Editoriale
Occorre scoprire «tutta l’urgenza e le ombre
di qualcosa che non riusciamo davvero a guardare:
il destino dell’umanità» (Giorgio Agamben)
Nel secolo scorso ci sono giunte le immagini del pianeta azzurro osservato dalla luna. Colpisce guardarsi dal di fuori, immersi in spazi infiniti, e tutti insieme. Da questo punto di vista le nostre abissali distanze dagli altri, le frontiere di divisione qui sulla terra, sono ridotte a miniature invisibili.
Sempre nel secolo scorso, lo sviluppo del potere tecnologico ci ha condotto a consegnare in mani umane la capacità di autodistruzione totale della nostra biosfera. Era la prima volta che succedeva da quando gli umani erano comparsi. L’apocalittica che prima apparteneva al linguaggio mitologico è diventato messaggio scientifico. E in qualche parte del mondo esistono dei bottoni che, se premuti, possono davvero scatenare l’apocalisse totale.
Ma c’è ancora di più. Il normale andamento innescato da quella che chiamiamo la civiltà occidentale, il sistema di produzione e di consumo, che in maniera tentacolare si è diffuso come vincente in tutto il mondo, si rivela sempre più insostenibile per il pianeta.
Il recente documento dell’Onu-IPCC (International Panel on Climate Change) afferma che se i paesi della Terra non prenderanno provvedimenti per limitare i gas serra, il riscaldamento globale potrebbe superare la soglia di 1,5 gradi, rispetto al periodo pre-industriale, già nel 2030.
Anche con un +1,5°C gli impatti saranno pesanti e in alcuni casi irreparabili: alterazione delle precipitazioni, intensificazione e prolungamento dei periodi di siccità e delle inondazioni, innalzamento del livello del mare, distruzione di ecosistemi e scomparsa di biodiversità, aumento di fenomeni estremi…
In questi giorni a Katowice, cuore dei bacini carboniferi polacchi, è in corso COP 24, la ventiquattresima conferenza mondiale organizzata dall’ONU sul clima. “La minaccia posta all’umanità dai cambiamenti climatici non è mai stata così grave e questo deve spingere la comunità internazionale a fare molto di più”. È quanto ha detto il Segretario esecutivo della Convenzione quadro Onu sui cambiamenti climatici (UNFCCC), Patricia Espinosa, aprendo i lavori della conferenza. La presenza di negazionisti del problema, Trump per gli USA a cui si aggiunge Bolsonaro, nuovo presidente del Brasile, diventa un duro ostacolo a dare efficacia al precedente accordo di Parigi del 2015. Mentre le emissioni globali di CO2 sono di nuovo aumentate nel 2017.
L’esperienza testimonia come ci sia una grandissima differenza tra ciò che i singoli paesi si impegnano a fare, contro il riscaldamento globale, e i risultati che poi raggiungono. Sulla carta si impegnano a ridurre le emissioni, passando per esempio all’impiego di fonti rinnovabili e riducendo la loro dipendenza dai combustibili fossili, ma nei fatti agiscono spesso al contrario mantenendo un forte impiego di carbone, petrolio e suoi derivati per produrre energia.
In Italia, secondo il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche) si registra un’accentuazione dei fenomeni connessi all’innalzamento della temperatura media, con conseguenze tragiche in termini di incendi, perdita di raccolti agricoli e salute dei cittadini. Effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti.
Ma questi problemi non trovano uno spazio reale. La politica energetica prevede l’incremento entro il 2050 dell’utilizzo del gas metano, come se questo non alimentasse le emissioni di carbonio con il relativo aumento dell’effetto serra. Quello che dovrebbe essere un problema dal quale partire per un processo di attivazione delle coscienze per consumi e stili di vita diversi, per scelte strategiche tese a ridurre le emissioni di carbonio, viene semplicemente accantonato, condannato al silenzio.
