Testimonianze di pretioperai su Carlo Carlevaris (6) 


 

Sono davvero contento di aver partecipato al Convegno di Torino del 9 marzo scorso per ricordare la figura di don Carlo. Dopo circa 30 anni ho potuto rivedere il volto di Silvio Caretto col quale, negli anni ’80, c’è stata una stretta collaborazione, quando insieme a Gianni Alessandria, svolgevo l’incarico della segreteria nazionale dei PO italiani. Questo appuntamento, e il lavoro per portare a compimento la pubblicazione di Pretioperai, mi hanno dato l’opportunità di ripensare la nostra storia, anche alla luce dei decenni che ci hanno portato sino ad oggi.

Ho incontrato don Carlo per la prima volta a Reggio Emilia nel convegno dei preti operai del 1973. Lavoravo da pochi mesi all’ospedale Psichiatrico di Mantova. Gli altri presenti erano operai nelle fabbriche e qualcuno nel lavoro artigianale. Tra loro mi sentivo un po’ perso, sia perché ero agli inizi della mia esperienza, sia perché il contesto lavorativo dominante era quello della fabbrica. Se uno degli slogan ricorrenti era di diventare ed essere «come loro» cioè come gli operai, esso non calzava certo con la mia situazione all’interno del “manicomio” dove peraltro c’era una elevatissima conflittualità (si era al tempo Basaglia e della lotta contro l’istituzione manicomiale) ma la mia condizione di operatore era sostanzialmente diversa da chi era ricoverato. Così per molto tempo ho pensato a me stesso, in rapporto ai PO italiani, come prete operaio di serie B.

A Reggio Emilia si sono fissati nella mente soprattutto don Sirio e don Carlo, forse perché apparivano i più maturi, in un momento della mia vita nel quale dovevo ancora trovare un ritmo nel cambiamento radicale delle mie giornate e in un contesto esterno piuttosto ostile.

Permettetemi una testimonianza personale. Da sempre vivo a Mantova. Nel 1966, dopo 2 anni e mezzo di ministero, l’allora vescovo mons. Poma, che diventerà presidente della CEI, mi nominava assistente provinciale della Acli. Erano anni bollenti. Nell’XI congresso tenuto qui a Torino nel 1969, esattamente 50 anni fa, fu deliberata la fine del collateralismo nei confronti della DC e quindi il voto libero per i cattolici. L’anno successivo a Vallombrosa il presidente Gabaglio lanciava l’«ipotesi socialista» come nuovo asse della linea politica delle Acli. Nel 1972 fu deciso il ritiro degli assistenti dal loro ministero alle Acli. In quegli anni mi mantenevo insegnando religione, con un minimo di ore. Arrivai, però, a sentire insostenibile per me guadagnarmi da vivere in quel modo. Contestualmente, oltre al contatto diretto con situazioni di lavoro, mi alimentavo con letture tipo “La povertà della chiesa” di Congar, “Come loro” di Voillaume, le testimonianze di Paul Gauthier, di don Milani… . Ero in corrispondenza con mons. Alphred Ancel…

Il pensiero di dare una svolta alla mia vita, entrando direttamente nel mondo lavorativo covava dentro di me. Ne parlavo apertamente col vescovo che era succeduto a mons. Poma. C’era un rapporto aperto, fiducioso e franco. Come in Carlo la decisione arrivò irresistibile. La polarità di fondo per me era di mantenermi con il mio lavoro per liberare il ministero dall’odore dei soldi rendendolo gratuito.

«Irresistibile» è la stessa espressione utilizzata da don Carlo nella sua narrazione

«Ma anche gli anni ’60, caratterizzati dalla reazione del padronato nei confronti dei sindacalisti comunisti e non, sono stati il crogiuolo di idee e sentimenti, di grandi sofferenze e sacrifici sino all’essere buttati fuori dalla fabbrica con le stesse accuse con cui in Francia erano stati soppressi i preti-operai. Fu a questo punto che l’idea di saltare il muro, di assumere la condizione operaia, di superare l’essere “per” loro e “con” loro, che avevano già faticosamente vissuto e pagato, e di incominciare ad essere come loro, divenne irresistibile. Da Cappellano del lavoro a prete-operaio: da solo, tra l’incredu­lità dei più e l’ostilità di molti»1.

