Verso il Convegno Nazionale PO ’92



Ci sarà un tempo per guardare anche le macerie del cristianesimo reale? Sono altissime. Lo stupro organizzato di infanzie e adolescenze, nella cieca e comoda confusione tra allevamento – educazione del bambino e del cittadino, e l’ascolto libero del soggetto dell’annuncio della fede, fa vagare più tardi nel territorio della condizione operaia milioni di atei – bigotti: bigotti perché acquiescenti ipocritamente alla parrocchia della quale consumano i sacramenti come beni sociali e insieme atei perché non possono e non vogliono prendere sul serio né le verità né gli esiti ultimi che dovrebbero restare il cuore di una realtà per quanto concordataria. Nella coscienza e nella vita quelle verità, stravolte, mutilate e contaminate, vagano come carogne e masserizie travolte dalla piena. Per esse non c’è ricerca o meraviglia, dato che l’ateo bigotto unisce insieme perfetta ignoranza e presunzione di sapere tutto, ma irrisione, fastidio e comunque il fatale oblio per i giocattoli sfondati dei ripostigli. Quelle verità non sono né luce per la difficile esistenza né pane per il viaggio e per il Viaggio.
L’aborto dell’ateo bigotto, immaturo sia per la dignità dell’ateo che per quella del credente, ha però una madre legittima. La professionalità del prete fino ad entrare nella busta paga dei lavoratori è definitiva com’è definitiva la conseguente fissazione del sacro come prodotto specifico e merce che entra nel profano come nel suo mercato di acquirenti e consumatori. La chiesa del resto si è gelata come grande agenzia di produzione di servizi sociali per infelici e di valori – salvezza per società in crisi. Padri senza figli si specializzano nella ricerca di pagliuzze sempre negli occhi di figli della cui vita non sanno niente. Il ronzio di questi grilli parlanti giunge ormai fino al cielo. Piano piano la chiesa come comunità è scomparsa come per un invisibile e invincibile colpo di stato: una grande monarchia e grandi feudatari, preti obbedienti perché pagati, teologi silenziosi perché intenti ai loro lavori come artisti e attorno le grandi masse dei soggetti mai nati. Nati nei territori dove lingua costumi e credenze sono quelle clericali, ne sono rimasti ostaggi, impossibilitati a diventare soggetti. Per questo questi aborti sono figli legittimi di una madre legittima. E sono anche dei figli fedeli (altro che incomprensione tra chiesa e classe operaia!): l’ateo bigotto ha capito il farsi della chiesa come azienda di beni e con essa accetta di entrare nell’unico possibile rapporto, quello di scambio produttore – consumatore. Forse perché è sacra una merce merita una lettura più profonda?
E l’ultima verità del millennio non dice forse che la libertà del consumatore è la libertà?
Per qualche attimo fuggente, perché per caso è lì, perché per pura grazia immeritata appaiono a lui frammenti di chiarezza che produttori e consumatori di sacro non hanno sulla loro condizione, il territorio dove vive da anni appare al preteoperaio come un definitivo paesaggio di rovine, dove la banalizzazione della divinità raggiunge un orrore di mercificazione più grande della crocifissione e l’idolatria che si consuma in tutte le cosiddette realtà cristiane (famiglia, dottrina sociale, partito, persone…) porta al vomito.
Questo orrore e vomito fanno parte della coscienza di molti lavoratori, anche se sono non più ferite ma cicatrici sul fondo rigido di abitudini e rassegnazione. E l’essersi fatta la chiesa, anche e soprattutto nei suoi pretesi domini sull’oltremondo, azienda di questo mondo, mostra un volto ancora più inquietante: se già la mobilitazione totale dei soggetti da parte del capitalismo tende a renderli pura materia trasparente nei suoi processi di produzione e consumo, la trasformazione violenta che la chiesa opera sui grandi testi (nei quali libera è la grazia, libero è l’uomo e liberi nella loro singolarità sono i loro reciproci rapporti nella unicità dei singoli e dei tempi) per fare di questi testi un catechismo, porta al modello capitalistico una copertura assoluta: le grandi categorie mondane di “creazione”, “produzione”, “progetto”, “caduta e redenzione”, “giudizio, premio o castigo”, con la divinità come idolo di un gran villaggio totale, gela il mondo come una definitiva prigione per il soggetto.
È questo il nulla? Forse. Ma non il nulla cristallino di Eckhart ma qualcosa di alto, sporco e confuso. Il suo nome forse migliore è di essere una immensa discarica: in essa vaga con migliaia di compagni il preteoperaio per il quale non c’è alcuna salvezza nel suo essere ancora prete e forse di più per la sua preziosa esperienza. Sta male tra le macerie e sta permanentemente nella condanna del sacerdozio così evidente in Matteo, al capitolo 23.
Se i lavoratori atei e – come affermano ogni giorno i grilli parlanti – materialisti cioè affamati hanno calcolato materialisticamente i vantaggi che vengono loro accettando lo scambio che la chiesa – azienda loro propone, anche se così, come in tutti gli aborti, viene raschiata via per loro la possibilità di diventare figli adulti, è perché hanno calcolato che c’è un’identica fame nella chiesa. D’altra parte Mt. 23 rivela, con lo stesso occhio materialista, la fame che muove l’evangelizzatore, fame di pane di “mercede” e la condanna senza appello. Il “selvaggio”, la “terra di missione” sia dal ‘300 che in un’altra data catastrofica, il 1492, non esistono. Sono figure interne alla fame della triade inscindibile di prete, soldato e mercante. Fermarsi a comprendere questa nostra fame, capire che il catechismo a tutte le latitudini è la forma violenta necessaria ai marchi di fabbrica ed è una monocultura con la quale si impone agli altri di entrare nel nostro mercato, questo gesto di guardarsi come cristiani occidentali, sarebbe l’unico gesto da offrire ai milioni di “topi” nel mondo, ricordati da Bobbio. Vadano pure per il mondo, sembra dica Mt. 23, ma sappiano di essere condannati. Le macerie del cristianesimo reale ricevono così un senso assoluto.
