Guerra e pace nei Balcani
«…Ora sta un po’ attenta: Eumelo ha bisogno di Achille come una vecchia scarpa della compagna. Ma dietro c’è un trucco molto semplice, un errore di ragionamento che ti ha trasmesso in tutta la sua volgare ingenuità. E che funziona fino a quando tu non ne cogli il lato debole: lui presuppone ciò che innanzitutto ha dovuto creare: la guerra. È arrivato al punto di prendere questa guerra per normalità e di ritenere che per uscirne ci sia una sola via, quella della vittoria.
Poi è il nemico a dettarti quel che resta da fare. Poi sei nei guai e devi scegliere fra Achille ed Eumelo, due mali. Non vedi come Achille fa il caso di Eumelo! Come questi non possa augurarsi un avversario migliore di quel bruto!”.
“Sì, sì, lo vedevo (…) Dunque si sarebbe dovuto combattere il male prima, quando ancora non si chiamava “guerra”. Non si sarebbe dovuto fare emergere Eumelo… Non si sarebbe – ma chi?».
(Christa Wolf, Cassandra)
.I missili lanciati sulla Serbia e sul Kossovo la sera del 24 marzo hanno cambiato la vita di molti di noi: amicizie, visioni politiche, incontri, punti di riferimento, ogni cosa è stata letta da quel margine, un nuovo orizzonte che la cessazione del conflitto non è riuscita a sanare, come se una deriva ci conducesse verso un punto di non ritorno.
Ricordo la sensazione attonita con cui seguivo le notizie, l’incredulità, la caduta dei punti di riferimento politici (i magnifici capi di governo europei della nuova sinistra, intenti a barattare la propria identità in cambio del potere…). Mancavano segnali di vita, taceva l’opposizione, la voce di Rifondazione Comunista aveva il vuoto accento della polemica antigovernativa, il dibattito intellettuale si muoveva stancamente, bloccato sull’antico e assurdo dilemma di guerra giusta o ingiusta.
Ho cercato dentro di me le risorse per reggere e per oppormi: le ho trovate coniugate al femminile, un misto di dolore profondo e di rabbia di chi non vuole arrendersi. È così iniziato un viaggio alla ricerca di parole per raccontare, di punti di incontro, di relazioni che rendessero possibile il condividere, che andassero al cuore del problema. Mi sono guardata intorno per ascoltare soprattutto la voce di altre donne, singole, associazioni, voci storiche e giovani generazioni: ho trovato un coraggio testardo, la rinuncia a parole d’ordine, il desiderio dj tessere ciò che era stato strappato, l’approccio concreto di chi, da sempre, si prende cura dei corpi. È proprio lungo il leit-motiv del corpo, intrecciando la mia alla voce di altre donne che mi piace condividere con voi il doloroso percorso di questi mesi di primavera.
La TV ci faceva vedere file interminabili di corpi esibiti in una escalation dell’orrore che per assurdo toglieva loro ogni fisicità. Il corpo trasformato in pura immagine, perdeva la densità, la materia, non era più il luogo dove abitano la mente e lo Spirito.
Solo la lettura di parole giunte da donne di Belgrado e da Pristina ha potuto restituirmi il senso della realtà riportandomi al sommesso, lacerante lamento del corpo, alla totale desolazione del cuore.
Care amiche, le nostre voci non si possono più udire, sono coperte dal fragore dello scoppio delle bombe. Ora possiamo parlare solo con le vostre parole e il vostro silenzio, quando, vestite di nero, manifestate anche per noi per fermare la NATO, per fermare l’UCK e ogni militarismo…
Siamo chiuse nelle case, a volte usciamo per cercarci mentre le bombe colpiscono le nostre case, la periferia della città e non sappiamo quanti siano i morti… Con le nostre comuni amiche di Pristina abbiamo parlato a lungo al telefono: erano spaventate, mancavano di cibo e medicine ma non osavano uscire. Da qualche giorno non riusciamo più a sentirle perché le linee telefoniche non funzionano, siamo molto preoccupate, speriamo che non siano già profughe. Cercatele, accoglietele, non lasciatele sole. Giovedì è stato colpito il campo profughi di Nis, ricordate quante volte siamo state insieme da loro?
Parlate di noi e dite al mondo che questi bombardamenti non sono fatti per sconfiggere la politica nazionalista di Milosevich, ma per distruggere la nostra speranza di potere vivere in una società libera e democratica, senza militarismi e nazionalismi. Sono fatti per fare crescere l’odio e non la pace, per il dominio e non per la democrazia. Un abbraccio forte forte, con tenerezza e solidarietà.
