morte delle quali è impensabile che l’altro, l’altra civiltà, possano essere rispettati.
Due strade rigorosamente diverse e rigorosamente intrecciate. Una strada di necessaria convivenza con il prossimo in una visibilità e verificabilità di rapporti giusti e limitati negli obiettivi. L’altra, quella dell’assoluta solitudine, dove il tutto ha categorie, tempi e spazi radicalmente unici e assoluti.

L’altalena e l’istante

Alla fine di “Sussurri e grida”, Agnes è morta. I parenti lasciano la casa che sarà venduta. Anche Anna, che sola è rimasta vicina alla solitudine della morte di Agnes, lascerà la casa e quei luoghi. Di Agnes tiene in mano il diario che le è rimasto come ricordo, e ne legge una pagina:
«Oggi è mercoledì 3 settembre. Nell’aria c’è già un sospetto di autunno ma è dolce e quasi delicato. Le mie sorelle Karin e Maria sono venute a trovarmi. È meraviglioso essere di nuovo insieme come ai vecchi tempi. Io mi sento molto meglio. Abbiamo potuto perfino fare anche una breve passeggiata, un vero avvenimento per me, visto che da tanto tempo non mettevo piede fuori di casa. Ad un tratto abbiamo cominciato a ridere e a correre verso l’altalena, abbandonata da quando eravamo bambine. Ci siamo sedute, come tre brave sorelline, e Anna ci dondolava piano, dolcemente. I dolori erano spariti. Le persone che amavo più di tutto al mondo erano lì. Potevo udirle chiacchierare attorno a me, sentivo la presenza dei loro corpi, il calore delle loro mani. Volevo aggrapparmi a quei momenti e pensavo: “Qualunque cosa accada, questa è la felicità, non posso desiderare niente di più. Ora, per qualche istante posso assaporare la perfezione e sento di dover essere grata alla vita che mi dà tanto».

 

Roberto Berton


 

Share This