Convegno di Bergamo / 2 giugno 2018
MEMORIE PER UN FUTURO
Interventi e risonanze (7)


 

Il tempo è un continuo evolversi. La storia è sempre stata un’evoluzione. Un mondo sta morendo, un altro sta nascendo. Vita e morte sono collegati. La novità del nostro tempo è che non si fa in tempo ad abituarsi al nuovo che esso si è già modificato. “Definitelo, ed è già cambiato” dice un saggio. Tutto è in continuo movimento. Guardando indietro negli anni della nostra vita vediamo che ci sono stati dei cambiamenti, che in un certo senso era possibile controllare, sia in senso positivo che negativo. C’era il tempo per scegliere, adeguarsi, capire, lottare perché il cambiamento fosse a dimensione umana, dove l’uomo fosse al centro, non gli interessi di chi ha il potere nelle mani.

Ora tutto muta velocemente. Una persona nell’arco della sua vita può vedere più cambiamenti. Dal nostro punto di vista siamo passati dal concilio di Trento, al Vaticano II “, da un cristianesimo dogmatico, incentrato su se stesso, sul tempio, sulle definizioni a un cristianesimo aperto alle realtà umane. “La dottrina è come una zattera che vi serve ad attraversare il fiume. Quando siete giunti sulla sponda opposta, lasciatela andare” direbbe il Buddha. Ed ora dalle realtà umane che si guardavano dalla finestra alle realtà umane in mezzo ad esse, uscendo dall’edificio o dalla fortezza.

Da un cristianesimo di massa, di maggioranza, ad un cristianesimo di minoranza. Da un guardare per criticare e condannare, ad un guardare per interrogarsi. Da una critica a un dialogo. I passaggi non sono sempre lineari: c’è il nuovo ma c’è anche il vecchio che fatica a scomparire. Nuovo e vecchio vanno di pari passo, non c’è l’uno senza l’altro. Succede come sulle piante, cosiddette sempreverdi: ci sono le foglie nuove ma anche quelle vecchie, che piano piano cadono, ma non tutte insieme, contrariamente a quanto avviene con le piante dalle foglie caduche, dove il nuovo nasce dopo che le vecchie foglie si sono seccate e cadute per terra.

Di fronte a questo binomio ci sono atteggiamenti diversi. Chi si rifugia nel passato e rimane ancorato, senza capire il meccanismo, quel passato una volta era il futuro. Rimanendo ancorati senza collegarlo col prima e col poi è come essere un albero che non produce frutti. Il passato era prima il presente e ha dato dei frutti, ma se io continuo a mangiare frutti senza piantare altri semi, senza utilizzare i semi del frutto ecco che tutto rimane fermo. Possiamo ricollegarci alla parabola evangelica dell’albero che non dà frutti e che il contadino vuole tagliare, ma che il padrone dice di potare, e curare perché possa dare frutti. Se alla fine questo non offre nulla va tagliato.

Mi viene in mente in questo momento il testo dello scrittore Giono “L’uomo che piantava gli alberi”, dove il protagonista per decenni non ha fatto altro che mettere semi nella terra. Questi piano piano hanno generato delle piccole piante trasformate poi in una foresta cresciuta lentamente e in silenzio, senza fare rumore.

L’altro esempio è un fatto che mi è capitato in un incontro di 25 anni fa. Stavo salendo la collina, all’interno di un istituto di suore, con la mia cassetta dei ferri perché dovevo fare un lavoro. Ad un certo punto vedo scendere una persona anziana, distinta che stava facendo la sua passeggiata. Chiedo alla suora chi era quel Tizio. Essa mi disse che si trattava del cardinal Pavan. La mia memoria immediatamente si ricollegò all’enciclica “Pacem in terris”, di Giovanni XXIII, che lui aveva scritto per il papa. Mi fermai e lo salutai. Egli mi chiese chi fossi. Risposi di essere un prete operaio che in quel giorno stava facendo un lavoro presso le suore. Egli mi fissò e disse: ““Resistete, resistete, resistete! Dovrà pur finire questo lungo inverno della chiesa”. Quest’uomo in quel periodo, relegato e isolato dall’istituzione non faceva altro che piantare alberi. Dieci anni fa, guardando su quella collina ho visto come una piccola foresta.

Persone nei decenni passati hanno seminato e il loro seme ha iniziato a crescere. il Vangelo dice che c’è qualcuno che semina, altri che curano quel seme e altri raccolgono. Ma chi raccoglie deve conservare il seme e ripiantarlo per poter continuare il processo di nascita, crescita, consumo.

