Preti in condizione operaia
«Fin dall’inizio non ho cercato un lavoro che mi realizzasse umanamente, quanto piuttosto una condizione operaia normale». Così, per la maggior parte di noi, preti operai lombardi, è avvenuto l’inserimento nei sotterranei della storia: il mondo della fabbrica, della produzione, che, pur nella varietà e nella diversità, appare con alcune caratteristiche comuni.
1. La prima cosa che colpisce è il constatare l’enorme differenza che c’è tra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale.
Lavoro faticoso. Lavoro pesante. Lavoro tremendo e impaurente. Lavoro distruggente. Paura di non farcela fisicamente. Gli errori li vedi subito e lasciano immediatamente segni visibili e costatabili, per cui sei costretto continuamente a lavorare anche con tensione nervosa.
2. Il rumore poi delle macchine utensili in lavorazione o la polvere di ottone / ferro / ghisa ti accompagnano per 8 ore della tua giornata. Se è vero, per es., che circa il 50% di tutte le malattie non organiche provengono dal rumore (alcuni lo affermano anche per parecchie malattie organiche) la seconda cosa che colpisce è che il lavoro manuale, specialmente quello di produzione, ‘fa male alla salute’.
Una cosa comunque si impara: che le malattie non vengono dal cielo! Senonché oggi il problema dell’impatto fra produzione e salute sembra essere stato accantonato: sembra iniziare esattamente fuori dalle mura delle fabbriche (es. mappa delle fabbriche a rischio). Cosa succede dentro, non interessa più nessuno.
Anche perché la difesa preventiva della salute sui luoghi di lavoro è stata degradata a lavativismo. La campagna denigratoria sull’assenteismo poi ha fatto il resto: ha innescato meccanismi collettivi di condanna e/o meccanismi individuali di autocolpevolizzazione. Di conseguenza, per paura o per senso del ‘dovere’ si lavora anche se si è ammalati oppure si nascondono o non si fanno valere controindicazioni fisiologiche a lavori cui non si è idonei, a ritmi che non si è in grado di sopportare.
Tutto questo perché continuamente viene fatta vedere ‘la salute ‘ come incompatibile con la concorrenzialità (c’è sempre un concorrente che lavora peggio dite). Oggi poi si giunge fino a questo: gli infortuni vengono nascosti e non denunciati per non guastare l’immagine dell’azienda.
3. Ci sono dei momenti che il rumore meccanico o la polvere che respiri ti prendono tutto (stomaco, cervello, polmoni, cuore) e senti il bisogno urgente di un po’ di silenzio, di uscire all’aria aperta lontano da quel capannone che ti sta portando via un po’ del tuo equilibrio psico-fisico. Ma questo, normalmente, non ti è possibile, perché i ritmi, le pause non sei tu che li decidi, ma il mercato, la concorrenza, il costo del lavoro.
In verità è che tu, entrando in fabbrica, in cambio di un salario che serve per la tua sopravvivenza, ti viene chiesto dal proprietario dei mezzi di produzione di vendere a lui la possibilità di utilizzare almeno 8 ore della tua giornata che egli poi organizza per ricavarne il più possibile plus-valore. E il momento più angosciante è proprio quando si prende coscienza che il perché principale di una fabbrica non è quello di dar da mangiare a sempre più persone, ma di permettere a pochi di arricchirsi sulla pelle di molti.
E allora, altra cosa che ti colpisce è che non è il padrone che paga te, ma sei tu, con il tuo lavoro di produzione che paghi lui, anche se da lui vieni considerato sempre e comunque un costo, un numero da mettere a bilancio finale, qualcosa da gettare via come un ‘esubero’.
4. Per impedirti di ‘mettere in discussione’ questo uso arbitrario delle tue 8 ore, il padrone mette al tuo fianco uomini come te che lui paga con uno stipendio che è sempre più abbondante del tuo salario. Essi hanno la funzione di vigilare perché siano rispettate le regole / le disposizioni date / fissate da lui a proposito di ritmi, di pause, di produttività, di… Ogni mezzo è lecito: richiami verbali, lettere di ammonizione, multe, giorni di sospensione, ricatto della cassa integrazione (CIG), spauracchio del licenziamento (termine oggi sostituito con la parola ‘mobilità’).
E allora, altra cosa che ti colpisce è che in fabbrica non c’è libertà, ma arbitrio. O meglio, che ‘libertà è là fin dove è arrivato il Movimento Operaio’. Dietro di lì c’è una certa libertà. Fuori di lì c’è solo arbitrio dei capi o il ruffianarsi individuale. Questo lo sperimenti ogni giorno, ogni momento, in fabbrica. Lo vedi, lo vivi.
5. Sotto la mannaia delle esigenze produttive il tempo di lavoro giornaliero o settimanale viene fatto dilatare a piacere:
– fatto passare come volontario anche quando è suicida non sottrarvisi
– ottenuto spesso col ricatto
– spesso neanche ufficialmente registrato.