Le prospettive di altissimo rischio che si profilano per i nostri figli e nipoti e che dovrebbero suscitare una sana paura e la conseguente assunzione di responsabilità verso il futuro, non trovano spazio alcuno nel dibattito politico e nei social media. Prevalgono temi di… distrazione di massa: la politica ridotta a ricerca disperata del consenso e al conseguente tifo che viene sollecitato e organizzato; gli immigrati, i neri, nella funzione di capri espiatori additati come responsabili dei mali dell’Italia, del suo declino, seminando e coltivando un razzismo ottuso, ignorante e perciò pericoloso; una decadenza impressionante del linguaggio, nell’incapacità dell’ascolto reciproco e quindi di un discorso che si costruisca attraverso una dialettica reale delle posizioni.
In assenza di una visione planetaria della qualità dei problemi e a fronte di una sempre maggiore dipendenza della politica dal dominio dei potentati economici finanziari, essa è destinata a svuotarsi per ridursi a una vuota chiacchera. Le stesse istituzioni democratiche appaiono sempre più minacciate nel loro funzionamento e nella stima dei cittadini.
Francamente le predicazioni e le prospettive cosiddette sovraniste sono illusorie, se non ridicole, dinanzi alla dimensione planetaria dei problemi. Anzi addirittura sono come una foglia di fico che serve a coprire i potentati reali che governano l’attuale sistema neoliberista manifestamente iniquo.
America first, Deutschland uber alles, prima gli italiani… ecc. sono presupposti che certamente non vanno nella direzione di un destino umano inclusivo aperto alla dignità di ogni essere umano e inoltre impediscono una visione globale dei problemi, neppure nella prospettiva del futuro prossimo.
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Il 13 ottobre scorso a partire dall’Honduras è iniziata una marcia verso gli Stati Uniti. Sono migliaia di persone, famiglie intere, bambini e anziani in cammino, perfino con sedie a rotelle. Fuggono da una situazione invivibile in cerca della vita. È questa la molla che li spinge a un’impresa che a noi sembra disperata.
La carovana si è arricchita di nuovi arrivi da El Salvador e Guatemala. Sono entrati in Messico e lo stanno attraversando. C’erano delle barriere, ma le hanno superate. Le prime avanguardie sono giunte al confine USA.
Camminano e vivono dell’aiuto che ricevono dalle popolazioni che incontrano nel loro tragitto. Cercano una terra promessa, una terra mitica dove poter vivere. Cantano, portano le loro bandiere, gridano slogan. Credono nella forza del loro essere insieme, una forza non violenta.
Vi è chi in questa marcia vede una riedizione di altre marce non violente, anche quelle apparentemente folli per l’abituale modo di pensare di chi sta seduto in poltrona. Vengono in mente la Marcia del sale guidata da Gandhi in India nel 1930 e la marcia su Washington per il lavoro e la libertà del 1963 chiusa con il celebre discorso di Martin Luther King “I have a dream”: ho un sogno.
Oggettivamente è un salto qualitativo rispetto al fenomeno migratorio, nel quale le persone tendono a nascondersi. Loro parlano con i giornalisti. Vogliono la visibilità. Il Centro America è sempre stato pensato come il cortile di casa degli USA. Ora questi abitanti del cortile dove non è più possibile vivere proclamano apertamente il loro diritto alla vita e la vanno a cercare là dove immaginano che ci sia un posto anche per loro.
“Gli honduregni della carovana non possono tornare indietro. Lì li aspettano pallottole, minacce, fame e malattie. Sanno anche che le possibilità di arrivare sono minime, che le porte sono chiuse, che possono incappare nell’esercito come promesso da Trump, o che gli possono strappare i bambini dalle braccia. Più che un’opportunità, si aspettano un miracolo” (Sebastian Escalòn).
Ma è già un miracolo percorrere 4.700 Km in quelle condizioni. Lo è l’aiuto che lungo il cammino ricevono dalla gente per poter continuare.
Chi sa come potrà finire. Trump, da par suo, promette pallottole al popolo che cammina, e invia migliaia di soldati alle frontiere, dopo aver minacciato il presidente dell’Honduras, poi quello di El Salvador e del Guatemala di emanare sanzioni se non avessero bloccato quella marea umana.
