Ci scrivono (1)


Caro Roberto,
nel 2001 mi chiedesti un articolo per Preti Operai, dopo quell´11 Settembre.
Ne ho trovato per caso lo sbozzo: parole che non ti inviai e che arrivano anche a me, dopo 16 anni, come se fossero state scritte da un altro.
Ti ricordo, con nostalgia di te e delle complicità che ci legano. Un abbraccio.
Flavio


São Luís do Maranhão, Ottobre 2001

Caro Roberto,
ho perso l’abitudine di dire scrivendo. È non è questione di tempi e pigrizie. O di sfiducia nelle parole.

Preferisco parlare, dialogare con i contadini; compagni, e compagne, che soffrono e lottano; amici e amiche che condividono speranza. Solo cosí il pensiero fluisce come il dono di una complicità e di un conoscere costruito insieme. Preferisco, poi, un dire, da quando sono qui, nel Maranhão, che è orientato al fare. Non il fare qualunque, ma il fare dei cammini di cambiamento delle coscienze e delle ingiustizie.

Non amo dire scrivendo perché ho un certo pudore dei testamenti, che preparano postumi agiografismi dimentichi della carne e del sangue degli amici morti. È per questo che è bene distruggere e bruciare certi scritti. Per difendere un’immagine delle storia e delle storie meno monumentale, meno illusoria.

È forse un pudore della memoria. Non per fuggire “dentro”, in intimismi fallaci, ma per sfuggire, “fuori”, alle orbite obbligatorie delle comunicazioni dominanti.
Non per coltivare silenzi, ma per ritrovare la Fonte delle parole: parole forti, nuove, autorevoli, evangeli. “Da dove viene questa autorità?”; “Con quale autorità tu dici queste cose?”.

Non scrivo, poi, anche perché leggo molto e c’è anche troppa roba scritta da leggere. Con certezza scriverei se avessi la sensazione di aver qualcosa di nuovo da dire. Non è la presunzione romantica di una originalità personale assoluta. Sempre citiamo e sempre citeremo. Ma ho un po’ di risentimento con i riti vuoti e le tradizioni ripetitive.

Ma eccomi, con i miei narcisismi, a tradire “principi”, per onorare l’amico.
Come non correre il rischio del “dejà vu”, dopo l’11 settembre 2001? Tutti noi a correre per dire e per scrivere ciò che “si dice” e “si scrive”.
Mi unirò al coro dei cortigiani della parola, però con il piglio aristocratico e elitista che il Vangelo dovrebbe concederci.
Sarà che è solo voglia di profezia? Desiderio di udire profeti. Squarci di parole che, come fulmini, illuminano per un momento la notte dei nostri giorni.

E dirò in forma di frammenti. Perché i grandi discorsi sono sempre stati assassini. Omicida, e genocida, anche il nostro cristianesimo, quando arrivò su queste terre, per imporre “la verità”, creando l’occidentale ombra tragica di un occidente egemonico. E imponendo sacrifici in nome del Crocefisso. Da cinquecento anni, l’altra faccia dell’occidente. La “sfigura” dell’occidente: “índios”, negri, schiavi. La pattumiera esotica dell’occidente. Occidente occidentale per decreto di altri. Sisifo che invano spinge il masso dello “sviluppo”, sempre ricacciato a valle.

 

Come i popoli e le etnie dell’America índia-afro-latina potrebbero essere amici delle torri?

C’è da prendere sul serio il Vangelo dell’amore ai nemici, non solo per l’Amore, ma anche per l’inimicizia. Sarebbe un tradimento dell’amore minimizzare l’inimicizia. Sarebbe un tradimento della Croce-Risurrezione dimenticare cosa fanno, “fin dalla fondazione del mondo”, i nemici ai poveri di IHWH: al Figlio e al corteo dei diseredati e oppressi della storia.

Se IHWH, fin dalle prime pagine della Bibbia è nemico delle torri, nemiche della vita, come potremmo essere amici delle torri?
Se Gesú, in tutta la sua vita, ha lottato contro il tempio, nemico della vita, come potremmo essere amici dei templi, nemici dei poveri di IHWH: del Figlio e degli oppressi di tutti i tempi?

Le Scritture ci dicono che il progetto di IHWH è l’antibabele. Non l’universalismo uniforme e genocida di una sola língua e di un solo pensiero, ma la dispersione e la differenza. La distruzione della torre è una prima Pentecoste che troverà la sua pienezza, a Gerusalemme, nel miracolo di comprensioni che non uccidono la diversità. “Tutti parlavano la loro língua, eppure si capivano e capivano”. Pentecoste che non è un evento linguistico e ermeneutico. È la pienezza della fraternità dei poveri che sconfiggono la fame di pane, con la condivisione, e ricevono da Gesù il Vangelo della libertà. “Non sarò il vostro re, che compra con il pane la vostra sudditanza. Non avete bisogno di re e di torri. Siete i responsabili dell’abbondanza di pane e di vita” (Gv 6)

Le Scritture ci dicono che il progetto di Gesú è l’antitempio. La casa al posto del tempio. La tavola al posto dell’altare.
Come potremmo allora piangere su queste preannunciate distruzioni?

Certo Gesú ha pianto. Non sul tempio e le sue torri. Piange sulla città che sceglie le torri del tempio e rifiuta la Vita.
E certamente “lo Spirito piange e soffre le doglie del parto” di un nuovo universo, di una nuova umanità. E piange come Paraclito, come avvocato dei poveri. Piange per una liberazione totale. Piange perché finisca l´ordine di questo mondo”.

Flavio Lazzarin


 

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