La pagina amara di Matteo, non può nemmeno essere usata per migliorare i testimoni. Essa mostra per così dire una fatalità delle macerie. Forse che non è fatale il tradimento dei testimoni? Forse che la loro stessa esistenza non è polvere sollevata davanti al Maestro?
Forse è così che si intravede una soglia lontana? Ciò che nella produzione della chiesa aziendale è un residuo cioè il non capire, la contaminazione del messaggio, il necessario bricolage, la necessaria eresia nella quale deve vivere il cristiano ostaggio dei territori occupati dai chierici, diventano elementi decisivi? Il dover necessariamente deformare e far marcire il catechismo diventa essenziale?
La crescita della fede, il “poter entrare” di Mt. 23,13, sarebbe allora un terreno per sé proibito al testimone professionale. Esso può accadere solo in sua assenza e contro di lui, sulle necessarie macerie delle sue belle merci? È allora vero il pensiero di Goethe. quando dice: “Dovremmo aggrapparci come naufraghi alla tavola che ci salvò e toglierei dalla testa le casse e i bauli perduti”? Deve andarsene in fumo la forma “catechismo” come pretesa di chiudere la verità in un dato, in un sistema di cui poter disporre come di un conto corrente? La verità come essenzialmente non nostra sta in grani di luce, frammenti che vanno e vengono? Chissà.
Intanto è decisivo che sia mortale per Dio la sua mercificazione e altrettanto mortale deve essere per tutte le “robe” cristiane (torna ora la moda della dottrina sociale cristiana) nella loro pretesa idolatrica. Stanno senza riparo le umili realtà mortali, affidate alla ragione e al caso, sta senza riparo la divinità nel suo nulla di essere merce, di essere crocifissa senza nessun riciclo in bell’oggetto religioso. Sta senza riparo l’azienda chiesa che, proprio perché raggiunge la perfezione della sua missione, accumula macerie altissime tra il testimone e l’ascolto. Sta senza riparo il soggetto perché si mostra vana la sua comoda attesa di testimoni migliori o di origini pure a cui riattingere o del testo primitivo indenne da polvere. Ritorna per il soggetto l’aria tagliente del vangelo, solitudine del Maestro e solitudine dei discepoli nel necessario parlarsi. Finisce in un attimo quell’atmosfera da “cova”, di preteso controllo di una madre amante – castrante su tutta la vita dei soggetti e di controllo reciproco tra i soggetti che si chiama “chiesa”. In questa aria dura del vangelo finiscono anche tutte le teologie dell’incarnazione che non sono uscite dal tempio dove sì vende e si compra, anzi. Nel territorio – discarica c’è un momento privilegiato nel quale si accede immediatamente alla sua verità e si e circondati dal nulla di Dio e del mondo. È quello dei funerali cattolici, pieni di lavoratori, piovuti lì per necessità e travestiti da parrocchiani per un’ora. Il sacro come merce invano tenta di riciclare anche la morte nel grande senso aziendale nella sua catena di creazione – morte – giudizio – premio – castigo. Il fatto “morte” nella sua sconosciutezza totale per quel che riguarda gli altri, mostra tutta la sua forza di distruzione, di nulla per il senso aziendale che la società tenta di darle con i birignao del prete, i fiori da festival, l’imbarazzo di tutto e di tutti. È questa la notte oscura dei poveri?
In questa notte nulla è dato come domanda – risposta ma per tracce, allusioni interne al “qualsiasi” essere di ciascuna vita. Perché, forse, niente è deciso per noi. Per quanto i nostri padri abbiano mangiato uva aspra, forse non è fatale che anche i nostri denti e la nostra bocca ne siano inaciditi.
Nel pensiero ebraico della Cabala, seicentomila sono le porte di accesso alla Legge, tante quanti i figli di Israele. Nel “qualsiasi essere” di ciascuna vita si apre lo spazio della libertà della grazia, del soggetto e la libertà del loro incontrarsi nell’unicità di tempi e di occasioni? Può cessare la spudoratezza del controllo reciproco e del grande fratello perché noi si possa stare accanto l’uno all’altro come terreni che si parlano ma non si educano o si evangelizzano e colonizzano? Possiamo imparare dai poeti cinesi che, nei loro solitari viaggi di funzionari nel grande impero, non potevano comunicarsi direttamente le poesie ma le scrivevano sui muri delle osterie dove ciascuno per caso passava? Certo la guida per una delle seicentomila porte, la nostra, verso la Legge, non sono certo i teologi. Questi, acquisita per sé una certa loro libertà, sono ciechi di fronte all’immenso e impensato problema della libertà dei figli “che non sanno l’ebraico”.
Inondano il territorio di chi ha la “qualsiasi vita” del loro vino da convento che – come disse Bernanos – non sopporta il viaggio e arriva acido. Per gli abitanti del grande territorio delle discariche forse la guida sono i batteri che vivono consumando la plastica o i fiori della canzone di De André: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.

Roberto Berton



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