Volevo sottolineare l’importanza della decisione, quella che cambia tutta l’impostazione della vita sul piano esistenziale e, quindi ministeriale. Ciascuno di noi l’ha compiuta attraverso un percorso personale unico, avendo però in comune l’immersione nella condizione di lavoro che modula i ritmi della vita e l’incontro con i compagni e il ministero presbiterale da vivere in contesti totalmente laici. Ma occorre distinguere bene la decisione rispetto alle motivazioni e alle progettualità. In proposito riporto in nota un illuminante pensiero di Bonhoeffer che distingue bene tra la decisione e il pacchetto delle razionalizzazioni che essa si porta dietro2. Ecco, venendo a don Carlo e alla mia posizione, ragionando sulla decisione, mi sembra che i titoli delle nostre testimonianze, comparse sul libro curato da Pietro Crespi, esprimano in maniera chiara la differenza. Don Carlo: «Spezzoni di Chiesa in classe operaia». Il mio: «Diventare punto di domanda». Naturalmente non sono in conflitto tra loro, ma sono profondamente diversi. Certamente la collocazione territoriale (nella diocesi di Mantova in due abbiamo fatto questa scelta, però distanti 55 Km), ma anche un diverso pensiero teologico, sono sottesi a questo modo di presentarsi. Allora, da un lato c’è la piena e riconosciuta condivisione della scelta, mentre vi sono diverse accentuazioni o articolazioni a livello di motivazioni e di progettualità.

Con Carlo ci si incontrava in occasione dei convegni nazionali dei preti operai, all’interno dei quali la dialettica era molto accesa. Uno dei momenti di maggior sofferenza fu il convegno nazionale Sassone, nell’autunno del 1983, con lacerazioni profonde e non ricomposte. In quel contesto vi fu il passaggio della gestione della segreteria nazionale dal Veneto alla Lombardia e il sottoscritto con Gianni Alessandria ricevemmo l’incarico della segreteria nazionale che ricoprimmo fino al 1989. In quel contesto il gruppo Piemontese chiese con assoluta priorità l’organizzazione di un seminario nazionale sul «Ministero», dopo che l’anno precedente lo stesso gruppo aveva gestito un seminario su «La Militanza» a Castiglion dé Pepoli. Risposi che certamente la Segreteria avrebbe promosso un seminario nazionale sui «Ministeri». La differenza non fu subito notata, ma al fondo ci stava un diverso impianto teologico che poi si manifestò nell’attuazione del seminario nella primavera del 1985. Una tale impostazione era sembrata più coerente con l’ecclesiologia emersa nel Concilio Vaticano II e di maggior apertura in un contesto ecclesiale nel quale la categoria «Popolo di Dio» era scomparsa dal magistero episcopale (in quarant’anni utilizzata solo due volte in uno dei documenti della CEI).

Due volte mi sono recato a Torino per incontrare i PO del gruppo piemontese. Soprattutto con don Carlo partecipai alcune volte ai convegni dei PO francesi dove lui era molto conosciuto e sembrava trovarsi a casa sua. Ivi trovava la sua fondamentale ispirazione e, in fondo, il sogno di operare nella classe operaia in sintonia con il vescovo. Nella sua testimonianza comparsa sul numero di Pretioperai 30-31 del 1995, costruito con i contributi dei gruppi nazionali operanti in Europa, don Carlo manifestava chiaramente il suo profondo legame con l’esperienza francese:

«Tutta la vicenda dei preti-operai francesi e belgi che ero andato a conoscere negli anni precedenti mi era chiara davanti. Quello che non avevo saputo allora e potuto fare più tardi, adesso mi era possibile grazie a un vescovo eccezionale, Padre Pellegrino, che come il card. Suhard e Feltin rischiava l’impopolarità e si metteva sulla loro strada. Nacque la Missione Operaia»3.

A dire il vero anche la situazione francese aveva un grosso nodo irrisolto. Ricordo che nel 1991 con don Carlo ed altri abbiamo partecipato in Francia al convegno dei PO francesi con la presenza di delegazioni di paesi europei e per la prima volta furono invitati i pochi superstiti della scissione avvenuta al tempo del divieto vaticano per i preti e religiosi di continuare il lavoro in fabbrica. Il risultato fu una spaccatura grave tra soumis e insoumis, tra chi aveva obbedito al divieto e i tanti che, nella scelta impossibile tra chiesa e classe operaia, scelsero la fedeltà alla loro condizione lavorativa. Quando Paolo VI nel 1965 diede il consenso alla ripresa del lavoro per preti e religiosi, rimase comunque il divieto di incontrare e collaborare con i “non sottomessi”, una ferita non solo alla solidarietà operaia, ma anche alla fraternità cristiana. Per la prima volta dopo decine di anni, poterono prendere la parola nell’assemblea generale. L’anno seguente, in tre di loro parteciparono qui in Italia al nostro convegno.4

Penso che per molti di noi l’esperienza francese, iniziata negli anni precedenti il Concilio, sia stato un riferimento importante per partire, a nostra volta, qui in Italia. Ma come modello da seguire e da applicare, nella stragrande maggioranza delle situazioni, di fatto non poteva funzionare. Un solo esempio: in Francia non c’era il diktat dell’unità politica dei cattolici, che qui in Italia era vincolante. In una confidenza fatta dal card. Ballestrero, presidente della Cei a un PO di Torino disse che il vero nodo era la nostra inaffidabilità politica, ovvero la nostra disobbedienza all’indicazione dei vescovi, ripetuta sino al 1992, a votare Democrazia Cristiana.

