Per l’incontro con il presidente della CEI
Bologna, 22 novembre 2022


 

A Matteo Maria Zuppi, presidente della CEI

La ringrazio sinceramente, anche a nome del gruppo dei pretioperai, per il suo invito ad incontrarla.
Penso sia davvero cosa buona incrociare gli sguardi e guardare i nostri volti. Credo sia in perfetta linea con il Vangelo.
Ho pensato di predisporre in due pagine dei brevi appunti che si riferiscono alla nostra storia e al senso che noi diamo ai tanti anni di vita trascorsi nel lavoro in un rapporto paritario con i compagni che abbiamo incontrato.
Osiamo pensare che possano essere una modalità vera e concreta in qualche modo connessa con l’annuncio del Regno di Dio, così centrale nell’azione e nella predicazione di Gesù.
Abbiamo pensato che sia giusto e fruttuoso farle avere in anteprima questi ap­punti che ho messo per iscritto e che sono stati condivisi dai miei compagni.
Naturalmente nell’incontro in presenza, ciascuno di noi potrà liberamente espri­mersi.
Credo vi sia da parte nostra una sincera disponibilità all’ascolto.
Mi è stato riferito che pranzeremo insieme. Penso davvero che sia una cosa bella e buona.
Con gratitudine e a presto

Roberto Fiorini


Amarcord

1982 Serramazzoni: convegno nazionale pretioperai

Presbyterorum ordinis (1965) n. 8: Il Concilio afferma la possibilità che il prete eserciti “un mestiere manuale, condividendo le condizioni di vita degli operai…”. Questa parola obliterava la posizione espressa dall’allora S. Ufficio che nel 1959, solo sei anni prima, sanciva la tesi espressa del card. Pizzardo “la Santa Sede ritie­ne che il lavoro in fabbrica o nel cantiere è incompatibile con la vita e gli obblighi sacerdotali”. Inoltre la nostra permanenza di PO, durata gli anni di una vita lavorati­va, ha apertamente smentito sul piano dei fatti la profezia di sventura diramata dal Sant’Ufficio. Nel 1965 Paolo VI riaprì la possibilità della vita operaia per i preti e nel 1971 nel documento Septuagesima adveniens arrivò a scrivere: «la chiesa ha in­viato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi i testimoni della sollecitudine e della ri­cerca della chiesa medesima». In tanti abbiamo seguito questa strada. Però la qua­si totalità dei vescovi italiani non era di questo parere e con loro la maggioranza dei preti. Per noi fu l’assunzione di responsabilità per una forma vitae aderente al cam­bio di paradigma che il Vaticano II ci aveva consegnato, non solo con i docu­menti, ma con la ricchezza di testimonianze che si espressero, ad esempio, nel “patto delle catacombe”.

Nel 1985 la Cei invitò due nostri rappresentanti al Convegno di Loreto col titolo “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”. Negli atti pubblicati trovammo la sorpresa nel resoconto della commissione 14 che indicando “i problemi più dolorosi e le situazioni più delicate” elencava alcuni casi di “appartenenza con riserva alla Chiesa: quella dei divorziati che hanno subito il divorzio, dei sacerdoti che vivono esperienze laicali, dei preti operai ad esempio, e di quelle persone che anche psi­cologicamente vivono condizioni patologiche e marginali”. Riteniamo un onore l’essere stati collocati nel mazzo con due tipologie di persone che sicuramente han­no conosciuto sofferenze profonde sul piano esistenziale, ma anche per la squalifi­ca personale che ragionamenti del genere producono. Ed impressiona davvero la stupidità teologica ed ecclesiologica sottesa a discorsi di questo tipo, pubblicati ne­gli Atti senza alcuna nota critica. Convegno ecclesiale!!! Ma anche questo è il se­gnale di un periodo buio per la Chiesa italiana la cui direzione si è discostata dalla linea indicata dal card. Ballestrero, Presidente della CEI in scadenza, che diceva: “Invece di perdersi in recriminazioni e condanne, la Chiesa italiana sente sempre più urgente il dovere di incarnare il dono divino della riconciliazione nelle molteplici condizioni umane nella quali si trova a vivere”.