Le donne in nero di Belgrado
.Care amiche, siamo ancora qui, braccate. Non vi nascondiamo che abbiamo una maledetta paura, di tutto e di tutti.
Ricordate quando, discutendo, alcune di noi sostenevano la necessità di un intervento armato della NATO e dei bombardamenti? Era solo la disperazione a farci parlare, continuavamo a dire: se restiamo alla mercè di Milosevich, di Seselj, di Arkan, vi saranno forze, in Kossovo, che riprenderanno le armi, ci sarà la guerra. Cassandre!
Lo sapete, molte di noi si sono divise, hanno appoggiato l’UCK, sembrava che la forza fosse l’unica voce possibile in un mondo violento. Sentiamo la radio, qualche volta la TV, la luce il più delle volte non c’è, abbiamo un po’ di candele e le pile che ci avete portato voi, nel nostro ultimo incontro. Era agosto, ricordate? e il clima era già tragico, nei villaggi l’UCK e l’esercito serbo di fronteggiavano. Oggi regna una confusione totale, piovono bombe dal cielo, non sappiamo di chi sono, ma le più distruttive, tecnologicamente avanzate, sono quelle della NATO.
Bussano violentemente alla porta, non sappiamo se sono la polizia, forze paramilitari serbe, l’esercito, l’UCK: ci difenderemo, non vogliamo andarcene. Voi che potete,fate qualcosa! Non date i nostri nomi alla stampa, qui c’è la guerra e non solo i serbi ci possono colpire.
Le donne in nero di Pristina
.E di corpo ha parlato Luisa Muraro ai primi di maggio, in conclusione a una lezione tenuta alla facoltà di filosofia di Verona sulla guerra in atto: a discrimine dell’assurdo dibattito fra guerra giusta ed ingiusta, lei pone la realtà. “Il contatto diretto con la realtà ce lo dà il nostro essere corpo. (…) E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Per questo io credo che il 24 marzo siamo rimasti tutti di sasso, tondi e insensibili. Le idee del bene e del male – mi spiace per Platone – troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Ascoltate piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti e ragionate di conseguenza”.
Mi ricordo che a Viareggio, durante il convegno dei pretioperai, Luigi Forigo mi raccontava come quest’anno nella sua comunità, a loro, preti e uomini, non bastava il cuore per celebrare la liturgia Pasquale: una nube oscura pareva coprire la speranza. Ma le donne della comunità non avevano voluto arrendersi e nella posizione dello Stabat Mater trovarono il coraggio di resistere, permettendo lo svolgersi di una celebrazione fondata su una speranza dolorante ma consapevole. Sentivo anch’io che l’unica cosa da fare era reggere il dolore, stare accanto, non sottrarsi.
Più tardi, sempre grazie ad esperienze di donne, sono arrivata a un modo altro (meno alto?) di stare-con, più sommesso, come se all’ordine delle madri si fosse sostituito quello delle sorelle. Ho capito che era possibile creare uno spazio-tempo nuovo, che non è utero ma nasce dai bisogno di leccarsi le ferite a vicenda, a turno, per ritrovare la forza di vivere, per provare, almeno, a riannodare i fili prepotentemente tagliati dalla civiltà degli uomini. Lascio la parola a Giannina Del Bosco (delle “Donne in nero” di Verona) che vi racconterà un’esperienza viva.
“Nel recente incontro fra donne serbe e albanesi tenutosi a Bolzano nel mese di luglio, un’Albanese che lavorava a Pristina per la pace, violentata e cacciata dai Serbi, bombardata dalla NATO e minacciata dall’UCK, esprimeva nella disperazione l’impossibilità di convivere con i Serbi e la sua decisione di abbandonare la nostra esperienza. Poi, il parlare davanti “all’altro”, l’attesa paziente, la fiducia che le è stata offerta l’hanno recuperata alla relazione.