Oggi poi il ‘quando’ del tempo di lavoro risponde spesso al tabù sacro dell’utilizzo degli impianti: di fronte ad esso bisogna essere disposti anche a sacrificare l’utilizzo della vita (turni, notte, feste).
Pertanto, altra cosa che ti colpisce è che le esigenze dell’impresa vengono fatte passare per ‘centrali’: tutte le altre vengono dopo e solo se sono con esse compatibili.
Se a questa ideologia aziendale unisci il ‘nuovo’ che sta venendo avanti a proposito delle future politiche del lavoro, la fabbrica ti appare sempre più un mondo in cui uomini e donne non avranno alcuna certezza – nemmeno di relazioni sociali – se non quella dell’assoluta mancanza di controllo sui tempi della propria esistenza. Infatti il ministro Giugni in una conferenza tenuta il 12 gennaio ‘94 così si esprime a proposito delle possibili politiche del lavoro: «Di fronte al dramma di una disoccupazione che assume caratteristiche strutturali (= di sistema ) la politica può solo contribuire a rendere più flessibile l’offerta di lavoro e svincolare il mercato da quelle che un tempo venivano considerate ‘garanzie’ e che oggi invece appaiono dei ‘legacci’».
Cioè la ricetta Giugni si ispira al libro bianco di Delors che fa perno soprattutto sulla riforma del mercato del lavoro, sugli ammortizzatori sociali e su un diverso uso del tempo. Quindi secondo il ministro del lavoro occorre liberarsi dai vincoli del ‘posto fisso’ e dell’“orario uguale per tutti”. Via libera, quindi, al lavoro interinale (la mano d’opera in affitto), alle procedure semplificate per i licenziamenti, allo scambio tra occupazione e salario nei contratti di lavoro.
Cioè per il ministro è fondamentale un panorama di ‘non garanzie’ in cui i lavoratori sgomitino tra di loro, in cui – in nome del lavoro e dell’occupazione – vengono rese più precarie le condizioni di chi lavora. Magari mettendo in oggettiva competizione tra loro occupati e disoccupati. (cfr, Manifesto del 13/1/94).
6. E allora comprendi anche il perché di tutto un lavorio ideologico da parte del capitale che si avvale di una nutrita schiera di intellettuali, religiosi e no, per neutralizzare il ribellismo operaio. Due sono principalmente le forme:
– o attraverso la distruzione di ogni antica memoria di una contraddizione insanabile tra interessi del profitto e interessi dei ‘profittati’;
– o attraverso lo svuotamento e la criminalizzazione della conflittualità o anche del semplice antagonismo.
Infatti la legittimità di espressione della politica viene data solo al sociale; la militanza di fabbrica viene fatta passare come una scelta che ha fatto il suo tempo, perché altri problemi più urgenti appaiono all’orizzonte del postindustriale; e l’elemento che viene fatto passare come qualcosa che unifica, al di là dei vari interessi, è quello della cittadinanza (dimenticarsi ‘come operai’ per riemergere nel gran mare della cittadinanza).
Invece di riconoscere le aggressioni che stanno subendo gli operai, li si nega come soggetto collettivo potenzialmente esistente e si va alla ricerca di ‘nuovi soggetti emergenti’.
7. Comunque il tuo coinvolgimento nella logica concorrenziale rimane l’arma più sofisticata: infatti nello scontro in atto tra capitalisti il destino di ogni operaio viene fatto coincidere con quello del ‘suo’ padrone (l’unica maniera di salvare te, è tentare di far vincere lui).
In questo quadro ideologico ogni sacrificio, ogni pesantezza legata al lavoro manuale di produzione diventa qualcosa che è dovuto per il Bene Comune.
La cosa strana è che a farlo siano pochi e sempre gli stessi!!
«La mia graduale incarnazione nella condizione operaia, la quotidiana condivisione della vita di fabbrica mi ha costretto a rileggere con occhi nuovi la realtà. Ho scoperto progressivamente sulla mia pelle la condizione di sfruttamento e di ingiustizia creata ai lavoratori dal sistema capitalistico di produzione. Questa esperienza quotidiana dello sfruttamento della forza-lavoro e la lotta per resistere alla prepotenza del “padrone-capitale” mi hanno profondamente mutato e forgiato in idee / comportamenti precisi».
Infatti l’aver scelto di dislocarci nel cuore di un sistema, cioè nei rapporti sociali di produzione, ci ha permesso di capire di che pasta è fatto questo sistema capitalistico, ma soprattutto di scoprire che attingere sempre a giudizi morali (nuovi poveri, nuove povertà) senza mai arrivare a un giudizio storico conduce pian piano a farsi carico di attutire gli effetti senza mai intaccare le cause.
«Per i padroni noi lavoratori possiamo apparire come ‘conseguenze’ in mezzo o in fondo a un bilancio le cui cifre si possono non difficilmente manovrare.
Ma questa ‘morale’ noi la rifiutiamo. Per noi la vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di tutti a vivere in modo uguale, viene prima delle cifre e dei bilanci».