Sotto la sua presidenza dal 1981 su invito di mons. Battisti, vescovo di Udine e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro, il no­stro Coordinamento nazionale e parte della Commissione episcopale si incontraro­no una prima volta a Roma e altre tre volte a Bologna. Nell’estate successiva al convegno di Loreto, in una comunicazione telefonica tra il sottoscritto e mons. Charlier, nuovo Presidente della Commissione, ricevetti l’invito a raggiungerlo nelle montagne piemontesi dove era in villeggiatura con la sorella. Pranzammo insieme con molta cordialità. I discorsi andavano nel senso di una ripresa dei nostri incontri e mi chiese di inviargli un breve documento che gli sarebbe servito per aprire il di­scorso con la nuova Commissione episcopale. La lettera che inviai rimase senza alcun cenno di risposta. Questa ci giunse poco più di un anno dopo con la pubblica­zione da parte della Commissione episcopale per i problemi sociali e del lavoro del documento Chiesa e lavoratori nel cambiamento (17.02.1987) che al n. 23 afferma­va: “Non sarà necessario mandare un prete in certi ambienti ‘difficili’ come gli am­bienti di lavoro; la Chiesa dovrà essere presente e attiva nei cristiani, purché abbia­no coscienza della loro identità e della loro missione come cristiani”. Non una paro­la sui preti che di fatto lavoravano. Silenzio tombale. Erano passati solo 16 anni dalla missio dichiarata da Paolo VI in un documento ufficiale. Già davvero i tempi erano cambiati.

In una confidenza fatta a un preteoperaio di Torino, il card. Ballestrero, la cui so­stituzione avvenne con una “nomina col sapore di commissariamento” (Melloni), di­ceva una parola chiara: “Il vero problema per voi preti operai non si pone a livello di fede, quanto sulle garanzie della vostra affidabilità politica”. Ecco il peccato origina­le dei pretioperai italiani: l’aver abbandonato l’unità politica dei cattolici che peraltro sarebbe miseramente franata nel 1992 con tangentopoli; e successivamente l’esse­re totalmente estranei alla direzione ecclesiastica dei tre mandati del card. Ruini tesa a “collocare la CEI, e in essa il suo presidente, al centro di una scena politica frammentata” posizionandosi “in una funzione arbitrale” (Melloni).

Chi ha dipinto bene quegli anni, sia sul fronte della società italiana che in quello ecclesiale, è stato Giuseppe Dossetti, in particolare nella conferenza tenuta a Mila­no nel 1994 ricordando Giuseppe Lazzati. “Sentinella quanto resta della notte?” (Is 21, 11-12). Da un lato imperversa la riduzione del “politico a pura contrattazione economica” con “l’eclissi del patto di fedeltà”, dall’altro “noi cattolici italiani abbiamo gravemente mancato, specialmente negli ultimi due decenni” con “veri e propri pec­cati collettivi che non abbiamo fino ad oggi cominciato ad ammettere e a deplorare nella misura dovuta”. Un capitoletto dell’intervento porta per titolo: “La notte va rico­nosciuta per notte”. Dalle nostre postazioni di lavoro coi nostri compagni abbiamo percepito questa notte, sentendo anche una forma di impotenza e pure come preti entro una chiesa che di fatto ci dichiarava inutili, se non dannosi, per la sua strate­gia pastorale.

Ho combattuto la buona battaglia” (2 Tm 4,7)

Un cambio di paradigma è avvenuto nella nostra vita, rispetto alla formazione sacerdotale ricevuta nei seminari: l’evento del Concilio, i documenti con i quali ab­biamo dovuto misurarci, i testimoni che abbiamo potuto conoscere di persona (es. mons. A. Ancel vescovo ausiliare di Lione) di fatto hanno concorso ad attivare in noi un processo di ricerca. Pensiamo alle parole di Giovanni XXIII “La Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”. Espressione fatta scomparire per decenni, almeno qui in Italia, dal magistero e dalla comunicazione intra-ecclesiale fino alla sua riproposi­zione da parte di papa Francesco tre giorni dopo la sua elezione. “Come loro” di René Voillaume è stato il libro di meditazione che tutti abbiamo masticato, connes­so con l’esemplarità dei Piccoli Fratelli e Sorelle di Charles de Foucauld. A livello di riflessione spirituale, importante fu la scoperta dei trent’anni della vita nascosta di Gesù, figlio del falegname, anzi lui stesso conosciuto e chiamato “il falegname” (Mc 6,3). Che senso hanno, rispetto alla efficienza pastorale che ancora si sta cercando di incrementare, che senso hanno quegli anni di Gesù trascorsi praticando un lavo­ro anonimo e dedicando una parte quantitativamente minima della sua vita all’attivi­tà apostolica?

A questo possiamo aggiungere il senso di estraneità rispetto alla vita operaia. Riporto la testimonianza di Piero Montecucco, deceduto lo scorso anno, perché esprime quanto tutti noi abbiamo vissuto.

