di Ernesto Balducci
1°
La mutazione del cristianesimo ebbe inizio durante la Resistenza. Voglio spiegarmi rievocando due episodi nei quali prese forma un processo che solo dopo quarant’anni ha la consistenza e la fecondità di un’alternativa per il futuro.
Nel 1941, a Parigi occupata dalle truppe naziste, il Cardinal Suhard autorizza una singolare esperienza: i preti vestono la tuta da operai e scendono nell’inferno della classe «senza Dio». L’esperienza era stata preceduta da una sconvolgente presa di coscienza dovuta alla diagnosi condotta da un sacerdote, don Henri Godin: la Francia, «la figlia prediletta della chiesa», era in realtà un «paese di missione». Può anche darsi che, secondo i promotori della «discesa all’inferno», i preti operai dovessero semplicemente portare Cristo in una fascia sociale ormai remota dalla chiesa come una tribù della Nigeria. E invece molti di essi scoprirono, e ne dettero pubblica testimonianza, che c’era più vangelo vissuto tra gli operai atei che non nei seminari. Che il regno di Dio, ci si cominciò a chiedere, non sia fuori del regno di Dio?
Quattro anni dopo, nella prigione nazista dove verrà impiccato, un pastore evangelico, Dietrich Bonhoeffer si pose una domanda che ancora oggi suona paradossale: «Come Cristo può diventare Signore degli uomini non religiosi? Si danno dei cristiani non religiosi?» La sua risposta era positiva: il cristianesimo non è una religione; il mistero di Gesù fu nel suo esistere totalmente per gli altri; seguirlo vorrà dire esistere per gli altri, etsi Deus non daretur, anche se Dio non ci fosse; vorrà dire vivere «dinanzi a Dio senza Dio». In lui, come nei preti operai, la fine della cristianità non era un tragico evento da subire, era un progetto da abbracciare senza riserve né opportunismi, come normale risposta evangelica ad una situazione dell’uomo totalmente inedita.
La storia del cristianesimo in questi ultimi decenni è andata nel senso di queste intuizioni.
(L’uomo planetario, p. 35)
2°
Si era chiuso da appena tre anni il concilio Vaticano II, quando un teologo francese (che non appartiene al gruppo dei «novatori»), Louis Bouyer, pubblicò un libro dal titolo sconcertante: La décomposition du catholicisme. Nell’ultima pagina si legge:
Quanto a ciò che viene chiamato cattolicesimo – vocabolo apparso se non erro nel 16° secolo, con esso si intende ii sistema artificiale, creato dalla Controriforma, indurito dalla repressione brutale del Modernismo – esso può anche morire. Vi sono persino forti probabilità che esso sia già morto, benché ancora non ce ne accorgiamo.
Un giudizio del genere non sarebbe stato ortodosso dieci anni prima. Esso infatti sottintende una netta distinzione tra la continuità della traditio cristiana e la forma cattolica che essa ha assunto in un arco ben determinato della storia. In quegli stessi anni Paolo VI sottolineò con rammarico, ma in modo elusivo (com’era nel suo costume) il fatto che il termine “cattolico”, il cui senso etimologico e originario equivale a quello di universale, sia diventato invece un termine di parte. E difatti il cattolicesimo che noi conosciamo si è definito e organizzato secondo un progetto antagonistico a quello delle chiese riformate e a quello del laicismo trionfante. Mentre sulla grande piramide gerarchica del cattolicesimo batteva il sole pallido del Medioevo, la sua ombra cadeva sull’età moderna, segnandola del giudizio globale di apostasia. Quante forze reazionarie si sono rifugiate in quel cono d’ombra!
Un pensatore di grande rilievo come Jacques Maritain, che pure reazionario non era, faceva derivare l’età moderna da Tre riformatori (così s’intitola un suo libro tradotto in italiano da Giovan Battista Montini), e cioè Lutero, Cartesio, Rousseau, artefici l’uno dopo l’altro dell’aberrante sistema culturale in cui il mondo moderno riconosce la sua identità. Eppure lo stesso Maritain, quando nella sua opera massima, Umanesimo integrale, osò avanzare il progetto di una cristianità «profano-cristiana», diversa da quella sacrale-cristiana del Medioevo, fu messo ai margini dall’autorità ecclesiastica insieme ai suoi simpatizzanti, tra i quali il futuro Paolo VI. La cristianità non poteva essere che quella costruita nel Medioevo e definitivamente sanzionata dal concilio Tridentino.
Contrasti di questo tipo sono di appena trent’anni fa, anche se sembrano lontani di secoli. In mezzo c’è, infatti, la grande frattura del concilio Vaticano II che, a dispetto di tutte le apparenze, ha cambiato in modo irreversibile il corso storico del cattolicesimo.
Fu il concilio ad avviare la «decomposizione del cattolicesimo» in virtù della sua scelta di fondo che sostituì al criterio dell’antagonismo quello, intrinsecamente destrutturante, del dialogo, sia con le chiese riformate che con il mondo moderno. Non si trattò di un mutamento tattico, dato che, prima ancora del sistema dei rapporti ad extra, la chiesa cattolica aveva mutato la coscienza di se stessa. In questa nuova coscienza emersero subito alcune «verità», immediatamente prossime alla Parola, che fa da oggetto primo della fede, le quali, nel cuore stesso della chiesa, hanno agito e stanno agendo come principi di contestazione del cattolicesimo.
Il primo di questi «princìpi» di disgregazione della forma cattolica è che la norma a cui tutti i membri della chiesa, compreso il papa, sono soggetti è la Parola di Dio contenuta nella Scrittura, che genera la fede e solo alla fede si dischiude.
Il secondo è l’identificazione della chiesa con il popolo di Dio e cioè, in prima istanza, con l’insieme dei battezzati, da considerare come un soggetto unico e indivisibile della missione di salvezza, dentro il quale e non sopra il quale hanno senso i ministeri gerarchici.
Il terzo è il servizio alla crescita del mondo, quale legge costitutiva della chiesa, chiamata così a spogliarsi di ogni ideologia e di ogni pratica di dominio. Basterebbero queste «verità» conciliari per dar fondamento a quanto disse un teologo, che il concilio è stato per la chiesa una rivoluzione copernicana.
Che ne è di questa rivoluzione? Come si è avverata nell’universo cattolico?