Non ho condiviso la scelta del gruppo dei PO del Piemonte, nel 1991, di dissociarsi dal Coordinamento nazionale dei PO, non partecipando più agli incontri, con la motivazione dell’eccesso di critica rivolta ai vescovi, come don Silvio Caretto ha ricordato nel suo intervento del 9 marzo scorso. Fu l’inizio della fine di questo strumento di coordinamento avvenuta nel 1995. Da allora la Rivista Pretioperai, gestita dal gruppo lombardo, è rimasto l’unico strumento di collegamento che ha reso possibile i nostri incontri annuali aperti tutti i PO e ai loro amici. A questi incontri don Carlo, e non solo lui del Piemonte, ha sempre partecipato sino a quando la salute lo ha sostenuto, offrendo i suoi contributi, come risulta dalla serie della nostra rivista. E’ stato bello continuare a incontrarsi, accompagnandoci nel nostro invecchiamento.

Nell’incontro del 1998 nel capannone di Viareggio don Carlo riprese il discorso, in maniera molto discreta, di occasioni perdute nel nostro dialogo con i vescovi:

«Nell’azione sindacale siamo stati attenti e capaci: nei Consigli di fabbrica, nell’organizzazione sindacale. Abbiamo saputo dialogare con l’istituzione-padrone, senza svenderci, senza rinunciare ai nostri obiettivi, alle nostre idee. Non siamo stati capaci, interessati forse, ad un dialogo difficile, ma a mio parere possibile, con la istituzione-Chiesa. Non siamo stati un interlocutore valido con essa.
Dico ancora una volta questa mia opinione perché oggi il clima, l’atmosfera alla Sirio me lo permette e perché oggi abbiamo potuto e saputo dialogare. Forse avremmo potuto farlo anche con i vescovi. Perché sono cambiati loro? Forse, ma vorrei metterli alla prova. Ma soprattutto perché qualcosa è cambiato in noi. Io ho partecipato al colloquio con Mons. Charrier, presidente della Commissione per i problemi sociali. Non ne sono stato soddisfatto, ma conoscevo le intenzioni sue e di don Mario Uperti, direttore di quell’Ufficio. Le loro domande non mi sono sembrate peregrine: e, forse, se ce le avessero fatte altri le avremmo apprezzate.»5

Nell’incontro che come segretario dei PO ho avuto con mons. Charlier, che conoscevo dal tempo delle Acli, nell’estate del 1985, andandolo a trovare mentre era in vacanza sulle montagne piemontesi, si parlò del come continuare il dialogo tra la Commissione CEI, che lui presiedeva, e il Coordinamento Nazionale dei PO. Non emerse nulla che facesse pensare ad una interruzione di questi dialoghi. Mi chiese alla fine di scrivergli una lettera che avrebbe presentato alla Commissione e poi ci si sarebbe risentiti. La mia lettera non ebbe risposta alcuna, neppure la cortesia di notificare l’interruzione dei nostri dialoghi. Nell’articolo che chiude questo quaderno ho pensato utile riportare la ricostruzione degli incontri tra la Commissione CEI per i problemi sociali e del lavoro e il nostro Coordinamento basata oltre che sui ricordi personali anche sui documenti prodotti.

Che cosa era successo? Per darsi delle risposte occorre uscire dal nostro ambito di preti operai per prendere in considerazione la svolta avvenuta nel 1985 dopo il Convegno di Loreto nella conduzione della chiesa italiana.

Alberto Melloni parla di “occasione perduta” della chiesa italiana:

«Proprio per consacrarsi alla missione politica che ha ritenuto prevalente, il card. Ruini (dal 1986 Segretario della CEI e poi presidente per tre mandati) ha consapevolmente rinunciato …alla irripetibile occasione che gli si era presentata: essere il maieuta di quella chiesa italiana come comunione pacificata e pulita che Paolo vi aveva visto durante il caso Moro, che si alza come un tragico Nebo nel 1978. Questa occasione è andata sostanzialmente perduta, come dimostra il desolante spettacolo di divisioni palesi e occulte che devastano un cattolicesimo dove la pratica preferita da troppi membri con un mi­nimo di voce pubblica è spiegare ai terzi perché gli altri cattolici non meritino tale qualificazione, ma siano rottami di ideologie morte da smaltire senza troppi riguardi. Così il tentativo ruiniano di guada­gnare una funzione politica al vertice della CEI ha causato un’emorragia al pre­stigio spirituale del cattolicesimo che le frequenti trasfusioni di osse­quio politico segnalano, ma non curano»6.