Il primo anno da prete lo trascorse nella periferia di Voghera e racconta:

“Vedevo gli operai che tornavano a casa dal lavoro a gruppi in bicicletta, e av­vertivo la distanza, l’impossibilità di relazionarmi veramente con loro…Tutto quello che facciamo è sempre orientato a costruire relazioni positive con le persone…

Il sogno di una “Chiesa altra” l’abbiamo ereditato dal Concilio e l’abbiamo fatto nostro con la scelta del lavoro operaio. Tra le motivazioni che ci hanno spinto ad andare in fabbrica, quelle “ecclesiali” erano di grande rilevanza. Io le avevo espres­se con queste parole:

  • passare davvero da una Chiesa gerarchica piramidale alla “Chiesa Popolo di Dio”
  • abbandonare ogni privilegio e ogni forma di potere, per essere “uomo tra gli uo­mini”
  • vivere del mio lavoro, rinunciando a qualsiasi provento legato al ministero
  • concretizzare un nuovo modello di prete inserito nella vita della gente comune”.

La nostra parabola storica, qui in Italia, sta chiudendosi. Può avere un significa­to per la Chiesa di oggi? Intanto una cosa. Il lungo cammino che abbiamo compiuto dando un volto diverso al ministero presbiterale è la smentita oggettiva della incom­patibilità di cui sopra si è parlato. E’sotto gli occhi di tutti che la forma del ministero presbiterale che ancora evoca i criteri tridentini non tiene più. A suo tempo noi ab­biamo accettato fino in fondo il processo di secolarizzazione e siamo entrati in esso. Ormai siamo alla quarta secolarizzazione (L. Berzano). Negli anni ’80 Erne­sto Balducci scriveva, riferendosi al pastore Dietrich Bonhoeffer: “In lui, come nei preti operai, la fine della cristianità non era un tragico evento da subire, era un pro­getto da abbracciare senza riserve e opportunismi. Come risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente cambiata”.

Papa Francesco ha lanciato la “Chiesa in uscita”. Questo noi lo viviamo da de­cenni. Le cose non si ripetono mai uguali, però la nostra fuoriuscita dal clericalismo che – a detta del papa – “genera una scissione nel corpo ecclesiale” e un grave im­pedimento alla fioritura della grazia battesimale dei cristiani, è una testimonianza si­gnificativa e attuale.

Molti di noi hanno varcato la soglia ultima. In ciascuno di essi ha preso corpo una parabola esistenziale. Le parabole del Vangelo sono “racconti radicalmente profani” (P. Ricoeur) e mediante essi Gesù rappresentava il Regno di Dio che an­nunciava. Tanti anni fa scrivevamo: “Siamo coloro che interpretano le parabole rap­presentandole, come in una grande recita nella quale ci è toccata la parte del lievi­to: che non sa se la pasta fermenta bene o male”.

E se i pretioperai, sbocciati in Francia, in Belgio, in Italia, in Spagna, in Portogal­lo, in Germania e in altri posti ancora, fossero una grande parabola evangelica (lie­vito) per profetizzare quello che papa Francesco ora propone a tutta la Chiesa: l’uscita dalla autoreferenzialità adottando un diverso modo di abitare l’occidente eu­ropeo secolarizzato? Parabola come evento linguistico fondato su centinaia e centi­naia di preti che hanno “saltato il muro”, per dirlo con le parole del nostro patriarca Sirio Politi, per vivere dislocati anche fisicamente la vita di lavoro. Pertanto osiamo dire:

Il Regno di Dio è simile a…

Nell’Europa del XX secolo i pretioperai e tutti i preti al lavoro sono stati una pa­rabola evangelica. Come succede nei testi scritti, le parabole possono avere diver­se varianti e redazioni, ma intatta rimane la loro forza comunicativa. Sono tra quelli che hanno aderito all’invito di Paolo VI che diceva al mondo che la chiesa aveva in­viato dei suoi preti a condividere dall’interno e direttamente la condizione di lavoro. Era necessario che questo avvenisse nelle vicende storiche del capitalismo occi­dentale e del cristianesimo potente che l’Europa ha conosciuto. Se Dio vorrà, la no­stra parabola potrà continuare, narrata con la vita da altri dopo di noi, o forse, potrà sollecitare nuove parabole che fioriscano in contesti diversi. Qualunque sarà il futu­ro, che ormai ha dimensioni mondiali, è importante che noi arriviamo a completare l’opera che ci è stata assegnata, portando a frutto tutti i semi che sono stati piantati nella nostra vita.

ROBERTO FIORINI

22 novembre 2022 / a pranzo con il card. Zuppi nel palazzo vescovile di Bologna


 

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