È questo che fanno le “Donne in nero”, specie ora, dopo la fine del conflitto: tentiamo di verificare, in Kossovo, le ragioni, i torti e soprattutto le sofferenze delle persone, accompagnandole. Offrendo spazi dove le differenze si possono incontrare nel rispetto del dolore e delle ferite causate dalla violenza, dando valore alle piccole cose che emergono e possono aprire il cammino. Questo esige la capacità di non giudicare nel momento della disperazione e quella di creare spazi di verbalizzazione come fatto terapeutico per leccarsi reciprocamente le ferite. Poniamo stimoli nel momento opportuno per andare oltre i recinti nei quali ci hanno chiuse, nel rispetto dei tempi e soprattutto nella fiducia vicendevole, conscie che i percorsi che si aprono non saranno gestiti da noi. La vera liberazione scioglie i legami dell’umanità oppressa dentro di noi e sfocia nella dimensione tutta femminile del prendersi cura dell’altro nella sua diversità”.
Riprendo il filo dell’importanza dell’ascolto, seppure il brano che vi propongo ne parla come metodo per risolvere i conflitti internazionali. Cito nuovamente Luisa Muraro che nella sua lezione dice di immaginarsi, la notte, un discorso che vorrebbe tenere agli alleati della Nato per spiegare che l’Italia no, non può starci “perché noi siamo suoi vicini, quasi congiunti e sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture che ogni tanto esplode, e quando lo fa bisogna assisterli con sapienza e pazienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare noi di avere la soluzione del conflitto, perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della convivenza, lo hanno già fatto in passato. Si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanto tempo di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come seguire una musica difficile, se proprio vogliamo contribuire diamo soldi: non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe”.
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Voglio dire un’ultima cosa: ho parlato dei corpi e dell’uso dell’antica sapienza femminile dell’accudimento, ma dobbiamo tenere in mano anche l’altro bandolo della matassa. Occorre imboccare una strada che ci porti fino al cuore del problema che è la struttura del potere maschile, come ben titolava uno dei tanti interventi femminili che affollavano Internet negli ultimi mesi: “NATO da uomo!”. Finché non abbiamo chiare le modalità di questo funzionamento, non potremo prenderne le distanze. Fondare nazioni per consacrarle come terre-patria da difendere e fare prosperare col sangue altrui, territori dove esiste solo la legge del più forte, porta inevitabilmente all’affermazione di una cultura militarista e crea un clima di illegittimità nell’uso delle regole del diritto internazionale. Da qui alla guerra il passo è breve, anche se al governo vi sono leader socialdemocratici. Se permettiamo che l’Europa si fondi su questo, la nostra complicità di donne sarà massima: per sfuggire alla logica simmetrica di violazione dei diritti umani / bombardamenti occorre un salto di qualità che ci veda impegnate a produrre azioni e visioni. Fra le prime la più immediata è la richiesta di attuare le indicazioni emerse dal convegno di Pechino secondo il quale figure femminili impegnate e competenti nella soluzione dei conflitti debbono assolutamente prendere parte a trattative negoziali che decidono la sorte di intere popolazioni.
Visione ed azione si intrecciano nelle parole pronunciate da Annamaria Medri alla Libera Università delle Donne di Milano. “A partire dal rifiuto e dalla disobbedienza dobbiamo tessere una rete di relazioni, una tela di Penelope per Penelope e per la pace. Dobbiamo mettere in campo tutte le nostre arti subdole della sopravvivenza, riprendere i fili del Cairo e di Pechino, le realtà organizzate, le amicizie, le singole persone. Questo sarà possibile perché la nostra forza risiede, nello ‘sguardo estraneo’ rispetto allo stato delle cose e questa estraneità esprime non un universale, ma una parzialità. Che non è un limite da superare, è un limite da stabilire perché le differenze abbiano voce e non siano assorbite all’interno di costruzioni universalistiche, di verità discriminatorie, opprimenti e guerriere”. È un po’ come scegliere la nascita e il limite concreto della vita vissuta al posto dell’eroica eternità nella morte.
Maria Grazia Galimberti
Dall’88 le Donne in nero, dapprima in Israele, poi in Italia e nei Balcani, manifestano ogni settimana il loro ripudio della guerra come metodo di soluzione dei conflitti.
«Abbiamo scelto di vestirci di nero come le pacifiste israeliane che da anni scendono in piazza per il riconoscimento dello stato palestinese, perché non vogliono il proprio paese oppressore di un altro popolo.
Abbiamo scelto di manifestare in silenzio come rifiuto delle troppe parole che ci impediscono di pensare.
I nostri cartelli vogliono essere la voce di tutti coloro che sono volutamente ignorati dai mass-media e i cui diritti sono violati».
Le lettere dai Balcani, come altre testimonianze di donne diffuse on-line, sono state raccolte e pubblicate da Monica Lanfranco e Cristina Papa in Ti scrivo da sotto le bombe, Erga Edizioni.