C’è un brano degli Irochesi, indiani d’America che calza bene per il nostro tempo:
Quando togliamo qualcosa alla Terra, dobbiamo anche restituirgli qualcosa. Noi e la terra dovremmo essere compagni con uguali diritti. Quello che noi rendiamo alla Terra può essere una cosa così semplice e allo stesso tempo difficile come il rispetto. La ricerca del petrolio, carbone e uranio ha già fatto grossi danni alla terra, ma questi danni possono ancora essere riparati se vogliamo. Sarebbe cosa giusta e ragionevole offrire alla Terra semi e germogli e con questo sostituire di nuovo quello che abbiamo distrutto. Dobbiamo imparare una cosa: non possiamo sempre prendere senza dare qualcosa di persona. E dobbiamo dare a nostra Madre, la Terra, sempre, tanto quanto le abbiamo tolto”

Le nostre vite sono un insieme di esperienze che altri ci hanno insegnato e tramandato arricchendo il nostro bagaglio. E questa è la” tradizione”, che “non consiste nel mantenere le ceneri, ma nel mantenere vivo il fuoco”.
Spesse volte si confonde il mezzo con il fine. I mezzi sono legati al tempo, cambiano mutano a seconda delle situazioni, ma il fine rimane.

Guardando alla storia del cristianesimo ci accorgiamo che la maggior parte delle volte si è guardato al mezzo, alla mano che indicava un orizzonte, confondendo la mano con l’orizzonte. Da qui sono nate le divisioni, le scissioni, le guerre, le scomuniche, le crociate. Si è guardato di più ai puntini sugli “i” che al nocciolo del messaggio. Il Vangelo nel suo insieme, anche se espresso in un linguaggio legato al contesto, esprime una potenzialità enorme, che si riduce a una proposta: “Ama Dio con tutto il tuo cuore e il prossimo tuo come te stesso”. Il che si riduce ancora di più, al solo amore del prossimo, perché in quella maniera noi scopriamo il divino che è nell’uomo. Dio s’è fatto uomo, e l’uomo diventa il centro. “Avevo fame e tu mi hai dato da mangiare, avevo sete e tu mi hai dato da bere”, direbbe il nostro maestro.

Come si vede è importante guardare al succo dell’messaggio e soprattutto non possiamo campare di rendita. Spesso le istituzioni, quando stanno per esaurirsi nella spinta non fanno altro che celebrazioni, commemorazioni ed anche canonizzazioni. E’ importante la memoria, ma non basta, se rimane come in un museo.

Un altro cambiamento, che io chiamerei la seconda rivoluzione copernicana, dove la terra era ritenuta il centro dell’universo, è stata quella di non ritenerci più come centro, attorno al quale gira il sole. Inoltre l’occidente considera il resto del pianeta come un territorio da conquistare, da usare per il proprio benessere, e in questa maniera, ora che si stanno esaurendo le risorse, andiamo tutti alla deriva. O ci si salva tutti insieme, ritenendoci parte della stessa famiglia, oppure la catastrofe ci trascinerà tutti. L’immagine del giardino rende bene l’idea. Un giardino, fatto di rose dello stesso colore sarà anche bello, ma a lungo diventa noioso. Lo stesso dicasi dell’orto, ricco di pomodori e nient’altro. Diventa interessante se ci sono anche le insalate, i peperoni, il sedano, le melanzane etc. L’uomo planetario è l’uomo multicolore, è l’uomo che si sente parte di questo pianeta e di questo universo, non il signore del pianeta, dove ogni popolo contribuisce al vivere e alla coltivazione di questo giardino e di questo orto. Ognuno con la propria specificità.

Nei decenni scorsi abbiamo vissuto esperienze significative: una chiesa povera, l’essere là dove sta la gente, non rinchiusi nel tempio. Abbiamo lottato insieme ai compagni di lavoro, per un vivere più umano. Ora le forze sono quelle che sono, ma abbiamo un compito importante: essere come delle piccole lampade nella notte che non si muovono ma che possono richiamare qualcuno. L’impegno è quello di mettere olio nella lampada. E’ questo il tempo della saggezza, dell’attenzione, è il tempo del silenzio, che non vuol dire “non parlare e rinchiudersi abbassando le serrande, ma un silenzio che ascolta, pronto a rompersi ogni volta che c’è una domanda. E’ il silenzio dei saggi. Una parola pronunciata nel silenzio diventa carica di energia, perché troppe parole lasciano il tempo che trovano. Il nostro essere oggi non è quello, come direbbe Marcel Proust, del “cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi”.

Mario Signorelli


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