Preti in condizione operaia


 

Sull’esperienza dei pretioperai non c’è mai stata molta attenzione. Ma ultimamente si è diffusa l’opinione che essa abbia esaurito la sua “spinta propulsiva”, abbia cioè perso i connotati “provocatori” della sua origine. A riprova di ciò si porta il fatto che i pretioperai stanno di fatto estinguendosi di morte naturale. Se il “fenomeno” non genera nuove leve vuol dire, si dice, che esso è “datato”, collocabile cioè in un ben preciso contesto storico-culturale non più ripetibile.
Naturalmente sulla presunta chiusura del ciclo dei pretioperai si sono buttati spudoratamente i bottegai di sempre: “Il popolo deve nutrire i suoi ministri, perché, se essi devono attendere a tempo pieno alle necessità dei poveri, è necessario che non vadano alla ricerca di un nuovo lavoro. Oltretutto ciò significherebbe aggravare il problema della disoccupazione, perché verrebbero a mancare nuovi posti di lavoro”. (mons. Armando Franco in ‘‘Sovvenire News”, dicembre ‘93).
Non è nostra intenzione interessarci di queste volgarità quanto piuttosto prendere atto che questo “clima” sembra aver fatto presa anche all’interno dei pretioperai stessi. Non sono pochi i pretioperai che, senza rinnegare la loro scelta, la colgono dentro di sé come ormai superata da nuove istanze o da domande di nuove e più evidenti “povertà” a fianco delle quali collocarsi.
Parecchi rivendicano di portarsi dietro, nella nuova collocazione, il meglio di quanto la “dislocazione” in condizione operaia ha loro insegnato. E vedono in essa non una frattura ma un’evoluzione del loro essere stati pretioperai.
Non è in questa riflessione che vogliamo chiederci se questa “disaffezione” sia imputabile anche al fatto che i pretioperai, come collettivo, non hanno sedimentato e strutturalizzato in questi anni un loro “spazio” di riferimento culturale, spirituale ed evangelico più visibilmente identificabile o una loro rilevanza ecclesiale specifica. Né se questo sia dovuto al fatto che non ne siano stati capaci, non lo abbiano ritenuto opportuno o non si siano verificate le condizioni per farlo.
Più semplicemente ci proponiamo di prendere in considerazione alcune delle motivazioni più diffuse tra di noi, in forza delle quali la scelta di “dislocarsi” come preti in condizione operaia pare abbia fatto il suo tempo e non sia più attualmente carica di “senso”. Almeno per appurare se esse non siano per caso dovute alla sudditanza al clima culturale vincente e quindi dominante.

1) Tutta una prima serie di argomentazioni sono raggruppabili in questo assioma: “Oggi, almeno nel mondo occidentale sviluppato, la condizione operaia non è più identificabile con la condizione dei poveri. Altre povertà (quelle storiche del terzo mondo e della guerra, e quelle nuove dell’emarginazione, della droga, dell’aids, degli extracomunitari…) si stanno affacciando sul palcoscenico della nostra società. Povertà oltretutto più deboli perché incapaci di difendersi e colpite dalla crescente ondata di razzismo e di egoismo antisolidaristico”.
A monte di questo giudizio, almeno tra noi, sembrano esserci
a. un certo atteggiamento di fondo
b. un certo modo di leggere la realtà.

a. L’atteggiamento di fondo è quello tipicamente “cattolico” della ricerca dei poveri su cui curvarsi. Chi ha vissuto la propria dislocazione in condizione operaia soprattutto sulla spinta pauperistica di andare a stare “vicino” ai poveri operai, visti con la lente strappalacrime dei romanzi di fine secolo, si trova ora insoddisfatto. La continua scoperta di “più poveri dei poveri”, con cui dover stare per essere in pace con se stessi, espone ad una ricerca ansiosa e mai definitiva.
Resta il fatto che la “povertà” operaia è l’unica le cui piaghe strutturali possono essere condivise: tutte le altre possono essere solo affiancate.

b. Quel certo modo di leggere la realtà della condizione operaia è invece quello classico dei moralisti tuonanti dai pulpiti, per i quali basta registrare un qualche diffuso consumismo nelle famiglie operaie plurireddito per dedurre immediatamente che gli operai “stanno bene”. Una lettura della realtà che se anche non fosse falsa, sarebbe, essa sì, biecamente “materialistica”: quasi che, superata la soglia della “fame”, i sottomessi non abbiano altri “bisogni” più elevati ed altre dignità da rivendicare. Dando per scontato che il loro appagamento, quaggiù, debba essere riservato, per natura, ad altre classi sociali.

