“Abita la terra e vivi con fede” (Sal 37)
Rileggiamo oggi la Gaudium et Spes

Convegno di Bergamo 2014 / Contributi


 

UNA PREMESSA che suppongo sia tranquillamente condivisa nel nostro ambito: a partire dal suo titolo, la Gaudium et Spes ha messo profondamente in discussione immagini della Chiesa che erano consolidate da secoli: la Chiesa non sta di fronte al mondo in opposizione; la Chiesa non sta di fronte al mondo come l’altro polo rispetto al mondo (la Chiesa e il mondo); ma la Chiesa sta nel mondo.
Oggi mi sembra ovvio dire che tutto della nostra esperienza di PO conferma che il nuovo nasce nell’esserci dentro fino a perdersi: come il sale nella minestra, il lievito nella pasta e il chicco di grano nel terreno; così la Chiesa nel mondo; e così, appunto, noi preti in classe operaia.
E questo oggi mi appare come il cuore profondo di tutto, ciò che – mi vien da dire – non può cambiare mai. Mentre appare altrettanto chiaro che tanto (non “todo”) cambia nell’arco della storia. Verità ovvia che qui applico a questi 50 anni che ci separano dal Concilio Vaticano II.

1) A 50 anni dal Concilio il mondo è cambiato

Potrei fare un lungo elenco di fatti evidenti:

  • il raddoppio della popolazione mondiale
  • la scomparsa del bipolarismo Usa-Urss
  • il tramonto del sogno delle rivoluzioni armate
  • la crisi profonda, ormai evidentemente sistemica, del capitalismo
  • sta saltando pure l’equilibrio ecologico del pianeta: ed è forse questo il nodo che riuscirà a rimettere in movimento le trasformazioni necessarie sul pianeta, necessarie almeno per la sopravvivenza dell’umanità che lo abita.

Scendendo sotto la superficie dei fatti elencati, due sottolineature mi sembra importante fare:
– Quasi 50 anni fa (1967) la Populorum Progressio affermava che “i poveri restano ognora poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi”; e – anche per evitare “la collera dei poveri” – chiedeva di “promuovere il progresso dei popoli più poveri”. Di fatto oggi quello sfondo di progresso (che allora appariva come illimitato) è andato in frantumi. Direi che drammaticamente si sta facendo chiarezza: i poveri diventano sempre più numerosi e più poveri, mentre i ricchi sono sempre più pochi e più ricchi; cioè oggi appare chiaro – per chi ha occhi per vedere – che l’arricchimento dei pochissimi è possibile solo a costo dell’impoverimento dei tantissimi (“Noi siamo il 99 per cento” era lo slogan del movimento Occupy Wall Street a cavallo tra il 2011 e il 2012).
– Ancora più interessante (e più preoccupante) è osservare come è stata ribaltata la traiettoria del modello di umanità: limitatamente al nostro occidente cosiddetto sviluppato, siamo passati dal “su la testa” – modello Che Guevara, o lotte di liberazione dei popoli o lotte di classe dell’operaio massa – al “giù la testa” attuale: e non si tratta di quel simpatico film sulla rivoluzione messicana (anche quella ha fatto una brutta fine!), ma della cura (sottomissione?) che ogni lavoratore deve avere per non perdersi il posto di lavoro, quando ben riesce ad ottenerlo…
Mi permette però di non sprofondare nella desolazione quello che anni fa mi disse un caro amico che ha vissuto decenni in Latinamerica: “frangar, non flectar = mi spezzo, ma non mi piego” è il modello eroico che la cultura imperiale romana ci ha trasmesso; ma per i poveri vale l’opposto: i poveri si piegano, ma non si lasciano spezzare.

