Sguardi e voci dalla stiva:
sussurri e grida al femminile


 

Costruzione di rappresentazioni alternative

 

Tutti gli esseri umani portano in sé l’idea sempre in evoluzione di chi sono e di cosa sono capaci dì realizzare. Il senso individuale del sé non è determinato dal sesso cromosomico, dai genitali, dal sesso assegnato alla nascita o dall’iniziale ruolo di genere. Per questo, l’identità e le possibilità individuali non possono essere circoscritte da ciò che la società ritiene essere comportamento maschile o femminile.
(Carta internazionale dei diritti di genere, Houston, Texas, 1996)

Lavoro alla Scuola di Pace di Monte Sole – Marzabotto1, e, assieme ai/alle miei/mie colleghi, incontro centinaia di ragazzi e adulti che si indignano per l’orrore della violenza nazista che su quei luoghi si è consumata: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 770 civili, per la maggior parte donne, bambini e anziani, sono stati uccisi in un’operazione di rastrellamento dalla 16a Divisione Corazzata Granatieri delle SS.
Tuttavia, dopo molto studio, molta pratica e molta riflessione, abbiamo maturato la convinzione che non ha senso fare educazione su un luogo di memoria se non si supera la “mania del giudizio” che impedisce al termine della storia di volgere lo sguardo dentro di noi. L’ansia di una doverosa, ma il più delle volte sterile e superficiale, condanna dei perpetratori e la consuetudine di attribuire loro categorie dell’inumano, non sono che maschere consolatorie che tradiscono il bisogno di allontanare da sé la possibilità del male.
Il riconoscimento dei meccanismi quotidiani di violenza che molto spesso viviamo inconsapevolmente in veste di spettatori, di perpetratori o di “zona grigia” e l’esercizio di un’ipervigilanza difensiva su questi meccanismi e dunque su azioni e linguaggi propri ed altrui, sono gli obbiettivi ultimi a cui mira la nostra idea di educazione.
Quando si ragiona di genealogia della violenza, si possono rintracciare alcuni fattori fondamentali che fanno parte della nostra quotidianità; la propaganda e la pubblicità, l’educazione, i mezzi di comunicazione di massa, l’imposizione rigida di modelli e identità, l’obbedienza all’autorità2, il prestigio sociale, il conformismo e la pressione del gruppo, la categorizzazione e la disumanizzazione dell’altro attraverso il linguaggio verbale e delle immagini, la socializzazione del rancore3, la costruzione del capro espiatorio e di identità oppositive noi/loro.
Quando si ragiona di genealogia della violenza, le riflessioni spesso si centrano sui rapporti di genere e sulle reciproche percezioni.
Questo ragionamento appare oggi quanto mai complesso da portare avanti poiché all’interno dell’arena pubblica del nostro Paese il dibattito che dovrebbe essere sul potere maschile e sulla sua continua prevaricazione del femminile viene trasformato in dibattiti sulle culture, sulle società, sulle religioni – di cui certi individui diventano immediatamente simboli e rappresentanti – più o meno primitive, tribali e violente che portano agli abusi sulle donne. Non una parola sullo sdoganamento del ruolo “merceologico”, di pura materia per soddisfare desiderio che viene affibbiato alla donna nella nostra modernissima e avanzatissima tradizione occidentale.
La questione della violenza, che sia estrema come quella che si è dispiegata a Monte Sole o quotidiana come quella che ciascuno di noi sperimenta nella sua vita, si declina secondo le categorie del potere e del corpo: sono corpi considerati di un livello gerarchico superiore che esercitano il loro dominio su corpi ritenuti inferiori. Nel caso della violenza di genere Lea Melandri, sociologa e femminista storica4, rileva che il nodo fondamentale da sciogliere consiste nel capire più profondamente perché il corpo femminile continua sia a essere oggetto di grande esaltazione da parte dell’immaginario collettivo, sia a essere screditato, tanto da poter essere trattato come merce prezzabile e contrattabile, esattamente come si vede oggi in televisione, dove non si può parlare di una raggiunta libertà sessuale ma di una via – più o meno libera – all’esibizione di sé, la più spudorata possibile, come potenziale quanto inefficace strumento di riappropriazione di potere.
Questa analisi allarga necessariamente il campo di indagine al problema dei modelli di uomo e di donna che il contesto sociale veicola.
Apparentemente, una maggior disponibilità di mezzi economici e culturali permette lo sviluppo di una grande quantità di modelli di riferimento e un conseguente ampliamento delle possibilità di scelta. Tuttavia non è diffìcile svelare quanto questi stessi modelli siano solo apparentemente vari: quello trainante è sempre e solo uno, univoco, prevalentemente sessuale e che confina la donna nella sfera dell’asservimento allo sguardo maschile mentre l’uomo deve, e viene messo costantemente nelle condizioni di, soddisfare indiscriminatamente i suoi desideri e le sue pulsioni.
Ci si accorgerà ben presto, e da entrambe le parti, che bisogni, rabbia, frustrazione, paure e desideri, sono oggi come al tempo della violenza nazista il perno attorno al quale, con la propaganda, ogni potere costruisce il suo consenso e il suo controllo.
E il potere sprigiona la violenza quando la complessità del reale non combacia con la perfezione e la semplicità del modello posto ad appagare proprio tutte quelle paure e quei desideri che fanno parte dell’esperienza umana.
La violenza sulle donne è una violenza che non può essere quindi combattuta se non si afferma la responsabilità sociale collettiva di uomini e donne5 nei confronti della complessità del mondo. Una responsabilità che è collettiva certo, ma che è individuale e personale perché è attribuile a uomini e donne reali e concrete, che si muovono nel tempo e nello spazio della loro vita. È una responsabilità che prevede una vigilanza continua da parte di ciascuno proprio perché non condividere e decostruire un modello imposto significa decostruire in qualche misura un sistema di identità immobili, fisse ed apparentemente immutabili, sia individuali che di gruppo, così confortevoli e confortanti da sembrare inevitabilmente vere.
Offrire rappresentazioni alternative, prestando una grande attenzione anche e soprattutto al linguaggio verbale e visivo che viene giornalmente e comunemente usato, è possibile e, lontano dall’essere un vuoto moralismo, diventa un’energica opzione morale ed etica di resistenza alla schiavitù e al potere e di apertura alla bellezza e al valore della molteplicità e della diversità.

Elena Monicelli

 

2 Cfr. in particolare Stanley Milgram, Obbedienza all’autorità, Milano, Bomiani, 1975

3 Sul concetto cfr A. Rivera, Regole e roghi, Metamorfosi del razzismo, Bari, Edizioni Dedalo, 2009, p. 30

4 Intervista rilasciata per la trasmissione radiofonica della Scuola di Pace “Memory on air”

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