Noam Chomsky parla di una «tragica farsa» inscenata da Trump: «madri, bambini, poveri, miserabili – ha dichiarato a Democracy Now – fuggono dal terrore e dalla repressione di cui siamo noi i responsabili e per tutta risposta mandiamo loro contro migliaia di soldati». Cercando con ciò di far credere al paese che «siamo alle soglie di un’invasione».
La marcia ha già fatto il giro del mondo, nonostante l’oscuramento dei media, e grida il diritto di emigrare come diritto alla vita fuggendo la fame, la disoccupazione, la siccità, la violenza delle bande, la corruzione appoggiata dallo stesso governo Trump sia in Guatemala sia in Honduras. A chi sostiene il diritto al profitto ad ogni costo e la libertà di cercarlo in qualsiasi angolo del mondo, questi poveri affermano il loro diritto alla vita anche varcando le frontiere. Perché questo diritto deve valere solo per i capitali?
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Vi è una connessione stretta tra i cambiamenti climatici e le migrazioni. I migranti climatici sono destinati ad aumentare per gli effetti devastanti che l’aumento della temperatura produce. E succede questo di paradossale: le economie più ricche sono le maggiori responsabili della produzione degli agenti che producono l’effetto serra, mentre le più deboli sono in quei territori che vengono maggiormente aggrediti.
Nella ricerca presentata a Parigi nel 2015 Oxfam denunciava la seguente situazione: «Il nuovo rapporto dell’Oxfam Disuguaglianza climatica, formalizza il triste quadro che si sta profilando negli ultimi anni con dati allarmanti: il 10% della popolazione più ricca della Terra è responsabile del 50% delle emissioni di anidride carbonica in atmosfera, mentre la metà più povera della popolazione mondiale, circa 3,5 miliardi di persone, ne produce solo il 10%, pur essendo la prima vittima di alluvioni, siccità e altri cataclismi legati agli effetti dei cambiamenti climatici».
In questi tre anni certo non è avvenuta un’inversione di tendenza, anzi. Da un lato il mondo più ricco produce la invivibilità in molti territori da cui le popolazioni sono costrette a fuggire, dall’altro questo mondo blinda le proprie frontiere e costruisce muri e coltiva rigurgiti razzisti.
Secondo le Nazioni unite nel 2050 gli emigranti climatici saranno 250 milioni e di questi l’80% si trova al sud del mondo. All’inizio del ‘900 la popolazione europea era il 25% dell’umanità, ora è scesa all’11% e in prospettiva diminuirà ancora; e in più, con l’attuale trend, è destinata ad invecchiare ulteriormente. È pura illusione pensare che il filo spinato riuscirà a tenere lontana la massa umana che cerca lo spazio per vivere.
Quanto sta avvenendo non sono soltanto alcuni cambiamenti nel mondo, ma una vera metamorfosi, come scrive Ulrich Beck nel suo ultimo libro lasciato incompiuto per l’improvvisa sua scomparsa:
«Galileo scoprì che non è il Sole a girare intorno alla Terra, ma la Terra intorno al Sole. Oggi siamo in una situazione diversa, ma per certi aspetti simile. Il rischio climatico, ad esempio, ci insegna che la nazione non è il centro del mondo. Il mondo non gira attorno alla nazione: sono le nazioni a girare attorno a quelle nuove stelle fisse che sono il “mondo” e “l’umanità” […].
“In che mondo viviamo davvero?” La mia risposta è: viviamo nella metamorfosi del mondo. Ma è una risposta che richiede al lettore la disponibilità ad accettare il rischio di una metamorfosi della sua visione del mondo.
E naturalmente c’è un’altra parola molto pesante nel titolo di questo libro: la parola “mondo”, strettamente legata al termine “umanità”»
(U. Beck, La metamorfosi del mondo, Bari-Roma 2017).
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Le riflessioni che seguono, in particolare le relazioni del nostro convegno del giugno scorso, ci possono aiutare a ridefinire una visione del mondo e dell’umanità più vicine alla metamorfosi che sta sconvolgendo i nostri consueti orizzonti. Si tratta di entrare in un territorio ignoto e inedito. Nella metamorfosi di un mondo che sta già accadendo.
Roberto Fiorini