Nulla di strano che anche i preti operai siano stati ritenuti «rottami di ideologie morte» totalmente inutili, se non dannosi, alla strategia di Ruini.

Dopo il convegno di Loreto Augusto del Noce parlava apertamente di «restaurazione cattolica» dalle pagine di Il Sabato in riferimento al discorso di Giovanni Paolo II, a Loreto che decretava la fine della «linea Ballestrero», quella che in sostanza continuava il cammino indicato da Paolo VI.

A questo possiamo aggiungere il discorso di Giuseppe Dossetti tenuto a Milano, alla Fondazione G. Lazzati nel 1994 «Sentinella, quanto resta della notte?». Un testo ancora attualissimo. Parla della notte delle comunità nella società italiana e delle cause profonde della notte come «cause intrinseche alla nostra cristianità italiana». In breve: minoranza infima dei battezzati consapevoli rispetto alla maggioranza; inadeguatezza delle comunità a for­marli; «sviamento e perdita di senso» dei cattolici im­pegnati in politica, «in modo conforme all’Evangelo», per mancanza di disinteresse e soprattutto perché privi di un’adeguata cultura all’altezza dei problemi attuali; eccesso di valore attribuito alla loro presenza per se stes­sa in politica invece che all’efficacia della mediazione da attuare; immaturità della relazione clero-laici, tesa più a produrre una soggezione passiva del laicato che a un cristianesimo profondo e vero, e quindi a una capacità etica sul piano sia personale sia pubblico. E aggiungeva:

«Ebbene, se queste erano, e sono tuttora, le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici o, peggio, rinunziando a un giudizio severo nei confronti del­l’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la Chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel cam­po (per esempio la politica familiare e la politica scolastica)7».

Ecco: il mio ricordo di don Carlo si pone in termini dialettici ma veri. Credo che sia utile per far emergere i problemi che abbiamo dovuto affrontare e il contesto che nel tempo si è modificato. Negli incontri annuali il dialogo tra noi era tornato fondamentalmente sereno, ma non siamo più ritornati sul nostro passato.

Mi sento in debito nei suoi confronti anche perché mi aveva invitato a visitalo nella sua mansarda. Ma prima il lavoro che mi ha tenuto impegnato sino alla fine del 2002, poi la gestione di mio padre, paralizzato e con il sondino nasogastrico per l’alimentazione, poi ancora, dopo a sua morte nel 2010, la gestione della sua seconda moglie che in questo mese compie 95 anni. E’ dal 2001 che non vado in ferie.

L’ultima volta l’ho visto a Torino, nel giugno del 2014 all’incontro delle delegazioni dei PO europei.

E’ stato molto duro vederlo al suo arrivo come perduto in mezzo a persone che conosceva da decenni.

Nell’eremo, a pochi Km da Bergamo, dove ogni due mesi ci incontriamo, c’è un piccolo bosco dove sta crescendo un melograno che si chiama Carlo Carlevaris. Un segno per ricordarlo sempre.

Roberto Fiorini 


1Pretioperai 30-31/1992, 136.7.

2) D. Bonhoeffer, Scritti scelti 1918-1933, Brescia 2008, 200 «Negli ultimi tempi mi ha sempre colpito il fatto che tutte le decisioni che dovevo prendere non sono state veramente decisioni mie personali. Se da qualche parte c’era un dilemma, lo incassavo semplicemente e – senza dedicargli in realtà un grande interesse a livello di consapevolezza – lasciavo che maturasse da sé fino ad arrivare alla chiarezza di una decisione; ma questa chiarezza non è poi tanto di tipo intellettuale quanto istintivo, e la decisione è presa. Che poi a posteriori possa dare una motivazione sufficiente, è un’altra questione».

3) Pretioperai 30-31/1992, 137.

4) Soltanto nel 1993 la Commissione Episcopale Francese del mondo operaio, quando molti erano già passati ad altra vita, fece una dichiarazione nella quale si dice, tra l’altro: «Noi vogliamo dire oggi a questi preti che si sono sentiti esclusi che noi rigettiamo tutto ciò che, quarant’anni fa, e oggi ancora, lascerebbe pensare che la condizione operaia sia incompatibile con lo stato di vita del prete […]. La legittimità del ministero dei preti “che lavorano manualmente e condividono la condizione operaia” è ufficialmente riconosciuta», in Pretioperai 30-31 (1995) 26

5) Pretioperai 42-43/2008,
6) A. Melloni, G. Ruggieri (a cura di),Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della chiesa in Italia, Roma 2010, 73.4.

7) Le recenti dichiarazioni del card Ruini vanno ancora in questa direzione.


 

 

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