Ma chi registra sulla propria pelle cosa stia in realtà succedendo oggi nelle fabbriche, e non ne ha attutito le piaghe con distanti incarichi sindacali di tipo dirigenziale, sa benissimo che non una delle contraddizioni tra capitale e lavoro, dallo sfruttamento all’alienazione, dalla divisione sociale del lavoro alla totale dipendenza delle vite a regole mercantili, è stata benché minimamente scalfita. Anzi, viviamo in tempi in cui tutto l’apparato normativo che regola il rapporto di lavoro dipendente sta paurosamente arretrando lasciando spazio all’inselvaggimento e all’imbarbarimento. Tutto ciò con il consenso passivo delle organizzazioni storiche dei lavoratori (vedi gli ultimi mega accordi sindacali del luglio 92 e del luglio 93). Il “crollo del muro” è utilizzato come simbolo della vittoria planetaria delle superiori regole del mercato (nome più gradevole dato alle logiche capitalistiche), alle quali devono ritornare a sottostare le recalcitranti masse proletarie.
Se addirittura di fronte alle previsioni di 50 milioni di morti per fame nel 94, fatte dalla Banca Mondiale, si ha la freddezza di affermare che il capitalismo è comunque l’ecosistema più avanzato elaborato in natura, dal momento che è in grado di garantire la sopravvivenza al 99 % degli appartenenti alla sua specie, allora vuol dire che ormai ogni obiezione è annullata. Questo è il migliore, o il meno peggiore, dei sistemi che l’uomo ha saputo inventare: occorre rassegnarsi e ognuno deve accettare di stare al posto che questo sistema, per sopravvivere, necessita che lui occupi.
Ed è così che se molti possono ancora capire il problema del posto di lavoro dei minatori del Sulcis, nessuno osa più interrogarsi sulla vita dei minatori del Sulcis. Dal punto di vista delle condizioni materiali quindi, nessuno dei connotati tipici della povertà della condizione operaia che conoscevamo al momento del nostro inserimento è venuto meno. C’è un solo fatto nuovo: il loro occultamento.

«Chi apprezzerebbe le purissime forme di una scultura greca se venisse rievocato nel pensiero il sudore, la saliva, la polvere, il rumore ossessivo che ne hanno accompagnato la nascita? O magari gli schiavi in catene che trascinavano penosamente enormi blocchi di pietra? È un antico argomento estetico quello che suggerisce di celare le esalazioni triviali della produzione, il tormentato tragitto dalla “materia” allo “spirito” o, più modestamente, dalla materia prima al prodotto. E con esso la vita vera degli uomini che lo percorrono.
Pochi “saggi” conservano il tragico sapere che, al di là dell’ipocrisia sociale, la bellezza (o la comodità) e soprattutto il profitto, si edificano su fondamenta di fango e di orrore. Le mura della fabbrica sono sempre state non solo gabbia e confine della proprietà privata, ma anche schermo incaricato di proteggere l’“oscenità” della produzione. Anche nei momenti alti e progressisti, in piena etica del lavoro e della conclamata centralità della fabbrica, la qualità concreta delle vite che in essa si consumavano è sempre stata uno spettacolo non bello da vedersi. La fabbrica era fonte riconosciuta del benessere. Tanto bastava per ignorare e legittimare nel silenzio i principi “razionali” del suo funzionamento e… qualche ripugnante “effetto secondario”.
Oggi è quella stessa centralità che viene fatta scomparire dall’orizzonte culturale, ma niente affatto dalla realtà. Le merci e la ricchezza, quella grande dei pochi e quella assai modesta e salatamente pagata dei molti, sembrano scaturire, nelle immagini patinate che ci propinano, da magiche “sinergie” in luoghi di produzione astratti e senza violenze. Oggi il pesante prezzo del produrre merci e profitti è mascherata non più tanto dalle tetre mura di mattoni, ma dalla dispersione, dalla tortuosa geografia del comando e dell’obbedienza, dalle favole della mitologia postindustriale. La luce abbagliante del consumo ha superato Fidia nell’oscurare il tanfo terreno della produzione e l’origine di tante sofferenze individuali e collettive. «Eppure neanche le tetre mura e le atmosfere carcerarie sono scomparse tra Torino e Taiwan, men che meno le vite spremute senza nessun complimento. Scomparsa è la voce che tutto questo denunciava e il suo ascolto. Nell’epoca della fabbrica “socialmente invisibile” chi può prestare attenzione alle sevizie cui è sottoposta una “specie in via di estinzione?”. Questa favola dell’operaio e della fabbrica scomparsi servirà a conservarceli entrambi, in vecchie e nuove forme, per i secoli dei secoli. Amen». (Marco Bascetta)