2) A 50 anni dal Concilio io sono cambiato

Cambiamenti nella mia storia personale ce n’è stati, e non pochi: spesso gradualmente maturati dentro una vita che oggi riconosco “guidata” da spinte interiori che non mi permettevano di restarmene là dove mi trovavo (me lo chiedo con un certo pudore: non agisce così il vento di cui parla il terzo capitolo di Giovanni?)
I miei cambiamenti che posso leggere in superficie, li elenco così:
– gli anni del mio seminario (’63-68) sono all’incirca quelli del Vaticano II (’62-65): una contemporaneità che spiega non poco della maturazione del mio sguardo e quindi delle mie scelte successive
– pretino giovane e ingenuo, molto cattolico e alquanto democristiano, càpito provvidenzialmente nella periferia metropolitana durante gli anni più caldi delle lotte; ci vuole poco per maturare la scelta di entrare in condizione operaia: la “vedo” nel ’70, anche se riesco a realizzarla solo nel ’76
– negli “anni di piombo” gli operai in fabbrica mi obbligano a ridimensionare nettamente i miei ideali rivoluzionari: non saranno le “avanguardie” (prima quelli di Servire-il-popolo, poi MS e MLS, AO e LC….fino alle BR e a PL), ma saranno loro, gli operai in lotta, il soggetto che può davvero “cambiare lo stato di cose presenti”
– gli anni 80 sono un periodo agitato / tormentato nel quale continuamente mi tocca ri-scegliere di essere prete, sia pure a modo mio
– la perdita per ben due volte del posto di lavoro (prima nell’80, poi nel ’92) mi fa sperimentare la tremenda angoscia dell’operaio che non sa più qual è la sua identità… e ri-scelgo di essere operaio
– dal ’92 al ’95, in seguito alla seconda perdita del posto di lavoro, c’è poi una breve fase di impegno concreto nel sud del mondo (e la botta tremenda – e istruttiva – della guerra in Rwanda)
– il tutto consolida la “milaniana” convinzione di quanto lavoro ancora resta da fare in mezzo al popolo; e quanto sia importante farlo e quanto ancora tocchi a me e quanto ne valga la pena (dove per “milaniana” intendo: convinzione acquisita alla scuola di don Lorenzo Milani, che mi ha trasmesso (per osmosi o per contagio?…) don Cesare Sommariva durante 31 anni di convivenza con lui, che considero non solo amico-compagno-fratello, ma anche padre)
– infine, dal 2005 inizia il tempo della pensione e mi ritrovo (non casualmente, anche se apparentemente per caso) a vivere a Pioltello, in fianco a quel quartiere Satellite di cui ormai tutti mi avete sentito ripetutamente raccontare.
Scendendo sotto la superficie di questo elenco cronologico, riconosco che durante tutti questi anni mi è stato dato di percorrere un cammino che provo a descrivere così:
0. la vita (o il Signore, o lo Spirito, o – direbbe mio padre – la Provvidenza…) mi ha concesso nel meglio dei miei anni giovanili la buona sorte di respirare l’aria buona del concilio Vaticano II: l’annuncio che il Vangelo di Gesù è buona notizia per tutti gli uomini, anzitutto per i poveri
1. per portare questa buona notizia io sono diventato prete nella Chiesa, mandato in un quartiere di poveri (la mia prima destinazione, una vera benedizione!); mandato a dire e a fare questa buona notizia; un fare che spiega il dire e un dire che spiega il fare
2. pochi anni bastano per compiere il passaggio dal dire al fare senza più la necessità di dire; e mi schiero anch’io insieme ai poveri in lotta per la giustizia: era il periodo alto delle lotte operaie, che tentavano di raggiungere anche il territorio (la breve stagione dei consigli di zona, prolungamenti sul territorio dei consigli di fabbrica): sono stati per me quasi 30 anni di vita
3. infine è maturato – nel tempo della pensione – il passaggio dal fare-con gli operai (sul posto di lavoro come sul territorio dei quartieri proletari) all’essere-con i poveri dei quartieri diseredati, invasi dalla nuova migrazione dal sud del mondo; essere con loro tanto più, quanto più le prospettive di futuro si fanno buie…
E così mi ritrovo a tornare a qualche anno prima del Concilio, quando René Voillaume – letto in un gruppo di giovani, io avevo non più di 20 anni – ci guidava a respirare il sogno di “Come loro”: vivere con loro, anzi come loro… Sogno che ho ritrovato recentemente in una lettera splendida (ma troppo lunga per riprodurla qui…) che da Città del Messico scriveva la “vagonera” Piccola Sorella Blanca 13 anni fa (lettera che, dimenticata tra le carte, mi è capitata tra le mani proprio pochi giorni fa; sarà un caso, o…?).

3) Concludo

Schematizzando, i passaggi di questi miei 50 anni sono tre:
1. da una fase giovanile, in cui il dire-a è necessario in fianco al fare-per
2. a una fase adulta (l’adulto maturo e responsabile di cui scriveva don Cesare? discutibilissimo, comunque, che io sia stato davvero maturo e responsabile!) in cui necessario è il fare-con, preferibilmente nel silenzio (il dire non è più così necessario)
3. alla fase attuale (l’adulto spirituale cesariano?) in cui l’unico necessario è semplicemente l’essere-con.
Mi tocca riconoscere quindi che, ancora a monte del meraviglioso stravolgimento di sguardo che è stato il concilio, c’è un seme che è stato seminato ben prima (2000 anni fa a Nazareth?) e che io stesso mi ritrovo dentro profondamente radicato: ben prima quindi del Vaticano II, i modelli di Charles de Foucauld, di Madeleine Delbrel, dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle, e i preti inviati da Suhard clandestinamente nei campi di concentramento (stupendo il racconto di Wanda Poltawska che trascrivo qui sotto: fare la comunione nella baracca 15 del campo di Ravensbruck)… e perché non anche il modello della giovane ebrea Etty Hillesum?
È proprio con le parole di Etty, scritte poche settimane prima della sua partenza per Auschwitz, che mi sento in profonda sintonia, tanto più quanto più le prospettive dell’immediato futuro si fanno buie:

“Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati” (Lettere, 4 novembre 1942).

Insomma, riconosco …e rendo grazie anche per queste sorprendenti sintonie!
…sapendo bene che il cammino continua, anche se non so/sappiamo come…

LUIGI CONSONNI

 


 

A Neustrelitz c’erano dei ragazzi polacchi che facevano parte di uno stalag (campo di prigionia militare) [con i quali iniziò un ricco “contrabbando” non solo di viveri, ma anche di libri]. A metà settembre, quando venimmo a sapere che i ragazzi avevano con loro un sacerdote francese, il contrabbando arrivò al culmine. In una scatoletta di latta ci facemmo portare delle ostie bianche: il Santissimo. Quella volta nel blocco 15 il silenzio fu profondo e sacro. Le donne controllavano le finestre di tutti i lati del blocco e i corridoi. Fra i letti, file di donne camminavano per andare a prendere un frammento di ostia bianca. Dall’alto del mio tavolaccio, guardavo quei volti silenziosi e solenni che si illuminavano. Alcune stavano vivendo un miracolo; altre, avvertendo il battito del proprio cuore tormentato, invidiavano la pace delle prime; altre ancora stavano in silenzio, senza capire nulla. Nessuno profanò quel momento (Wanda Poltawska, “E ho paura dei miei sogni. I miei giorni nel lager di Ravensbruck”, San Paolo Edizioni).


 

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