Il vangelo nel tempo


 
Cari cappellani dell’esercito italiano in Iraq, sono un vostro “collega”, un prete cappellano come voi, ma per mia fortuna del carcere di San Severo (Fg) e non dell’esercito, come voi. Io non so come fate a vivere serenamente il sacerdozio nel vostro ruolo; io non ci riuscirei mai.
Scrivo a voi in spirito di assoluta amicizia. Mi piacerebbe entrare in contatto, chiedervi chiarimenti, presentarvi quelle domande che mi assillano mentre seguo le vicende della guerra d’Iraq. Ma non scrivo solo per parlare con voi e con tutti gli altri cappellani militari sparsi in giro per il mondo nelle altre “missioni di pace”, altrimenti vi avrei mandato la lettera direttamente presso il vostro comando militare, ma voglio comunicare e confrontarmi anche con i gentili lettori. Loro certamente la leggeranno, voi magari no.
Vedo il telegiornale, leggo le notizie e cercando di sgrossarle dalle interpretazioni interessate di questa o quella testata mi rendo conto che quello che sta succedendo lì da voi è veramente terribile. Gli americani ci hanno travolto in una guerra senza fine, hanno acceso un focolaio immenso che non si spegnerà più. Come in Palestina, ci ritroveremo tra cinquant’anni ancora a piangere i morti, a deplorare gli attentati, ad invocare la pace. Gli Usa stanno cercando di imporre le “loro cose” con la violenza, con i bombardamenti, con lo sterminio dei “ribelli” e dei “terroristi”, ma in questo modo, se gli va bene, otterranno solo la sconfitta e la rassegnazione dei più deboli. Ma la rassegnazione è solo l’incubazione della rivolta violenta, è il bacino dove si raccoglie l’odio che prima o poi riesploderà. Diceva Ghandi giustamente che i tiranni prima o poi cadono sempre, vittime della violenza che loro stessi hanno innescato.

E poi chi l’ha detto che gli iracheni sono i ribelli e i terroristi? In fondo si sono visti invadere la propria terra, ammazzare decine e decine di migliaia di parenti, amici e connazionali, hanno visto le loro case distrutte, il loro petrolio derubato. La loro ira e il loro furore sono ora incontenibili. Qualunque popolo farebbe lo stesso. Se fosse successo a noi li avremmo chiamati combattenti o martiri. È una questione di definizione e di scelta di termini. Anche quelli che hanno fatto la Resistenza in Italia per alcuni erano dei briganti, per altri degli eroi.
Un vero terrorista invece è Bush e la cultura colonialista che lo sostiene. Anche un bambino lo capisce che questa guerra si è fatta per il petrolio e non c’entrava nulla la cacciata di Saddham Hussein, tiranno spietato pure lui. Se gli Usa volessero davvero pulire il mondo dai dittatori non ne andrebbero loro stessi a sostenerne gli eserciti e i regimi in svariate parti del mondo. Per fare questa guerra Bush ha persino inventato la “guerra preventiva” paventando la minaccia delle armi irachene di distruzione di massa. Quelle armi, a tutt’oggi, non sono state mai trovate, eppure erano il motivo principale di questa carneficina immane. In seguito, dopo aver ammazzato tanta gente, Bush ha cambiato registro ed è venuta fuori la volontà di esportare in Iraq la democrazia e i valori della nostra civiltà. Appena finita la guerra, Berlusconi si è precipitato a mandare le nostre truppe perché nel frattempo, chissà perché, era diventato l’unico atteggiamento responsabile per stare vicini al popolo iracheno e per traghettare quel martoriato popolo verso la pace! Bugia su bugia! In pratica, d’ora in poi qualunque guerra preventiva si potrà fare, all’inizio sarà criticata, si dovrà penare un po’ finché le critiche passano, ma poi sarà doveroso continuare ad occupare quella nazione in nome della giustizia e della pace e della “responsabilità”. Ora addirittura anche l’ONU è andata incontro al governo Usa e ha dato copertura internazionale alla sua presenza armata in Iraq. Gli americani possono continuare tranquillamente a bombardare e a prendersi il petrolio, legalizzati da un governo fantoccio che hanno creato a loro misura, per gli interessi della propria economia e della propria immagine internazionale.
In tutta questa storia solo “il popolo sterminato della pace”, come lo chiamava il vescovo Tonino Bello, ha davvero grandeggiato e affianco a lui Giovanni Paolo II che ha gridato come non mai per scongiurarla questa sciagura. Ma né l’uno né l’altro hanno potuto evitarla, segno chiaro che da noi la democrazia è solo apparente. Se le masse una cosa non la vogliono, viene fatta lo stesso. Come vogliamo poi esportare la democrazia altrove?
Questa la vicenda, nella ricostruzione che riesco a farne io. Ma ora vengo più direttamente a voi, cari cappellani. Spesso vi ho pensato, ho pensato al vostro servizio presso l’esercito italiano. Ho pensato alle vostre omelie. Ma chissà che cosa gli dite ai soldati? Come attualizzate in quel contesto le parole del Vangelo? Ma non vi sentite lacerati dentro, almeno in qualche momento, tra il Vangelo che ripudia la spada e la vostra obbedienza agli interessi militari? Ma Dio, secondo voi, da che parte sta? E se un giorno voleste dire eventualmente che questa o altre guerre sono atrocità assurde, sareste liberi di farlo senza essere messi sul primo aereo e rispediti a casa e magari dimessi anche dalla funzione di cappellani militari? Siete dunque liberi di disturbare la coscienza dei generali e dei soldati stessi, se lo ritenete necessario, oppure siete messi lì soprattutto per tranquillizzare, benedire e dare il nulla osta di Dio? Come fate per far capire che non siete servi dei signori della guerra ma del mite Gesù di Nazareth? Voi sapete bene che in Italia chi è divorziato e risposato o convivente non può fare la comunione in chiesa perché è considerato connivente con una situazione di peccato, e voi, siete così tranqulli a dare la comunione a chi è complice di questa grande manovra omicida americana per accaparrarsi potere e petrolio? Il peccato dei conviventi, non c’è dubbio, è davvero poca cosa se paragonato all’altro.
Cari cappellani, io so che voi siete brave persone e bravi preti e vi credo zelanti nel vostro ministero. Per questo vi ho posto queste domande che credo anche voi vi poniate, grosse come macigni. Io non ho risposta a tutte. Un consiglio comunque ve lo voglio dare: perché non deponete quelle stellette e quei gradi che vi hanno ingabbiato nella struttura e nella gerarchia militare e non continuate a stare affianco ai soldati parlandogli sì del Vangelo di Cristo, ma in una condizione di maggiore libertà di parola e di profezia? In questo modo non mancherebbe all’esercito l’assistenza spirituale e non mancherebbe a voi quella libertà completa che Gesù ha vissuto e che la testimonianza e la predicazione del vangelo assolutamente esigono.

don Dino D’Aloia

prete della diocesi di San Severo (FG)


 

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