E se anche l’estinzione dei pretioperai fosse uno dei risultati di questo “occultamento” dominante?

2) Una seconda serie di argomentazioni sono invece riconducibili a quest’altro assioma: «È venuta meno la presunta centralità della classe operaia. Essa non è stata in grado di elaborare e conquistare condizioni di maggior giustizia e di uguaglianza per tutti. Non ha svolto il ruolo storico di soggetto materialisticamente antagonista al sistema capitalistico, previsto dai teorici della lotta di classe».
Non è compito di questo intervento aprire un dibattito teorico sulla permanente centralità della classe operaia, quanto piuttosto quello di fare alcune osservazioni.
È evidente che in qualche preteoperaio l’essersi collocato in condizione operaia in un momento alto del movimento può aver ingenerato una sorta di “miticizzazione” acritica della classe, che oggi provoca uno sconfortante senso di delusione. Occorre prendere atto che ci può essere stata molta più adesione “emozionale” che non una “cosciente” immersione in un progetto storico che richiedeva la faticosa partecipazione alla sua costruzione.
Non è altrimenti spiegabile il senso di disgusto con cui si prendono le distanze da alcuni comportamenti operai, saltando a piè pari ogni analisi sulla scientifica aggressione a cui la classe operaia è stata sottoposta dai poteri ad essa antagonisti, con l’appoggio compatto dei poteri sovrastrutturali (cultura e religione) e con la connivenza del proprio “quartier generale”.
Che il cardinal Casaroli possa esternare il dispiacere che il comunismo abbia fallito dimenticando quanto la Chiesa ha fatto, accettando ogni sorta di prostituzione, perché ciò avvenisse, può far impressione. Ma ancor più impressione fa, veder saltabeccare sul cadavere della classe operaia coloro che non possono non aver visto da vicino, essendoci dentro, per colpa di chi essa è stata ridotta, nella coscienza di sé e del suo ruolo, allo stato attuale.
Su questo secondo ordine di obiezioni, occorre almeno prendere atto che il rischio di fare la scelta di dislocarsi in condizione operaia perché “sostenuti dall’onda” oggi non c’è senz’altro più. Ciò basterebbe per riconoscere che questa scelta sarebbe, oggi, più “pulita”.
Certo che se alle origini poteva bastare anche una confusa ed entustiasta spinta evangelica, oggi, per scegliere questa strada, occorre una intelligenza “politica” più avanzata. Ed è forse per la mancanza di questo attributo che i seminari non sfornano preti in grado di prendere in considerazione il senso di questa scelta.
Oggi la classe operaia, a chi ci entra, non ha niente di entusiasmante da regalare. Chi ci sta provando lo sa. Essa può solo continuare a gridare, a chi lo sa leggere, il proprio bisogno di negare le regole di un sistema che genera la sua permanente sudditanza. A cominciare dall’elementare diritto ad autorganizzarsi, visto che, “eterodiretta”, è stata condotta alla dissoluzione.
Per arrivare a ricostruire una più elevata e diffusa coscienza di sé e del proprio compito storico: che è quello di infrangere le proprie vecchie e nuove catene, trascinando nella propria liberazione i sempre nuovi soggetti deboli che la civiltà mercantile continuamente evacua.

Sandro Artioli


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